Ormai scrivo solo sul mio diario

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Lucio Luca, giornalista di Repubblica e autore del libro “L’altro giorno ho fatto quarant’anni” (Laurana editore)

Quella notte mi ero ritrovato solo, sul divano di casa, a piangere senza un motivo. Anche se un motivo, poi, avevo capito che c’era: la mia vita stava andando a rotoli, mia moglie era sempre più gelida, il lavoro ormai era diventato un peso, gli amici se ne stavano andando tutti. Qui, in Calabria, non c’è futuro. E io che mi ero illuso di cambiare la mia terra, con i miei articoli e la schiena dritta, avevo sbagliato tutto.
“Tra il caldo, la precarietà sul lavoro e le nevrosi di mia moglie mi sento impazzire. Sono depresso, non ho più interesse per le cose. Il giornale ha perso l’11 per cento delle copie, il direttore è una condanna”.
“Odio il mio editore. Pensa che pagandoci di meno, facendoci sentire precari, otterrà qualche risultato. Avrà un’amara sorpresa”.
“Pierino vuole fare il giornale con i ragazzini, così può sfruttarli tranquillamente eliminando senza troppe difficoltà noi professionisti. Se non succede qualcosa di buono, magari un lavoro da qualche altra parte, mi aspetta un altro anno molto duro. Non gliela darò vinta. Mai”.
Da quando mi avevano sbattuto al desk il diario era l’unico posto in cui potevo scrivere qualcosa. Noi “vecchi” del giornale eravamo stati messi da parte. Ci avevano “posato” come fanno i boss mafiosi con i traditori o con quelli che non servono più. Io, Marco, Rosa, Pietro. E anche i collaboratori storici come Alfredo, per esempio. Con loro ci ritrovavamo spesso la notte in pizzeria, l’unica aperta fino a tardi, a interrogarci se vale ancora la pena di farlo questo maledetto mestiere. E soprattutto se vale la pena di farlo in questa maledetta terra.
“Che cazzo di futuro stiamo preparando per i nostri figli? Perché continuiamo a farli vivere in un posto dimenticato da Dio?”. Marco è sempre stato il più incazzato di tutti. Di solito era lui a cominciare le nostre sedute di autocoscienza collettiva.
“Ma vale la pena di fare ancora questo lavoro? Voglio dire, per quei quattro soldi che ci danno, è giusto subire umiliazioni dei padroni e magari le minacce della mafia?”.
La più lucida, come sempre, era Rosa: “Noi questo mestiere non ce lo siamo scelti. E’ stato lui che ci ha presi, sequestrati, rapiti. Poi ci ha fatto il lavaggio del cervello e oggi non siamo in grado di fare nient’altro che i giornalisti. Falliti, forse, ma sempre giornalisti”.
Farlo in Calabria, però, è davvero più difficile. Qui politica e malaffare si fondono, non sai mai dove finisce una cosa e dove ne comincia un’altra. I giornalisti lo scrivono, inchiodano stimati consiglieri comunali e regionali, rivelano i loro legami con la criminalità. E poi? Un mese dopo quelli si ripresentano alle elezioni e prendono il doppio dei voti. E allora i cronisti, quelli che vogliono ancora bene a questo mestiere malgrado stipendi da fame, umiliazioni e angherie, cadono nello sconforto e si domandano se serve ancora il loro lavoro.
“Ma perché l’opinione pubblica, la gente, i calabresi, non si indignano mai? Questa cosa mi fa impazzire, quanto è vero Dio”.
Eppure lo so bene perché. Qui c’è sempre bisogno di chiedere un posto di lavoro, per sé o per i propri figli. La politica calabrese è un ufficio di collocamento permanente. Chi riesce a dare lavoro, o anche solo a prometterlo, ha un potere enorme. Così la ‘ndrangheta alimenta le sue clientele e gestisce enormi pacchetti di voti. E può decidere chi far eleggere o meno. Perché l’indignazione passa, il posto di lavoro resta.

Fonte mafie.bloglarepubblica