Confessioni di un padre

Conobbi la storia di Emilio Di Giovine tramite i racconti di sua sorella Rita, tra le prime donne di ‘ndrangheta a trovare il coraggio, nel 1993, di collaborare con la giustizia.
Una giustizia incarnata dal dottor Maurizio Romanelli, allora Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano che, dopo aver raccolto la testimonianza di Rita, coordinò l’operazione investigativa “Belgio”, che portò alla cattura di Emilio.
Conosciuto come “il re dell’hashish”, l’uomo era a capo, assieme alla madre Maria Serraino, di un’organizzazione di stampo ‘ndranghetista attiva, tra gli anni ottanta e novanta, nel traffico internazionale di stupefacenti.
Quando intervistai Rita nel 1998, in occasione della mia tesi di laurea sul ruolo delle donne nelle mafie, Emilio era sottoposto al 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”, ed era considerato un irriducibile. Nessuno avrebbe mai scommesso su un suo eventuale pentimento.
E, invece, nel 2003 Emilio prese la strada della collaborazione con la giustizia. Le parole di Rita e le carte processuali mi avevano permesso di ricostruire la storia della famiglia Serraino-Di Giovine. Ma raccogliere direttamente la testimonianza di Emilio mi avrebbe consentito di aggiungere un tassello fondamentale, una prospettiva interna straordinaria per capire più a fondo le dinamiche ‘ndranghetiste sul piano della sfera privata e su quello delle attività criminali. Per questo decisi di intervistarlo.
Così tra il 2008 e il 2011, autorizzata dal Ministero dell’Interno (Commissione Centrale ex art. 10), lo incontrai in diverse questure del Nord Italia. Dai nostri lunghi incontri e dalla ponderata opera di riordino delle tracce biografiche, da me condotta evitando di tradire il sapore dell’oralità offerto dalla fonte viva del testimone, ebbe origine “Confessioni di un padre”.
Un libro che racconta l’ascesa criminale di un uomo cresciuto in una famiglia di ‘ndrangheta e la sua svolta identitaria che ha accompagnato la scelta di collaborare con la giustizia.
“Ascoltando” le parole di Emilio, il lettore può fare esperienza di una vita cinematografica, costellata di rapporti avventurosi con diverse donne (come quella con una modella, figlia di uno tra i più importanti trafficanti di armi in ambito internazionale, conosciuta casualmente sull’aereo ignorandone la provenienza familiare) e di varie fughe dalle carceri (non solo italiane, ma anche portoghesi e americane); può ripercorre la configurazione criminale di Milano negli anni settanta e ottanta attraverso i racconti sulle conquiste delle piazze per controllare il traffico di droga, sul dominio militare e sociale di piazza Prealpi, sulle forze dell’ordine a libro paga del gruppo criminale, sulla spietata seconda guerra di ‘ndrangheta che ebbe delle ripercussioni sul territorio lombardo; può cogliere cosa significhi crescere in una famiglia di ‘ndrangheta, dove i bambini maschi sono sottoposti, nel percorso formativo che li porterà a divenire degli “uomini d’onore”, a prove di “virilità”, come quelle riportate in questo racconto:
“Ero un picciottino quando mio nonno per renderci più masculi costringeva me e i miei cugini a mangiare il peperoncino direttamente dalla pianta. I miei occhi piangevano, ma dovevo resistere per dimostrare di essere uomo. Piangevo come un coccodrillo. Mi facevano anche girare il sangue del porco, a Natale. Avrò avuto suppergiù quattro anni, al massimo cinque. Il maiale veniva messo su un tavolo, e in più persone lo tenevano legato. A Gambarie lo si faceva, in campagna. Il nonno infilava il coltello in gola al maiale, gli usciva il sangue, strillava, gridava come un dannato, e io dovevo girare il sangue caldo, perché non si coagulasse, per fare il sanguinaccio. Se non lo giri, il sangue si coagula. Quindi da bambino per farmi venire coraggio mi mettevano a me, lì, a fare questo mestiere. E io piccino mi atteggiavo che ero capace di farlo, figurati come ero scemo anch’io, con quella mentalità, la mentalità per cui dovevi essere un duro. Il maiale urlava e io lì a mescolare il sangue. Ancora adesso mi torna in mente con disgusto, è stato uno shock.”
La sorpresa del ricordo di episodi dolorosi dell’infanzia che erano sconosciuti alla sua memoria, la soddisfazione di una vita da pentito faticosa ma onesta, dedicata al volontariato, e il desiderio di fare da padre all’ultima figlia hanno sostenuto la volontà di Emilio di rendere pubblica la sua biografia per porsi come esempio negativo per tutti quei giovani che rischiano di essere attratti dal fascino di una vita criminale che, come lui sostiene, non è altro che “una chimera che si scioglie come neve al sole”.
La vicenda criminale di Emilio dista trent’anni dall’operazione Crimine-Infinito, l’indagine che nel luglio del 2010 ha “svegliato” l’opinione pubblica milanese riguardo alla presenza della ‘ndrangheta in Lombardia. Nell’operazione “Belgio”, così come nelle coeve indagini “Nord-Sud”, “Fiori della notte di San Vito” c’erano già tutti gli elementi per capire la portata di tale presenza. Rileggere le parole di Emilio appare dunque molto istruttivo per rintracciare le radici della realtà attuale. E non solo.
Permette di comprendere la valenza conoscitiva della testimonianza dei collaboratori di giustizia sia in ambito giudiziario sia in quello storico-sociologico, così come messo in evidenza nell’appendice metodologica del libro “dare voce a un ex mafioso”.

fonte http://mafie.blogautore.repubblica.it/