Caso Saguto, i sequestri Niceta ed Elgas Tra società fallite e dipendenti licenziati

Ascoltati dai giudici di Caltanissetta alcuni imprenditori, costituiti parte civile, le cui aziende sono state sequestrate dall’ex presidente ora sotto accusa e amministrate da avvocati che, di fatto, le avrebbero riconsegnate «tutte colate a picco»

Parlare delle disfatte relative a “Cerchio Magico” significava finire anche in qualche inchiesta giudiziaria. Peccato che nessuno ha mai indagato sul sistema di difesa subliminale applicato da certi magistrati per nascondere molte vergogne poi venute fuori dall’inchiesta. Del resto non è difficile incriminare qualcuno e in modo artificioso come ha messo in evidenza il Sistema Montante. “tintu cu annagghia”

Prosegue a ritmo serrato il processo in corso a Caltanissetta sulla presunta mala gestiodei beni confiscati da parte dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, caso in cui sono coinvolti a vario titolo anche suoi famigliari, avvocati e amministratori giudiziari. A sedere sul banco dei testimoni, due giorni fa, sono stati alcuni imprenditori costituiti parte civile al processo, le cui società sono state sequestrate all’epoca della gestione Saguto. Il primo a essere sentito è Massimo Niceta, che insieme ai fratelli Piero e Olimpia gestiva un’attività di vendita al dettaglio di abbigliamento. «Nel 2009 siamo stati raggiunti, io e mio fratello, da un avviso di garanzia su un’ipotesi di reato di intestazione fittizia di beni, archiviato a settembre 2010 perché il gip e il pm non hanno ravvisato estremi per un eventuale rinvio a giudizio. Dopodiché il nostro lavoro è continuato regolarmente senza nessun tipo di intoppo, anzi – spiega il teste in aula -, la nostra attività si è ulteriormente allargata. Ma a dicembre 2013 siamo stati raggiunti da due procedimenti di misure di prevenzione, uno emesso dal tribunale di Trapani, l’altro emesso dal tribunale di Palermo, la sezione era presieduta dalla giudice Silvana Saguto; quest’ultimo riguardava il nostro intero patrimonio, sia personale che aziendale».

Per entrambe le procedure viene nominato amministratore giudiziario l’avvocato Aulo Gabriele Gigante, tra gli imputati del processo, accusato di corruzione. Per l’accusa avrebbe «promesso a Silvana Saguto l’utilità rappresentata dall’inserimento lavorativo del figlio di un’amica cancelliera nella gestione del compendio in sequestro Niceta», citando le carte dell’indagine. «Il patrimonio, se si può continuare a chiamarlo così, c’è stato restituito. Le società sono praticamente tutte fallite, non ce n’è nessuna in piedi– spiega il teste -. All’epoca del sequestro avevamo circa 15 punti vendita sparsi fra Palermo, Marsala, Trapani, Castelvetrano, Agrigento, Carini, Borgetto, alcuni in centro storico e altri nei centri commerciali, con circa un centinaio di dipendenti. Di questi nessuno è aperto, tutti i dipendenti sono stati licenziati, personale che era stato assunto da noi mano a mano che negli anni cresceva la nostra attività». Già il giorno stesso della notifica del sequestro sarebbero stati assunti dei «fiduciari dell’amministratore giudiziario, non saprei in che altro modo definirli».

Persone chiamate dall’avvocato Gigante, assunte in pianta stabile o chiamate per prestazioni occasionali, che di fatto si aggiungevano al già corposo team di dipendenti che vantavano le aziende Niceta, poi gradualmente licenziati. Per i primi sei mesi Massimo e Piero Niceta, per via delle loro competenze e del ruolo svolto fino a quel momento all’interno dell’azienda continuano a lavorare, anche se «non formalmente autorizzati», «non regolarizzati e non pagati»: «Lo abbiamo fatto perché da un lato pensavamo che la misura di prevenzione durasse solo alcuni mesi, come era stato per l’avviso di garanzia, fiduciosi di non avere alcun problema; dall’altro perché avevamo chiesto di essere almeno regolarizzati e stipendiati, perché c’era stato tolto l’intero patrimonio personale e avevamo delle vite da mandare avanti. Ma non siamo stati mai né regolarizzati né retribuiti per quello che abbiamo svolto, avveniva tutto in maniera ufficiosa», racconta Niceta. Poi i due fratelli vengono allontanati dall’azienda, questa volta con un atto formale del tribunale. Da quel momento si interrompono i loro contatti con l’impresa.

«Spesso ci arrivavano delle lamentele da alcuni nostri dipendenti rispetto ai nuovi portati in azienda dall’amministratore giudiziario, che erano assolutamente inesperti e inadatti rispetto al ruolo che dovevano svolgere». Qualcuno era stato messo a fare il cassiere, altri i magazzinieri, altri ancora gli addetti alla vendita; c’erano professionisti, ingegneri, commercialisti, «duplicati del nostro personale, che era già sufficiente per la vita aziendale e che era formato per svolgere il ruolo che ricopriva». Fino a che Massimo e il fratello restano in azienda, quindi, la situazione dell’impresa sembra sotto controllo e aprono addirittura un nuovo punto vendita. Mentre dal loro allontanamento in poi «in circa un anno sono stati chiusi tutti i punti vendita e licenziato tutto il personale. Noi abbiamo rispettato il provvedimento che ci imponeva di allontanarci – sottolinea il teste -, e l’azienda è colata a picco. Nel momento in cui l’amministrazione giudiziaria ha caricato l’azienda di tutte quelle unità lavorative supplementari delle quali non c’era, nella maggior parte dei casi, alcun bisogno, e che non hanno portato alcun beneficio all’azienda il piano concordatario è stato disatteso, ma non da noi che non avevamo possibilità di intervenire».

Simili le sorti di un’altra società, la Elgas srl, cui amministratore unico, oggi come allora, è Elisa Di Giovanni. «Avevo il 50 per cento della Motoroil, società che aveva preso in affitto gli impianti della Motorgas. Ma aveva un contratto di affitto anche con la Blugasper piccoli serbatoi, bombole e automezzi, e con la Sogegas, da cui affittava lo stabilimento, gestite dal mio ex marito», spiega subito l’imprenditrice. Gli amministratori giudiziari arrivano nel suo stabilimento a maggio del 2015, «hanno bloccato tutto, ci dissero che c’era un sequestro per mafia e che l’amministratore giudiziario era Nicola Santangelo, che io avevo conosciuto già a dicembre del 2014, quando ero riuscita a ottenere lo scioglimento della Motoroil dopo anni di cause, perché lui in quella circostanza rappresentava legalmente un altro socio e la moglie». Circostanza che avrebbe potuto sin da subito, quindi, rappresentare un contrasto, un conflitto d’interesse in qualche modo.

Nella ricostruzione dell’accusa Santangelo, tra gli imputati del processo, «secondo un modulo operativo realizzato attraverso la commissione di delitti di falso ideologico teleologicamente connessi a delitti di abuso d’ufficio, licenziava dipendenti delle società oggetto di sequestro, spesso dotati di alta professionalità in relazione alle mansioni svolte, al fine di inserire nelle amministrazioni giudiziarie propri familiari o conoscenti, o metteva arbitrariamente in liquidazione le società ricadenti nei compendi patrimoniali in sequestro, con l’avallo di Silvana Saguto, la quale autorizzava e ratificava le istanze volte ai licenziamenti, alle conseguenti nuove assunzioni, o alla messa in liquidazione delle società», per citare ancora le carte dell’inchiesta. «Io sono stata allontanata dopo due giorni e mia figlia licenziata, ho saputo che la Elgas è rimasta attiva fino ai primi di luglio, ma già da giugno Santangelo aveva sospeso l’acquisto di carburante per rifornire le bombole – spiega la teste -. Hanno licenziato tutti i lavoratori, mentre lo stabilimento, rimanendo chiuso, ha subito un sacco di furti e danneggiamenti. A marzo 2016 la società viene dissequestrata ma mi viene restituita soltanto l’8 aprile».

Quel è la situazione degli impianti, al momento del suo rientro in azienda? «Un disastro assoluto – risponde secca Di Giovanni -. Erbacce ovunque, mezzi vandalizzati e privi di tutto, e la documentazione dell’amministratore giudiziario l’abbiamo avuta solo in parte, il resto non l’abbiamo mai avuto. L’attività è stata ripresa il primo giugno e la società era ancora in liquidazione, che abbiamo potuto revocare solo a dicembre 2016. Perdita di oltre 134mila euro. Tra l’esercizio del 2016 (sette mesi) e il 2017 c’è una differenza di utili di 172mila euro, con una differenza di fatturato di un milione e 611mila euro. Solo dopo l’attività si è riassestata. Se uno non conosce il mestiere le bombole le perde». E alla precisazione del difensore che rappresenta Santangelo, l’avvocato Franco Lo Sciuto, che ha tirato in ballo le 333 pec inviate all’epoca della gestione dall’amministratore giudiziario a tutte le società operanti nel settore, segno del suo impegno, la replica della donna è diretta e chiara: «Ma certo lui quanto ha lavorato? Un mese e mezzo. Se stava a lavorare quanto si doveva lavorare avrebbe visto che le bombole giravano ed entravano e che la società funzionava e guadagnava, invece così ha fatto una dispersione di bombole assoluta, le ha distrutte».

Fonte Merdione news