Il tempo dell’indifferenza

“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case” scriveva Primo Levi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Parlava di deportazione, di dignità rubate, di uomini e donne senza peli e capelli, parlava di numeri indelebili impressi sulla pelle e sull’anima, di presunta superiorità di razza, di corpi trasformati in fumo nel cielo, di noi e voi, di vincitori e vinti, di sì e no pronunciati da altri e a causa dei quali si poteva morire. Parlava di indifferenza, di tiepide case chiuse dall’interno, sorde e cieche di fronte allo sterminio che non assolve nessuno.
Sono trascorsi decenni da quell’abominio che sono stati i campi di concentramento, eppure le parole di Levi non di rado ci suonano familiari e quelle immagini scolpite per sempre nella Storia come eterno memento tornano di fronte ai nostri occhi quando sentiamo del fango nel quale qualcuno è costretto a lavorare, quando ci arrivano le foto delle scuole e degli ospedali distrutti dalla guerra, quando incontriamo chi lotta ogni giorno per mangiare un po’ di pane, quando nei campi gli uomini e le donne sono ridotti in schiavitù, quando si fugge da terre senza pace, quando il colore della pelle si trasforma in discriminazione, quando le moschee non vengono inaugurate, quando si fa differenza tra i morti di diverse religioni, quando la violenza diventa un modello, quando il diritto alla vita non è garantito, quando un sì o un no possono condannarci a morte…
Allora mi domando chi sono oggi quei “voi che vivete sicuri” di Primo Levi? Chi siete?
Siete anche questa volta gli indifferenti, chi non vuole vedere cosa accade nella casa del vicino, chi non si interroga su chi gli è seduto accanto, chi non sceglie per paura di scelte che potrebbero rompere equilibri; chi sa, ma tace, chi vede e non denuncia. Chi non entra nella dimora di un testimone di giustizia per paura di compromettersi agli occhi di chi conta, chi non si esprime per non dare troppo nell’occhio, chi conosce la realtà, ma preferisce credere ai gesti, all’apparenza e alle preghiere pronunciate in maniera plateale in contesti dubbi. Chi sceglie la convenienza, il puzzo del compromesso che è ossigeno per chi non ha polmoni capaci di sopportare il fresco profumo della libertà.
Chi siete voi? Voi che non vi ponete domande su ricchezze manifeste e poco chiare. Voi che sopravvivete in territori in cui ogni gesto ha un significato e decidete di scegliere proprio quel gesto che può garantirvi tranquillità. Chi siete voi? Voi che preferite non sapere cosa accade nel vostro quartiere, a chi appartiene un locale. Voi che considerate le periferie ghetti in cui rinchiudere qualsiasi cosa vi possa precludere la vostra tiepida casa. Voi che sopravvivete in territori in cui non può esistere una distanza tra noi e loro, in cui la ‘pace’ volete sia garantita solo da chi non lo riconosce questo Stato. Voi che per sentirvi sicuri chiudete gli occhi e che, facendo così, condannate voi stessi e chi pensa che la sicurezza nasca solo nel rispetto dei diritti umani.
Ho visto bambini giocare nei campi di calcio tra le Vele di Secondigliano, mentre i genitori andavano a farsi, le vedette controllavano il territorio e alcune donne premurose facevano calare cestini pieni di cibarie per far mangiare chi era ‘costretto’ a stare per ore a fare il palo. Ho visto zombie andare negli scantinati a comprare roba, alla luce del sole, a pochi metri da noi, da voi che vivete sicuri. Ho visto ragazzi che sono vostri figli salire su pullman che anche voi prendete, li ho visi attraversare la città e rifugiarsi nelle periferie a comprare qualcosa che li allontanasse ancora di più da voi e dalle vostre tiepide case. Ho visto bambini, figli di donne incarcerate, costretti al carcere, condannati da innocenti sognare una vita normale al di là delle sbarre, dove vivete voi, dove viviamo noi. Ho incontrato donne cresciute in famiglie di ’ndrangheta credere che la loro sia la normalità e sopravvivere a questa ‘normalità’ usando psicofarmaci, e ho incontrato ragazzi che frequentano i vostri figli rispettare le regole della famiglia.
Ho visto uomini scalzi scendere da navi approdate a poche centinaia di metri da voi, dopo aver attraversato il mare, che le nostre regole non le comprende affatto. Ho visto donne sulle strade di Castel Volturno rinunciare a se stesse per poche decine di euro e ho visto voi accostare le macchine per inventarvi un amore, in una mezz’ora a pagamento.
Li ho incontrati e raccontati anche in quella piazza aperta che è il Trame Festival di Lamezia Terme, una piazza che trasforma un luogo difficile in uno spazio in cui il cambiamento sembra diventare possibile, in cui non c’è confine tra noi e voi, in cui le storie si susseguono, in cui si prova a ragionare su un domani che non assomigli a quello raccontato da Levi.
Li ho incontrati e raccontati in quella piazza, in cui si è parlato negli anni di donne e minori, di infanzie rubate, di periferie, del mare attraversato da canotti o barche fatiscenti, di mafie, di resistenza, di resilienza e coraggio, di persone semplici che hanno fatto scelte difficili perché per loro l’altro non è mai altro da sé. Perché la sicurezza e le vostre tiepide case sicure non possono essere fondate su cecità e pregiudizio, ma sulla presa di coscienza, sulla partecipazione, sul riconoscimento di pari diritti e dignità, su una assenza di periferie intese come sinonimo di pericolosità e marginalizzazione, ma come uno spazio in cui il voi diventa noi, senza soluzione di continuità.
Li ho incontrati e raccontati in questi anni, in molte altre piazze e nelle scuole, nonostante quel noi e voi che troppo spesso è una cortina di ferro di pregiudizi e indifferenza da abbattere.
Ma non è più il tempo dell’indifferenza. Scolpitelo nel vostro cuore.

 

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