Un summit non c’è mai stato

Allo stesso modo, non veniva ritenuta credibile nemmeno la parte del racconto di Andriotta, in cui questi si adeguava alla narrazione, sopravvenuta, della fonte primaria. Emblematico, a tal proposito, quanto affermato da Andriotta proprio sulla riunione che si teneva nella villa di Giuseppe Calascibetta, di cui egli riferiva (come già accennato), esclusivamente, dopo la collaborazione di Scarantino, senza averne mai accennato in precedenza. Andriotta, nel corso dell’esame testimoniale, specificava di aver parlato, per la prima volta, della predetta riunione, ai magistrati inquirenti, nel settembre 1994, perché -prima d’allora- aveva paura di fare dette rivelazioni. La sopravvenuta collaborazione del compagno di cella, poi, lo induceva (a suo dire) a riferire anche della predetta riunione, in quanto, diversamente, avrebbe perso di credibilità.
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio della motivazione di tale sentenza d’appello del primo processo sui fatti di via D’Amelio: Andriotta Francesco, ha, dunque, dichiarato di avere, per la prima volta, parlato della riunione dopo avere saputo che Scarantino Vincenzo aveva iniziato a collaborare con lo Stato, essendosi allora preoccupato di perdere la sua credibilità se ne avesse parlato lo Scarantino.
Egli ha aggiunto che non ne aveva parlato prima per paura e, perché, narrando la riunione, sarebbe stato “fin troppo attendibile”; non credeva invece che le sue accuse contro Scarantino Vincenzo e Profeta Salvatore – prima della collaborazione dello Scarantino – avrebbero potuto portare alla condanna delle persone chiamate in reità (vedi anche, supra, pag. 397).
Andriotta Francesco ha, quindi, riferito di avere saputo da Scarantino Vincenzo, durante la comune detenzione nel carcere di Busto Arsizio, che la riunione era stata tenuta “in campagna, all’aperto, in una casa pubblica, privata” e che vi avevano partecipato Riina Salvatore, Aglieri Pietro, Cancemi, La Barbera e “La Mattia, Matteo o Mattia” e, forse, Profeta Salvatore; non ricordava, inoltre, se avessero preso parte alla riunione Biondino e Cosimo Vernengo dei quali lo Scarantino gli aveva, comunque, detto che avevano partecipato alla strage.
Conviene riportare testualmente il brano delverbale dell’udienza del 16.10.1997, relativo alla testimonianza resa dall’Andriotta sulla riunione e su coloro che vi avrebbero preso parte (cfr. pag. 144 – 148).
Domanda Ecco, cos’ha saputo lei da Scarantino Vincenzo…. se ha saputo qualcosaa proposito di riunioni, incontri relativi alla strage ?
Risposta Sì, sì. Sì, lui mi disse che ci fu questa riunione, però ora io non mi ricordo bene se fu in campagna, all’aperto, in una casa pubblica, privata; questo non glielo so dire. Mi dispiace, questo non glielo so dire nemmeno oggi. E mi disse che parteciparono dei personaggi grossi: Pietro Aglieri, Salvatore Riina e lo stesso Cancemi e La Barbera, mi disse. Questo io mi ricordo. Salvatore Profeta io non mi ricordo se era presente.
Il collaboratore ha così proseguito:
Domanda Quindi lei ricorda che Scarantino le fece i nomi di Aglieri, Riina, Cancemi e La Barbera ?
Risposta Sì, sì
Domanda Ricorda se le fece qualche altro nome, oppure le fece il nome soltanto di queste quattro persone ?
Risposta No, mi sembra che c’era pure ‘sto La Mania … Matteo … Mania:, non mi ricordo bene, dottore. Comunque mi fece dei nomi. Ecco che io so che Cosimo Vernengo è partecipante della strage ..l ‘ho già detto nel primo grado di via D’Amelio e lo ripeto ancora oggi perché devo dirlo.
E ancora, su domanda del Pubblico Ministero:
Domanda Lei ricorda se fu fatto in qualche modo, e ci dica lei eventualmente per quali fatti, il nome di tale Biondino?
Risposta Ah, sì, Salvatore Biondino, però mi disse che era partecipe alla strage, ma non sono sicuro se partecipò anche lui …ancora oggi non sono sicuro se mi disse che lui era partecipe alla riunione, oppure no…
Domanda Quindi lei ci sta dicendo: “Ricordo che mi disse che alla riunione avevano partecipato Cancemi, La Barbera, Riina e Aglieri”… mentre di Vernengo e Biondino ci dice: “Mi ha detto Scarantino che hanno partecipato alla strage”.
Abbiamo capito bene ?
Risposta Sì. Però che erano presenti alla riunione non credo… non melo ricordo. Non credo che forse me l ‘ha detto o no, non lo so.
Domanda A proposito del Cancemi, Scarantino le aggiunse qualche particolare, le specificò … ?
Risposta Sì, perché Scarantino era fuori da questa abitazione. Poi fu chiamato ed è entrato dentro, dove c’erano tutti questi grossi personaggi, e disse che Cancemi espresse parere praticamente… era… non consenziente, va’, a questa strage. Questo è vero. Questo mi disse … e c’erano altri, una o due persone, anche loro che avevano espresso un parere non tanto positivo per la strage di via Mariano D’Amelio. Questo me lo ricordo …
Domanda Lo Scarantino le specificò se Cancemi avesse un qualche ruolo in Cosa Nostra ?
Risposta. Sì, disse che era una persona molto di spicco di Cosa Nostra; era una persona che comandava in Cosa Nostra.
Più avanti, sempre su domanda del Pubblico Ministero:
Domanda E di questo La Barbera del quale …
Risposta Ah, io scherzosamente, proprio di questo La Barbera, oggi ricordo – perché il dottor Arnaldo La Barbera mi deve ancora perdonare oggi, che… gli dissi: ‘Ma quale LaBarbera, il poliziotto ?’ . Lui mi disse: ‘No, quale poliziotto. Un altro La Barbera’…
Il 16 Ottobre 1997 Andriotta Francesco ha dunque riferito davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta di avere appreso da Scarantino che ad una riunione sulla strage di via D’Amelio, cui avevano partecipato Riina Salvatore, Pietro Aglieri e, forse, Profeta Salvatore – cioè alla riunione in casa Calascibetta – erano presenti
anche il Cancemi e il La Barbera.
E di ciò egli si mostrò sicuro perché del Cancemi lo Scarantino gli disse che «era una persona molto di spicco in ‘Cosa Nostra’; una persona che comandava» e che, nel corso della riunione, aveva manifestato il dissenso.
Il nome del La Barbera, fattogli dallo Scarantino, gli era rimasto impresso nella memoria, a causa dell’omonimia con il questore Arnaldo La Barbera.
Si è, tuttavia, dimostrato nel precedente capitolo che il Cancemi e il La Barbera (al pari del Di Matteo, di Ganci Raffaele e di Brusca Giovanni, quest’ultimo chiamato in correità dallo Scarantino il 25.11.1994) non hanno partecipato alla riunione nella villa del Calascibetta.
Si è, inoltre, accertato che la falsa chiamata in correità di Scarantino Vincenzo nei confronti del Cancemi e del La Barbera – al pari di quella nei confronti del Di Matteo e di Ganci Raffaele – fu formulata da Scarantino Vincenzo, per la prima volta, il 6 Settembre 1994.
Le false dichiarazioni sono state ricondotte ad una precisa strategia di settori esterni (riconducibili al contesto mafioso palermitano) che hanno interferito nel percorso collaborativo dello Scarantino; strategia rivolta a inquinare deliberatamente le prove e realizzata nell’estate del 1994.
Ma anche nell’ipotesi – non ritenuta da questa Corte – di un’autonoma iniziativa dello Scarantino che – nel lanciare false accuse contro soggetti (che collaboravano, con la giustizia) i quali avevano partecipato alla strage di Capaci e che egli riteneva avessero potuto prendere parte anche alla strage di via D’Aurelio – pensava che avrebbero potuto allinearsi alle sue dichiarazioni sulla riunione, è certo che l’idea nacque nel 1994 e dopo i primi interrogatori dello Scarantino che dei collaboratori di giustizia di allora (Cancemi, La Barbera e Di Matteo) non aveva fatto originariamente alcuna menzione.
Ne consegue che lo Scarantino non ha potuto riferire all’Andriotta che il Cancemi e il La Barbera erano presenti alla riunione nella villa di Calascibetta Giuseppe, durante il periodo di comune detenzione a Busto Arsizio e, cioè, tra il Giugno e l’Agosto del 1993. Ulteriore conseguenza è che la chiamata in reità, formulata da Andriotta Francesco, quale testimone de relato, nei confronti di Cancemi Salvatore e La Barbera Gioacchino, è una chiamata mendace, nel senso che non corrisponde al vero che Scarantino Vincenzo abbia potuto confidare all’Andriotta nel carcere di Busto Arsizio, parlandogli di una riunione prodromica alla strage di via D’Amellio, che Cancemi e La Barbera avevano partecipato ad una riunione di tal genere.Il mendacio di Andriotta Francesco si desume, inoltre, da un particolare che egli ha introdotto e che ha tratto da informazioni giornalistiche, non avendoglielo potuto riferire Scarantino Vincenzo. Il particolare si riferisce all’autovettura con a quale Riina Salvatore sarebbe stato accompagnato alla riunione. Conviene, al riguardo riportare testualmente il verbale del 16 Ottobre 1997 (vedi, supra, pag. 398 – 399 e cfr. verbale citato, pag. 215 – 216):
Domanda E allora, signor Andriotta, Scarantino le disse come era arrivato Totò Riina alla riunione di cui ci ha parlato lei questa mattina?
Andriotta Sì, se io mi ricordo bene, arrivò per ultimo con una Citroen lui mi disse. Se io ricordo bene la macchina era una Citroen. Disse che arrivò per ultimo; prese queste precauzioni, ecco.
Scarantino Vincenzo non avrebbe potuto mai dire ad Andriotta Francesco che Salvatore Riina era arrivato, per ultimo e con una Citroen, avendo egli sempre affermato, sin dal primo interrogatori del 24.giugno 1994, che il Riina era già giunto alla villa del Calascibetta a bordo di una Fiat 126 bianca e non avendo mai fatto
riferimento a un Citroen.
Andriotta ha indicato quest’ultima autovettura per averne avuto conoscenza dai mezzi di informazione: è un fatto notorio che Salvatore Riina è stato catturato a Palermo nel Gennaio del 1993 mentre viaggiava in compagnia di Salvatore Biondino a bordo di una piccola Citroen.
Lo stesso Andriotta, peraltro, ha dichiarato, rispondendo alla domande di un altro difensore, di avere seguito con grande interesse le cronache televisive della cattura di Salvatore Rima ed ha aggiunto di avere così commentato l’arresto del capo di ‘Cosa Nostra’: “Va be’, dopo 24 anni di latitanza, hanno preso la belva” (cfr. verb. ud. 16.10.1997, pag. 278 – 280).
Se, infine, si dovesse ritenere – ipotesi non ritenuta da questa Corte per le considerazioni appena svolte – che effettivamente lo Scarantino abbia parlato all’Andriotta della riunione e della presenza dei collaboratori di giustizia, durante il periodo di detenzione a Busto Arsizio, si dovrebbe necessariamente concludere – posto che è stata raggiunta la prova della loro non partecipazione alla riunione – che lo Scarantino avrebbe raccontato una circostanza non vera.
Né, infine, può ipotizzarsi che Scarantino Vincenzo abbia. potuto fare altre confidenze all’Andriotta in epoca successiva a quella della comune detenzione, posto che non risulta che i due collaboratori abbiano avuto successivi contatti e che lo stesso Andriotta, anche se sottoposto al programma di protezione, è rimasto detenuto in carcere.
Inoltre, la medesima Corte d’Assise d’Appello del primo processo celebrato per questi fatti, riteneva inattendibili le dichiarazioni di Francesco Andriotta sulle minacce delle quali riferiva (come detto, ai Giudici del processo c.d. Borsellino bis), per le osservazioni di seguito riportate:
“Ritiene la Corte che non corrisponda al vero quanto riferito da Andriotta Francesco sulle minacce che avrebbe subito nel 1997 per le seguenti ragioni:
a)Non trova, innanzitutto, una plausibile spiegazione il suggerimento che, secondo il racconto dell’Andriotta, gli sarebbe stato dato dai due emissari di “Cosa Nostra” – così accorti da conoscere tutti i suoi movimenti e da essere informati anticipatamente anche dei permessi premio di cui avrebbe potuto usufruire – di non dar luogo ad una netta ritrattazione davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta ma soltanto di “traballare” e, cioè, di confermare le precedenti dichiarazioni, limitandosi a mostrare qualche incertezza, e a riservare la ritrattazione – che in ogni caso sarebbe apparsa più debole – ad un successivo ed eventuale esame davanti ai giudici (va, peraltro, rilevato che il 17.9.1997 l’Andriotta non poteva sapere che sarebbe stato chiamato a testimoniare davanti a questa Corte, poiché l’ordinanza ammissiva della relativa prova è stata pronunciata il successivo 26.9.1997).
b) Gli emissari di “Cosa Nostra” non avrebbero mai potuto fissargli un appuntamento per il 14 o il 15 Febbraio 1998 (come narrato dall’Andriotta) poiché non potevano sapere anticipatamente se l’autorità giudiziaria avesse concesso all’Andriotta il permesso premio e quando costui ne avrebbe usufruito. (…) L’Andriotta (…) non ha saputo chiarire come gli emissari di “Cosa Nostra” fossero a conoscenza del fatto che egli avrebbe usufruito del permesso premio il 14 o il 15 Febbraio 1998, se non ricorrendo a una vera e propria petizione di principio: gli emissari sapevano del giorno in cui egli avrebbe goduto del permesso premio perché “loro sapevano tutto”. L’Andriotta non ha potuto dare nessun chiarimento perché nessuno poteva conoscere la decisione che avrebbe adottato l’autorità giudiziaria
non a caso il permesso non è stato concesso); neppure gli emissari di “Cosa Nostra” potevano, dunque, conoscere preventivamente il giorno del permesso, non essendo ancora stato emesso dal magistrato di sorveglianza nessun provvedimento.
c)Altrettanto priva di senso logico, ad avviso di questa Corte, è l’indicazione che gli sarebbe stata data nel Dicembre del 1997 – quando già era stato esaminato, come teste, dalla Corte di Assise e non doveva essere più esaminato da questa Corte che aveva acquisito i verbali delle dichiarazioni rese dall’Andriotta nell’altro processo (c.d. “Borsellino bis”) – di nominare come propri difensori gli avvocati Scozzola e Petronio, che sono difensori di alcuni imputati nell’uno e nell’altro processo, tanto più se si considera che egli aveva già deposto il 16.10.1997 e, comunque, che, in qualità di teste, non aveva il diritto di essere assistito da un difensore, a meno di non considerare gli ispiratori delle minacce esercitate nei suoi confronti (ispiratori che secondo lo stesso Andriotta “sapevano tutto”) tanto sprovveduti da ignorare che un teste non può essere assistito dal difensore.
La nomina, poi, dei difensori degli imputati della strage di via D’Amelio portava immediatamente a classificare l’operazione come una manovra ispirata dagli stessi imputati e a vanificare, dunque, il risultato che essi intendevano conseguire con le minacce rivolte ad Andriotta Francesco per costringerlo a “ritrattare”.
d)È, poi, ragionevole ritenere che chiunque avesse voluto influire sulla testimonianza di Andriotta, si sarebbe limitato a chiedergli che smentisse di avere ricevuto confidenze sulla strage di via D’Amelio nel carcere di Busto Arsizio e gli avrebbe ordinato di dichiarare di avere costruito la sua verità mettendo insieme informazioni carpite a Scarantino Vincenzo, notizie pubblicate sui giornali e voci che circolavano nell’ambiente carcerario (questa è, ad esempio, la tesi sostenuta da Scarantino Vincenzo dopo la sua ‘ritrattazione’).
e) È, infine, inspiegabile il motivo per il quale gli emissari di “Cosa Nostra” gli avrebbero ordinato di riferire una circostanza che l’Andriotta non poteva conoscere e, cioè, che Scarantino Vincenzo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti nel carcere di Pianosa: fatto, questo, di cui egli era sicuramente ignaro, essendo stato detenuto con Scarantino nell’estate del 1993, vale a dire, prima del trasferimento di quest’ultimo nel carcere di Pianosa.
Non è chiaro per quale ragione Andriotta Francesco abbia raccontato di minacce mai ricevute: l’unica ipotesi che può essere formulata è quella che egli – con l’invio della nomina dei due difensori e con la richiesta di essere esaminato, avanzata ai presidenti delle due Corti innanzi alle quali si svolgevano i due processi per la strage di via D’Amelio – intendesse riallacciare i rapporti con i magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta i quali, come ha dichiarato lo stesso Andriotta, si recarono a trovarlo dopo avere preso conoscenza della nomina degli avvocati Petronio e Scozzola, attesa la singolarità della nomina. Il racconto delle minacce, sotto altro profilo, mirava a rafforzare il ruolo di collaboratore di giustizia dell’Andriotta il quale, proclamandosi vittima di un complotto e di gravissime minacce finalizzate a ottenere la sua “ritrattazione”, poteva sperare di conseguire tutti quei benefici che non gli erano stati ancora concessi.
È, però, certo – quale che sia la motivazione dell’Andriotta – che gli elementi, acquisiti in questo processo, portano ad escludere l’esistenza delle minacce da lui denunciate come opera di emissari di “Cosa Nostra”.
Ciò influisce negativamente sulla credibilità di Andriotta Francesco poiché dimostra che, per raggiungere i suoi scopi, egli non si è neppure preoccupato di narrare fatti che, nei termini da lui indicati, non hanno trovato il benché minimo riscontro e sono stati contraddetti da altre acquisizioni probatorie.
Possono essere, a questo punto, tratte le conclusioni sulla credibilità del collaboratore di giustizia Andriotta Francesco.
C) CONCLUSIONI.
1. E’ stata dimostrata – ad avviso della Corte – non soltanto l’opportunità di comunicazione, all’interno del carcere di Busto Arsizio, ma l’effettività della comunicazione tra Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco e della verosimiglianza delle confidenze tra i due, anche in considerazione del particolare stato d’animo dello Scarantino (vedi, supra, pag. 401 – 404). Non possono, in conseguenza, essere condivisi gli assunti difensivi tendenti a negare, in generale, l’esistenza dei rapporti tra i due collaboratori e le confidenze dello Scarantino al suo compagno di detenzione.
2. Andriotta Francesco, per effetto del ruolo assunto nell’ambito dei procedimenti per la strage di via D’Amelio, ha conseguito taluni benefici che -data la sua condanna definitiva all’ergastolo – non possono essere ritenuti insignificanti. Risulta, infatti, dalle dichiarazioni rese dallo stesso Andriotta nel processo c.d. “Borsellino bis”, che egli è stato ammesso il 13 Gennaio 1995 al programma speciale di protezione, per sé e per i propri familiari e che, in conseguenza di tale provvedimento, egli sconta la sua pena in speciali sezioni destinate ai collaboratori di giustizia, gode di permessi premio (in deroga alla normativa in materia che prevede la concessione di questo beneficio, per i condannati all’ergastolo, dopo l’espiazione di dieci anni di pena) e la sua famiglia mensilmente ha ricevuto un modesto contributo finanziario. Risulta, inoltre, che – già nel 1995 – Andriotta Francesco ha presentato la domanda di affidamento in prova al servizio Sociale (misura, in generale, prevista per i condannati che devono scontare pene residue non superiori a tre anni). L’istanza (respinta dal competente Tribunale di Sorveglianza, in
ragione della brevità della pena già espiata) è stata riproposta da Andriotta Francesco che, al momento della sua deposizione davanti alla Corte di Assise, era in attesa della decisione dell’autorità giudiziaria. La ricerca di benefici premiali, come già si è osservato, non incide negativamente né sulla spontaneità della scelta di collaborazione né sul requisito del disinteresse (vedi, supra, pag. 405 – 406).
2.L’affannosa ricerca di tali benefici da parte dell’Andriotta – desumibile dalla introduzione, nel corso dell’esame dibattimentale del 16.10.1997 reso nell’ambito del processo “Borsellino bis”, di circostanze nuove o di modificazioni delle precedenti dichiarazioni per adeguare la sua deposizione alla narrazione della fonte primaria e dalla narrazione della vicenda relativa alle minacce che avrebbe subito perché “ritrattasse” (vedi, supra, pag. 406 – 418 e 426 – 430) – impone necessariamente una particolare cautela nella valutazione delle dichiarazioni di Andriotta Francesco al fine di stabilire quali circostanze da lui narrate siano state effettivamente apprese da Scarantino Vincenzo e quali siano, invece, patrimonio di altre conoscenze e riferite all’autorità giudiziaria per conseguire dei benefici. L’unico criterio valido per eseguire questo accertamento – come si è già osservato – è dato dalla coerenza e dalla costanza delle sue dichiarazioni (vedi supra, pag. 418 – 419).
3.Devono, in applicazione del criterio enunciato, essere ritenute inattendibili, come già si è rilevato, le parti della narrazione in cui sono contenute circostanze del tutto nuove o elementi aggiuntivi con i quali il collaboratore ha sostanzialmente modificato il suo racconto per adeguarlo alla narrazione della fonte primaria.
Devono, inoltre, essere ritenuti inattendibili – attesa la complessiva modesta attendibilità di Andriotta Francesco – le dichiarazioni in cui il teste è incorso in contraddizioni delle quali non ha saputo fornire una plausibile giustificazione.
4. Nell’ambito delle dichiarazioni che presentino i requisiti della coerenza e della
costanza tanto più il collaboratore deve essere ritenuto attendibile quanto più è da escludere che egli abbia attinto le sue conoscenze non dal suo confidente (Scarantino Vincenzo) ma da altre fonti.
L’originalità del racconto – rispetto a fonti diverse da quella costituita dalle confidenze di Scarantino Vincenzo – è il criterio che deve essere seguito (e a questo criterio si è attenuta la Corte) per escludere che il teste abbia potuto riferire circostanze apprese da fonti di informazione diverse da quelle del suo confidente.
Ne consegue che l’attendibilità delle dichiarazioni di Andriotta Francesco è tanto più alta quanto più le circostanze da lui narrate non erano altrimenti conoscibili se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (erano, cioè, circostanze nuove e mai diffuse da organi di informazione); l’attendibilità è, invece, più bassa quando il racconto di Andriotta Francesco può essere fondato su fonti diverse dalle confidenze di Scarantino Vincenzo.
Deve, in applicazione di questo criterio, essere riconosciuto un alto grado di attendibilità intrinseca alle parti del discorso narrativo dell’Andriotta sul ruolo di Profeta Salvatore, poiché ciò che è stato narrato dal teste non era altrimenti da lui conoscibile se non attraverso il racconto di Scarantino Vincenzo (nessun organo di informazione aveva parlato del coinvolgimento nella strage di Profeta Salvatore e del ruolo che, secondo il racconto di Andriotta, sarebbe stato svolto dall’imputato).
Nel caso in cui le dichiarazioni dell’Andriotta possano – astrattamente – essere ricondotte a fonti diverse dal suo confidente (il ragionamento si riferisce alla posizione degli imputati Orofino Giuseppe e Scotto Pietro che furono arrestati prima dell’inizio della collaborazione dell’Andriotta e dei quali erano note le imputazioni) occorre fare riferimento al criterio della precisione e della ricchezza di dettagli, per accertare se quanto riferito dall’Andriotta non era altrimenti conoscibile da lui se
non attraverso le confidenze di Scarantino Vmcenzo e, quindi, potere escludere una fonte di conoscenza diversa da parte di Andriotta Francesco.
5. Va, infine, precisato che – ai fini dell’attendibilità dei due collaboratori di giustizia (Scarantino Vincenzo e Andriotta Francesco) – può essere riconosciuta attendibilità alle loro dichiarazioni, nei limiti della loro reciproca convergenza, a meno che non sia provato il mendacio di uno dei collaboratori.
Si deve, peraltro, precisare che, ad avviso della Corte, sussiste convergenza tra le due dichiarazioni anche nel caso in cui per il racconto del teste de relato – che contenga elementi diversi rispetto alla sua fonte di conoscenza – possa essere formulato il giudizio logico di implicazione rispetto alla narrazione della fonte primaria.
Tale convergenza – come si vedrà nei successivi capitoli – è stata riconosciuta relativamente alla posizione dell’imputato Profeta Salvatore ma non in quelle degli altri due imputati di questo processo”.
In conclusione, secondo i Giudici d’Appello del primo processo, residuava l’attendibilità ‘frazionata’ di Francesco Andriotta per tutte le dichiarazioni rese prima della sopravvenuta collaborazione di Vincenzo Scarantino, purché dotate dei requisiti della costanza e coerenza. Detta attendibilità, pertanto, veniva ritenuta in riferimento alle (asserite) confidenze carcerarie di Scarantino, relative al furto dell’autovettura utilizzata per la strage, al luogo di caricamento dell’esplosivo sulla Fiat 126 (la porcilaia ed il garage di Giuseppe Orofino), alla presenza di Salvatore Profeta al momento dell’arrivo o del prelievo dell’esplosivo dalla porcilaia, nonché alla sostituzione delle targhe effettuata nel garage di Orofino, all’indicazione di Scotto e così via. Invece, ogni ulteriore dichiarazione di Andriotta su altre confidenze ricevute, in carcere, da Scarantino, doveva ritenersi inattendibile, poiché esclusivamente finalizzata ad ottenere dei benefici per la propria collaborazione.
Ben diverse erano le valutazioni sulla credibilità di Andriotta, da parte dei giudici dell’appello del secondo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino bis), i quali ritenevano integralmente attendibile l’apporto del ‘collaboratore’ di giustizia Andriotta. Nella sentenza, alla cui lettura integrale si rimanda (anche per economia di motivazione), nell’ampia parte dedicata alla collaborazione di Vincenzo Scarantino ed alla sua attendibilità intrinseca, si argomenta (in ben 65 pagine) in termini di “integrale valorizzabilità” delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, “con riferimento a tutti i segmenti del racconto di Scarantino”, vale a dire, oltre al furto dell’autobomba ed al caricamento della stessa, anche la riunione precedente la strage (“le soli reali novità che Andriotta apporta alle sue originarie dichiarazioni dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino”). Secondo i giudici d’appello del secondo troncone del processo per la strage di via D’Amelio, “la testimonianza di Andriotta si presenta per ogni suo aspetto attendibile e per i tempi, modi e circostanze in cui è stata resa e per i riscontri esterni che ha ricevuto (…) essa è stata giustamente ritenuta attendibile dai giudici di primo grado nelle parti concernenti le dichiarazioni rese prima dell’inizio della collaborazione di Scarantino”. Ma anche nella parte relativa alla riunione di Villa Calascibetta (come anticipato), la conclusione dei giudici d’appello non mutava (discostandosi da quella del primo grado), giacché il ritardo in tali dichiarazioni veniva giustificato da Andriotta, in maniera ritenuta plausibile, per il timore di sovraesporsi nei confronti di esponenti di primo piano di Cosa Nostra e per la necessità di non apparire reticente, dopo l’avvio della collaborazione di Scarantino. Grande rilievo, poi, veniva dato nella medesima pronuncia, anche al tentativo d’indurre alla ritrattazione Andriotta, da parte di emissari di Cosa Nostra, anch’esso ritenuto ampiamente riscontrato e pienamente credibile, con “singolari analogie con le modalità con le quali è stata realizzata la ritrattazione di Scarantino”: “la conferma delle minacce e dei tentativi di induzione alla ritrattazione che Andriotta ha subito influiscono positivamente sull’attendibilità complessiva dello stesso e in definitiva sull’attendibilità di Scarantino che l’attendibilità di Andriotta sorregge”. In sintesi, il contributo probatorio di Francesco Andriotta nel processo d’appello c.d. Borsellino bis, veniva valutato di “rilevanza decisiva nell’economia della prova”, vale a dire “un riscontro fondamentale a sostegno dell’attendibilità intrinseca di Vincenzo Scarantino il cui racconto su tutti i segmenti dell’azione dallo stesso descritti erano stati puntualmente descritti e anticipati nelle linee essenziali all’Andriotta, in un momento in cui Scarantino era ancora un mafioso a pieno titolo, sia pure in crisi, e non aveva affatto deciso ancora, anche se l’ipotesi gli balenava da tempo nella mente, di pentirsi”.
Nella ricostruzione (necessariamente sintetica) delle valutazioni effettuate dai Giudici che ebbero a pronunciarsi nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, non si riportano quelle effettuate nell’ambito del processo c.d. Borsellino ter, non utili per l’analisi della posizione di Andriotta, rispetto alla calunnia, aggravata e continuata, della quale risponde in questa sede.
Si passerà -di seguito- ad analizzare le dichiarazioni rese da Andriotta nell’ambito dell’odierno procedimento (sia nella fase dibattimentale, che in quella delle indagini preliminari).

Fonte mafie blog autore