La Trattativa Stato-mafia e la legge italiana

Tema ricorrente del presente processo, al di là della formale imputazione racchiusa nel capo A) della rubrica, è stato quello della cosiddetta “trattativa Stato-mafia” cui si sono riferiti molti testimoni escussi e le stesse parti (Pubblico Ministero e difensori sia delle parti civili che degli imputati) di questo processo.
Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’On. Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “cosa nostra”.
In termini di fatto, sugli incontri ed i contatti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, fatta salva l’esatta collocazione temporale del loro inizio di cui si dirà più avanti, non v’è sostanziale contestazione.
V’ è, invece, contrasto sulle ragioni di tali contatti ed anche di ciò si dirà meglio più avanti esaminando le risultanze probatorie del dibattimento. Poiché, però, nell’affrontare tale tema si sono spesso sovrapposti giudizi e valutazioni di tipo etico-politico rispetto a giudizi e valutazioni di tipo
strettamente giuridico che sono i soli che possono trovare ingresso in questa sede, è opportuno formulare alcune considerazioni anche in questo caso in termini di generalità prima di affrontare ed esaminare tutte le risultanze probatorie acquisite.
Si è sostenuto, invero, soprattutto da parte delle difese degli appartenenti alle Istituzioni qui imputati, che la “trattativa”, se finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, giammai può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per
prevenire l’ulteriore commissione di così gravi crimini.
Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali.
Tale affermazione è certamente vera, ma copre soltanto una parte della problematica giuridica sottesa.
Non sembra, innanzi tutto, che possa ritenersi lecita, in via generale, una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali, non, eventualmente, con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle “concessioni” che lo Stato può riconoscere in forza di disposizioni di legge dettate con finalità premiali della collaborazione con la Giustizia, bensì con
soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa e richiedano, nell’interesse di questa, benefici che esulino dai perimetri normativi ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento.
Il tema, come è noto, era già venuto all’attenzione del dibattito pubblico alla fine degli anni settanta, soprattutto dopo il sequestro dell’On. Aldo Moro da parte dell’organizzazione terroristica denominata “Brigate Rosse”, allorché si pose il dilemma tra la linea della c.d. “fermezza” e quella propugnata da coloro che ritenevano possibile “trattare” con i terroristi ed eventualmente far loro qualche concessione (si ipotizzò anche la liberazione di qualche detenuto) pur di salvare
una vita umana (quella dell’ostaggio).
Lo Stato scelse la via dell’assoluta “fermezza”, sintetizzata, come meglio non si potrebbe, nelle parole pronunziate da uno dei più importanti leader politici dell’epoca, la cui elevatissima statura morale è ancor oggi unanimemente riconosciuta: “lo ritengo che la fermezza dello Stato, la sua ripulsa netta ad ogni ricatto e ad ogni cedimento sia anche la via che può consentire di salvare la vita di uno qualunque dei suoi cittadini.
Tale linea (seppure con talune, per lo più celate, oscillazioni: v., ad esempio, vicenda che riguardò l’Assessore ai Lavori Pubblici della Regione Campania, Ciro Cirillo, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981 e rilasciato il successivo 24 luglio 1981) venne poi sostenuta, fino alla sua consacrazione legislativa, quando si sviluppò il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di
estorsione nonostante in tali casi non si ponesse un problema di cedimento dello Stato o di riconoscimento di organizzazioni a questo dichiaratamente contrapposte.
Ma, ritornando all’ambito del fenomeno mafioso che riguarda questo processo, va ricordato che il legislatore, dopo ampio dibattito del controverso tema che implica inevitabilmente profili di eticità e di bilanciamento tra deroghe del trattamento sanzionatorio e benefici che lo Stato può trarre in termini di prevenzione di reati e di scompaginamento delle organizzazioni criminali, ha dettato nel 1991 una disciplina che riconosce a singoli appartenenti alle associazioni mafiose, che, dissociandosi da queste, inizino un percorso di collaborazione con la Giustizia, ben determinati e specifici benefici sia in tema di trattamento sanzionatorio sia in tema di protezione.
Tra le finalità dichiarate di tale normativa, oltre a quella di assicurare alla Giustizia i colpevoli di gravi delitti già commessi, v’è certamente anche quella di prevenire l’ulteriore commissione di altrettanto gravi delitti, ma tale specifica finalità non è disgiunta – ma si pone anzi in rapporto di stretta strumentalità – con quella di disarticolare le organizzazioni mafiose che da sempre
condizionano la vita democratica del nostro Paese, controllandone capillarmente ampie aree del territorio nazionale ed una non irrilevante parte dell’economia nazionale, il cui ordinato ed ordinario sviluppo è alterato dall’afflusso di ingentissimi capitali di provenienza illecita.
Al di fuori di tale perimetro normativo – o peggio, in assenza di copertura legislativa – in uno Stato democratico non vi possono essere “lecite” concessioni o riconoscimenti di sorta che proprio perché diretti, non a favore di singoli soggetti che si dissociano dall’organizzazione mafiosa, ma, in sostanza, a favorire l’associazione mafiosa stessa nel suo complesso, sia pure con finalità di
prevenzione, inevitabilmente e oggettivamente la rafforzano come potere alternativo e contrapposto a quello dello Stato, talmente potente e forte, che quest’ultimo, appunto, deve “trattare” con essa e concedere benefici utilizzando la propria discrezionalità amministrativa in modo distorto ed al di fuori dei parametri che dovrebbero governarla, tanto che ciò avviene, non già in modo
trasparente e palese, ma, al contrario, occulto e non dichiarato.
E’, dunque, certamente riduttivo – e sicuramente giuridicamente errato – guardare ad una “trattativa” con una organizzazione criminale come se fosse il normale esplicarsi di una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e, quindi, sempre lecita anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni se queste non si concretizzino anche nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, non potendo, comunque, il giudice penale invadere l’ambito della discrezionalità amministrativa che il legislatore, riformando, ad esempio, l’art. 323 c.p., ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale
sindacato.
Si vuole dire, in altre parole, che una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand’anche avallata dal potere esecutivo, non può giammai essere ritenuta “lecita” nell’Ordinamento se, come detto, priva di copertura legislativa e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l’ipotesi accusatoria da verificarsi, ad esempio, ad omettere atti dovuti quali la ricerca e l’arresto di
latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l’esclusione del trattamento penitenziario previsto dall’art. 41 bis Ord. Pen., non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l’assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti, con ciò realizzandosi, in fatto, una situazione giuridica non dissimile da quella estrema della liberazione di detenuti in cambio del rilascio dell’ostaggio che tal uni ipotizzarono – senza seguito proprio per l’impercorribilità di tale soluzione senza violare le regole dell’Ordinamento democratico – in occasione del sequestro dell’On. Aldo Moro.
L’uso così distorto della discrezionalità del potere esecutivo, infatti, in tal caso, proprio perché dimostra e manifesta l’alterazione dell’ordinario evolversi dell’iter deliberativo dovuto all’intervento o alla richiesta dell’associazione mafiosa o anche soltanto la necessità dello Stato di addivenire unilateralmente alla concessione di benefici al di fuori delle regole normative, esalta, nei fatti, la
forza stessa dell’organizzazione mafiosa, che può permettersi, infatti, di piegare lo Stato sino a far sì che siano violate le leggi che il medesimo Stato si è dato, e, dunque, in conclusione rafforza l’associazione mafiosa nel suo complesso contribuendo al perpetuarsi del suo potere.
Nessuna attività che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, laddove costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio.
E, peraltro, è bene precisare anche che giammai possono ricondursi all’esercizio dei poteri discrezionali provvedimenti comunque viziati nella causa che li originano e che, conseguentemente, già, di per sé e per definizione, trascendono l’ambito della discrezionalità riconosciuta all’organo politico/amministrativo.
[…] In altre parole, pur se emanati nell’ambito di una attribuzione caratterizzata da discrezionalità, violano la legge i provvedimenti viziati sotto il profilo dell’eccesso di potere, ravvisabile laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare, ovvero dello sviamento di potere, ravvisabile allorché il potere pubblico sia stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione.
[…] Ma, in realtà, le considerazioni suddette, qui necessariamente introdotte perché il tema della “trattativa” ha attraversato tutto il processo ed è stato ripetutamente richiamato, sotto vari profili, da tutte le parti sino alla fase conclusiva della discussione, hanno una limitata rilevanza, poiché la questione della “trattativa”, a dispetto dell’attenzione anche mediatica che si è concentrata su di essa, non costituisce, di certo, in realtà, l’aspetto centrale del presente processo.
Non è oggetto di contestazione, infatti, in questa sede, la condotta in sé, pur se illecita, degli esponenti delle Istituzioni che ebbero, appunto, a “trattare” con alcuni esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, né la legittimità di eventuali provvedimenti conseguentemente adottati dal potere esecutivo, quanto, piuttosto, la condotta che costituisce l’antecedente fattuale di tale “trattativa” (che, dunque, non necessariamente deve fungere, essa, da presupposto fattuale e logico della formulazione accusatoria di minaccia, potendo porsi, con quest’ultima, invece, anche in rapporto di mera occasionalità) o che, eventualmente, ha trovato, comunque, origine in quell’approccio da parte di esponenti delle Istituzioni che potevano far ritenere che vi potesse essere una “apertura” dello Stato verso tal une richieste provenienti dalla organizzazione criminale che aveva scatenato la guerra contro lo Stato medesimo.
Ci si intende riferire, in particolare, alla condotta di minaccia che taluni esponenti dell’associazione mafiosa avrebbero rivolto nei confronti del Governo della Repubblica con la finalità di ottenere benefici nei confronti di un numero indeterminato di appartenenti a quella organizzazione criminale e, quindi, in sostanza, di quest’ultima nel suo complesso, ed alla condotta di tal uni esponenti delle Istituzioni, i quali, prima di fatto istigandola e, poi, nel farsi tramite di tale minaccia (dunque, quale che sia la modalità attraverso la quale essi l’abbiano recepita e cioè nell’ambito di una “trattativa” ovvero per altra via) verso il potere esecutivo e, dunque, agevolandola, avrebbero, secondo l’accusa,
concorso nella commissione del medesimo reato.
Ma prima di esaminare le risultanze probatorie in ordine a tali condotte e, quindi, anche la riconducibilità delle stesse a fattispecie di reato, è necessario affrontare alcune questioni di carattere generale che attengono al reato in concreto in questa sede contestato.

 

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