La grande paura è l’inizio della trattativa

L’omicidio dell’On. Salvo Lima eseguito il 12 marzo 1992 ha certamente destato grandi preoccupazioni sia nell’ambito delle Istituzioni sia in alcuni soggetti, principalmente colleghi di partito dell’On. Lima (v. dich. della figlia di quest’ultimo, Susanna Lima all’udienza del 24 ottobre 2013: ” … erano tutti preoccupati, anche perché era un evento che non si aspettava nessuno, non era
atteso, almeno così io avevo percepito … ….. preoccupazioni che non sapevano che cosa stava succedendo, perché non si aspettavano… Si era in piena campagna elettorale, non si aspettavano nulla del genere .. “), che concretamente percepirono, a quel punto, il pericolo di potere essere a loro volta vittime di “punizioni” o vendette mafiose.
Degli allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell’Interno Scotti nei giorni successivi all’omicidio Lima si dirà più avanti. Qui ci si intende concentrare, invece, sui timori che il predetto omicidio ebbe a suscitare in uno dei più importanti esponenti della politica siciliana dell’epoca, l’On. Calogero Mannino, appartenente al medesimo partito dell’On. Lima, la Democrazia Cristiana, ed allora, peraltro, Ministro in carica nel Governo presieduto dall’On. Andreotti.
Nell’ipotesi accusatoria oggetto di verifica in questa sede, infatti, è l’On. Mannino che, manifestando il timore di essere ucciso così come era avvenuto per l’On. Lima, sollecita alcuni Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri ad adottare iniziative che potessero salvargli la vita, ponendo, quindi, le basi per quella che oggi mediaticamente viene definita “trattativa Stato-mafia” (v. capo di imputazione con quale si contesta, appunto, al Mannino di avere contattato “a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati info-investigativi al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a “Cosa Nostra” ed aprire la sopra menzionata “trattativa” con i vertici dell’organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di “Cosa Nostra” per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista, già avviata con l’omicidio dell’on. Salvo Lima, e che aveva inizialmente previsto l’eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino”).
Prima di esaminare le risultanze acquisite nel presente processo, appaiono, però, opportune alcune precisazioni.
L ‘On. Calogero Mannino era originariamente coimputato per il concorso nel reato di minaccia a Corpo politico nel medesimo procedimento che ha dato luogo al presente processo.
Il predetto imputato, però, a differenza degli altri imputati, in sede di udienza preliminare, ha richiesto il giudizio abbreviato e, pertanto, il relativo procedimento è stato separato e si è concluso, in primo grado, con la sentenza di assoluzione pronunziata dal Giudice per l’Udienza Preliminare in data 4 novembre 2015 (non ancora irrevocabile, essendo in corso il processo di appello promosso dal P.M.).
Esula, dunque, dal presente processo l’esame del ruolo che l’On. Mannino avrebbe avuto, in relazione alla fattispecie di reato contestata agli altri imputati del reato di cui al capo A) della rubrica, non soltanto quale “promotore” della c.d. “trattativa Stato-mafia” (v. condotta sopra già ricordata), ma, altresì, in un momento successivo anche per avere esercitato “in relazione alle richieste di “Cosa Nostra”, indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’art. 41 bis ord. Pen.”, così “agevolando lo sviluppo della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando il proposito criminoso di “Cosa Nostra” di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista” (v. capo imputazione nella parte concernente Calogero Mannino).
In questa sede la condotta dell’On. Mannino sarà, dunque, esaminata solo ed esclusivamente quale ulteriore eventuale antecedente fattuale della c.d. “trattativa Stato-mafia”, che, d’altra parte, come è stato già sopra ricordato (ma è bene sempre ribadirlo), non configura in sé il reato oggetto di esame nel presente processo.
Invero, la condotta che rileva ai fini della responsabilità penale da verificare in questo processo in relazione alla contestazione della fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p. non è minimamente quella di colui che eventualmente abbia per propri fini (investigativi o personali) cercato contatti diretti o indiretti con la mafia e neppure quella di colui che, in ipotesi, tali contatti abbia coltivato
per il fine di ottenere la cessazione, senza condizioni, di quella nuova strategia mafiosa che già l’omicidio dell’On. Lima lasciava intravedere e prevedere. La condotta penale qui da accertare, infatti, è solo ed esclusivamente quella consistente nelle minacce rivolte eventualmente dai mafiosi nei confronti del Governo della Repubblica per ottenere determinati benefici e, ancora eventualmente, quindi, nell’intervento di terzi che prima abbiano stimolato l’iniziativa dei vertici mafiosi rafforzandone il proposito criminoso e, successivamente, si siano fatti carico anche di “recapitare” le minacce (o, quanto meno, di agevolare tale recapito al destinatario) così consentendo ai mafiosi il raggiungimento del loro scopo.
Messo da parte il giudizio etico che non compete a questa Corte, resta, pertanto, certamente al di fuori del perimetro penale come sopra in sintesi delineato l’iniziale intervento sollecitatorio di possibili contatti con i vertici mafiosi finalizzati alla propria esclusione, quale vittima, dal programma criminoso omicidiario già adottato (prima parte della condotta del Mannino descritta nel
capo di imputazione).
Se così è – e, comunque, ciò è quello che ritiene questa Corte -, non può esservi allora alcuna interferenza con il separato giudizio ancora pendente, per il medesimo reato, a carico di Calogero Mannino, se non con riferimento ad una fase successiva della vicenda, quella delle “pressioni”, di cui ha riferito il teste Cristella, che Mannino avrebbe fatto sul Dott. Di Maggio in relazione alla
questione del 41 bis.
Ma di ciò si parlerà più avanti esaminando la predetta testimonianza e le altre risultanze probatorie concernenti le vicende del 1993.
Ciò premesso, tornando temporalmente alla prima metà dell ‘anno 1992, possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l’uccisione di Salvo Lima, di subire anch’egli la punizione o la vendetta di “cosa nostra” per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima (l'<<aggiustamento>> del maxi processo) o quanto meno per avere voltato le spalle a “cosa nostra” nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti, che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione mafiosa (l’On. Mannino, infatti, per tale ragione, pur a fronte di comprovati
rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti, è stato assolto dal reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa: v. sentenze prodotte in atti dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona “convivenza”; quanto il conseguente intervento del medesimo Calogero Mannino nei confronti di alcuni
Ufficiali dell’Arma coi quali era in stretti rapporti affinché verificassero (ed eventualmente ovviassero a) quel pericolo che gli appariva estremamente immanente ed imminente.

Fonte mafie blog autore