Gli ufficiali “amici”

Come si è visto, tutte le fonti di prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di Giustizia, dichiarazioni testimoniai i e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che 1’On. Mannino, ben consapevole della vendetta che “cosa nostra” intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l’esito del maxi processo auspicato dai mafiosi (v. anche confidenze al giornalista Padellaro […]), si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza (non nutrendo alcuna fiducia sulla effettività delle stesse, […] come confermato anche da quella rinunzia alla scorta di cui ha riferito il teste Scotti), bensì ad alcuni Ufficiali dell’Arma “amici” e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza.
II Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S., non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare 1’On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per l’On. Mannino medesimo.
Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l’intendimento dell’On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d’altra parte, come detto, nel suo pensiero, non lo avrebbero comunque “salvato”), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info-investigativa, potesse, sì, acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di “cosa nostra”, ma,
inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato.
Ora, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino, anche perché nel frattempo veniva lanciato da “cosa nostra” un altro segnale che più direttamente toccava il R.O.S. e, personalmente, lo stesso Subranni, l’omicidio del M.llo Guazzelli di cui di seguito si dirà meglio, ma è un dato di fatto incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l’odierno imputato De Donno, autorizzato – rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori – contatta Vito Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi in quella frase che, poi, ad un certo punto […], sarebbe stata rivolta dal Col. Mori a Vito Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? (v. sentenza Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 e trascrizione dell ‘udienza del 24 gennaio 1998).
Si tratta, come si vede, di un approccio del tutto coerente con l’intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con la sua condotta fattuale, laddove, al di là delle intenzioni che potevano animare inizialmente il De Donno (ed i suoi superiori Mori e Subranni che, è bene ancora ricordarlo, come detto, avevano ideato e sollecitato quell’iniziativa del sottoposto), non può essere dubbio che l’approccio col Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all’indomani della strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all’apertura di un possibile dialogo con i vertici medesimi e, quindi, l’accantonamento della strategia mafiosa nell’ambito della quale si collocava
anche la possibile uccisione dell’On. Mannino.
Ora, come detto, non v’è ovviamente la prova (né si vede come potrebbe essere acquisita se non attraverso il racconto degli imputati, i quali, però, pur dilungandosi in dichiarazioni spontanee, non hanno acconsentito all’esame dibattimentale e, comunque, non avrebbero alcun interesse a confermare la circostanza) che Subranni, comprendendo il senso degli approcci da parte dell’On. Mannino, abbia incaricato i suoi subaltemi di avviare quel tentativo di contatto con i vertici dell’associazione mafiosa nell’interesse (anche) del suo diretto interlocutore, ma indubbiamente, anche se non possono escludersi – ed anzi, appaiono altamente probabili – altre concomitanti causali (oltre alla uccisione del M.llo Guazzelli, non va dimenticato che nel frattempo era sopravvenuta la strage di Capaci con la sua dirompente tragicità), la valutazione logica dei fatti come sopra accertati non può che condurre alla conclusione che anche le preoccupazioni dell’On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come “trattativa Stato-mafia” di cui si dirà
ampiamente più avanti.
D’altra parte, è ben possibile completare un quadro probatorio già formato con riguardo alla esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali, ricorrendo, oltre che alle prove dirette, anche a prove indirette o deduzioni di tipo logico.
Ma, in ogni caso, si tratta di una conclusione che, ancorché utile per meglio inquadrare, sotto il profilo soggettivo e psicologico, l’origine di quella che, appunto, viene definita “trattativa Stato-mafia”, non appare in alcun modo determinante, poiché, come già più volte ricordato, non è quell’iniziativa e l’apertura della “trattativa” (i cui esiti inizialmente non erano prevedibili, non
potendosi escludere che, ad esempio, i vertici mafiosi si potessero accontentare di quel “riconoscimento” da parte delle Istituzioni e di un conseguente possibile nuovo patto di non belligeranza per porre termine alla già deliberata azione criminosa) che integra la fattispecie di reato che in questa sede deve essere verificata.

 

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