Quanto ci manca quel vecchio Parlamento dov’era vietato bere il cappuccino

C’era una volta il romanzo parlamentare, esile creatura letteraria che attraversò i primi decenni del Regno d’Italia fino alle soglie dell’età giolittiana. Molti anni fa Carlo Madrignani ne compilò un’antologia, “Rosso e nero a Montecitorio”, fitta di titoli e nomi che ormai non ci dicono nulla – “Corruttela” di Vittorio Bersezio, “I misteri di Montecitorio” di Ettore Socci, “L’onorevole” di Achille Bizzoni, “La Baraonda” di Gerolamo Rovetta e una dozzina d’altri. Il protagonista dei romanzi parlamentari era di solito un giovane di sani costumi venuto a Roma dalla provincia, che rischiava di essere traviato dal trasformismo dei colleghi più anziani – “banda di avventurieri e d’idioti”, li chiama Socci –, dalle mollezze di una capitale sontuosa quanto corrotta, dalle lusinghe di qualche donna smaliziata, incarnazione del vizio cittadino. Le storie si concludevano per lo più con il ritorno al paesello, alla virtù e alla legittima consorte, il più lontano possibile dall’inferno di Montecitorio. C’era una volta il romanzo parlamentare, e se c’era – la precisazione può apparire sciocca, ma chissà che a breve non diventi necessaria – è perché c’era una volta il Parlamento.

 

Il nuovo libro di Mauro Mellini, giocando a trovargli un titolo da primo Novecento, avrebbe potuto chiamarsi, parafrasando Renato Serra, “Esame di coscienza di un deputato”. Si chiama invece “C’era una volta Montecitorio” (Bonfirraro editore). Non è un romanzo parlamentare e neppure un romanzo, è un libro di ricordi, ma come tutti i narratori di talento Mellini ha cura di infilare nelle prime pagine una excusatio non petita per dire che no, lui non ha velleità letterarie. Ovviamente questo non è vero – e per nostra fortuna. Mellini è stato più volte deputato tra il 1976 e il 1992, sempre con il Partito Radicale, e già allora il Parlamento non era proprio quel che annunciava di essere, un’arena di discussione e persuasione; e a un’aula forse non grigia ma certo sorda Mellini aveva l’abitudine di rivolgersi così, variando la formula di rito: “Signor presidente, signori stenografi” – gli unici tenuti ad ascoltare. Ma ne vien fuori comunque l’immagine di un luogo a cui nessuno avrebbe osato strappare una residua serietà, o quella sua caricatura non del tutto spregevole che è la solennità, la pompa cerimoniale. In un alternarsi di memorie liete e tristi, amare o perfino tragiche, non mancano gli episodi comici, tutt’altro.

 

Mellini fa un ritratto esilarante e a suo modo affettuoso del missino Carlo Tassi, che aveva l’abitudine di presentarsi a Montecitorio in camicia nera. Nella seduta inaugurale della nona legislatura – più tesa del solito, anche perché debuttava Toni Negri – Scalfaro, che presiedeva, si spazientì: “E poi ci si mette pure lei, onorevole Tassi, con quella sua camicia nera!”. “Anche le mutande io porto nere!” fu la fiera risposta. All’incidente Mellini, grande cultore del Belli, dedicò un epigramma che culminava così: “Del resto appare logico che il marchio originale / segni il prodotto tipico nel punto congeniale”. C’è anche la storia di un senatore democristiano che viveva saltando da una cerimonia all’altra per virtuosismo clientelare, e che finì per scambiare un matrimonio con un funerale, porgendo compunte condoglianze ai convenuti. O un’altra vicenda grottesca, quella del radicale Geppi Rippa che, sfiancato da un discorso interminabile (tattica di ostruzionismo), chiese un cappuccino, in violazione di disposizioni che consentivano di offrire agli oratori solo acqua. Il cappuccino arrivò lo stesso di straforo, ma il socialdemocratico Luigi Preti, che presiedeva, gli intimò tra le risate serpeggianti di non creare un precedente pericoloso: “Onorevole Rippa, non lo beva, non lo beva!”.

 

Se questi aneddoti ci appaiono così buffi è proprio perché spiccavano su un fondo di serietà: venuta meno quest’ultima, è scomparsa anche la possibilità, o la voglia, di ridere. “Non è possibile avere un Parlamento di tutti Cavour o di tutti Giolitti o De Gasperi, ma è anche vero che è inconcepibile un Parlamento di Ciccioline”, scrive Mellini, e sulle sue parole pende l’antica maledizione di Flaiano: “Nel nostro paese la forma più comune di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi avverranno”. Siamo già infatti su buona strada. E dopo più di un secolo dall’epoca dei romanzi parlamentari – amara inversione – quel vecchio Parlamento ci appare come un ricettacolo di nostalgie, come la provincia salubre a cui gli eroi anelavano a far ritorno. “C’era una volta Montecitorio”: forse le favole del futuro cominceranno così.

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