Totò Riina e quelli che “si erano fatti sotto”

Nei capitoli precedenti sono stati ricostruiti, in base a ciò che è stato possibile sulla scorta delle risultanze acquisite, ma soprattutto in forza delle stesse parole dei principali protagonisti, i contatti che vi furono ali’ indomani della strage di Capaci tra i Carabinieri del R.O.S., nelle persone degli odierni imputati Mori e De Donno, e Vito Ciancimino e sono state, quindi, infine sintetizzate le prime conclusioni sulle quali può ritenersi già acquisita la prova.
L’ultima di tali conclusioni riguarda l’accettazione della “trattativa” da parte di Salvatore Riina e, quindi, la circostanza che effettivamente quest’ultimo fu raggiunto dalla richiesta di dialogo indirizzatagli dai Carabinieri tramite Vito Ciancimino (il quale a sua volta, per contattare Riina, si era avvalso dell’intermediazione di Antonino Cinà).
Si è visto sopra, infatti, che lo stesso Ciancimino ebbe ad un certo momento a informare Mori che i vertici mafiosi da lui contattati “accettavano la trattativa”, così come riferito in occasione della deposizione di Firenze dallo stesso Mori, nel contempo, dichiaratosi consapevole che effettivamente Ciancimino fosse riuscito a mettersi in contatto con Riina.
Ma adesso si vuole qui evidenziare un’ulteriore – anche se non necessaria, alla stregua delle risultanze probatorie prima esaminate – conferma del fatto che Riina fu effettivamente raggiunto da una richiesta di “trattativa”.
Deve premettersi, in proposito, che la conferma si ricaverà, indirettamente ma univocamente, anche dal fatto che, come si vedrà, per averlo riferito, anche in tempi non sospetti, molti collaboratori di Giustizia, Riina, ad un certo momento, condizionò all’ottenimento di alcuni benefici la cessazione delle stragi e, poi, per rafforzare tale richiesta di benefici decise di eseguire ulteriori gravissime
stragi.
Ma di ciò si dirà più ampiamente ed approfonditamente più avanti. Qui, invece, ci si intende riferire alle dichiarazioni più propriamente e direttamente confermative della ricezione da parte di Riina della sollecitazione alla “trattativa” rese da due collaboratori di Giustizia, Cancemi Salvatore e Brusca Giovanni (quest’ultimo anche imputato nel presente processo).
[…]
Si intende qui valorizzare, al predetto fine confermativo, più che il contenuto delle propalazioni, la circostanza che i predetti collaboratori di Giustizia le hanno rese (Cancemi nel 1994 e Brusca nel 1996) prima che Mori e De Donno, soltanto, come si è visto, nel gennaio del 1998, ebbero pubblicamente a parlare in un processo dei contatti da essi avuti con Vito Ciancimino nel 1992 ed a pronunziare, in tale contesto, la parola “trattativa”.
Da ciò il rilievo delle relative propalazioni rese quando ancora la questione della “trattativa” non aveva avuto alcuna risonanza pubblica, dal momento che il generico accenno fattovi da Vito Ciancimino in interrogatori non pubblici non aveva, di fatto, avuto alcun seguito, mentre, di “trattativa”, come detto, avrebbero pubblicamente parlato in un dibattimento (peraltro senza che in quella occasione i media vi prestassero particolare attenzione,) Mori e De Donno soltanto successivamente nel 1998 e, quindi, a distanza di oltre cinque anni dai fatti.
Ed in proposito, infatti, a riprova del rilievo pubblico assunto dai fatti soltanto nel 1998, è significativo rilevare che, come risulta dalla minuta della nota del R.O.S. a firma del “Generale di Brigata comandante Mario Mori inviata il 25 gennaio 1998 ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo […], lo stesso Mori, in riferimento alle testimonianze rese, da lui e da De Donno, il 24 gennaio 1998 davanti alla Corte di Assise di Firenze, riferisce a quei Comandi che “nel corso della loro testimonianza, i due ufficiali hanno illustrato i contatti intrattenuti, negli anni 1992-1993, con Ciancimino Vito Calogero ed il figlio Massimo, volti ad acquisire spunti informativi utili
alla ricerca di latitanti appartenenti a Cosa Nostra” e che “nel contesto delle dichiarazioni sono stati descritti comportamenti da cui è emersa la volontà di collaborazione con la polizia giudiziaria da parte dell’ex sindaco di Palermo” e conclude, quindi, che “il fatto potrebbe provocare riflessi negativi sulla sicurezza del Ciancimino stesso e dei suoi familiari. Tanto si segnala per gli interventi valutati opportuni nelle sedi competenti”.
Si tratta, con tutta evidenza, di un documento che comprova, per bocca dello stesso Mori, che soltanto nel gennaio 1998 ebbero rilievo pubblico i contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino e la collaborazione di quest’ultimo, tanto che soltanto allora ci si preoccupò delle conseguenze che sarebbero potute derivare da tale risalto pubblico per la sicurezza dello stesso Ciancimino e dei suoi
familiari.
Ed allora, assume rilevanza anche l’ulteriore conferma, da parte di due soggetti che hanno ricoperto ruoli non certo secondari nell’ambito dell’associazione mafiosa, almeno della percezione, da parte di “cosa nostra”, di una volontà delle Istituzioni di addivenire ad un accomodamento per interrompere la strategia stragi sta di quest’ultima e ciò perché da tale percezione, come si vedrà, è conseguita, non già una interruzione della strategia stragi sta che poi vi sarà successivamente soltanto per ragioni diverse, ma, al contrario, una intensificazione delle stragi nel corso del 1993 e sino al gennaio 1994 (quando avvenne un ulteriore tentativo di strage, però, fallito) per massimizzare l’effetto intimidatorio ed ottenere benefici ritenuti indispensabili per la stessa sopravvivenza di “cosa nostra”.
Delle numerose acquisizioni probatorie che riguardano questo aspetto della vicenda, quello, cioè, della intensificazione delle stragi decisa nel 1993, si dirà più avanti esaminando gli effetti della “trattativa”, mentre è utile esaminare prima le risultanze, fondate su dichiarazioni di intranei alla associazione mafiosa, che, dal punto di vista di questa, confermano le risuItanze sopra già tratte sulla scorta delle stesse parole dei loro principali protagonisti, Mori e De Donno da un lato e Vito Ciancimino dall’altro.
Le dichiarazioni rese da Cancemi Salvatore nel corso delle indagini e dei processi per fatti connessi a quelli oggetto del presente processo sono state acquisite perché divenute irripetibili a seguito del decesso del detto dichiarante.
In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Roma e Milano in data 15 marzo 1994, le dichiarazioni rese al P.M. Di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Firenze e Caltanissetta in data 23 aprile 1998, e, infine, le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento per la strage di via D’Amelio alle udienze del 17,23,24 e 29 giugno 1999. […] Nel successivo interrogatorio del 15 marzo 1994 (del quale è stato prodotto ed acquisito il relativo verbale riassuntivo), Cancemi ha affrontato temi più direttamente attinenti alle vicende qui in esame.
In particolare, il Cancemi, in occasione di tale interrogatorio, per la parte che qui rileva (e, d’altra parte, il verbale acquisito appare in gran parte omissato), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Riina riteneva che lo Stato non avrebbe reagito, ma avrebbe tentato di intavolare una “trattativa” attraverso importanti soggetti estranei a “cosa nostra” (” .. in concreto, per quello che
sentivo da Riina e Biondino ….. si era certi che lo Stato non avrebbe reagito ….. In sostanza. Riina ed il suo cerchio ristretto erano convinti, a mio parere, che quegli atti eclatanti avrebbero indotto lo Stato alla trattativa. Ciò, come ho detto a varie A.G., per effetto dei rapporti che loro avevano con persone esterne a cosa nostra, importanti. Ho più volte ribadito che si trattava, in questo caso,
di persone che io non posso specificare, e dei cui contatti con Riina, mi aveva parlato il Ganci, quel famoso giorno in cui tornavamo da una riunione tenutasi a Capaci in preparazione dell’attentato a Falcone … … … ciò che io prima ho detto va riferito esclusivamente alle aspettative ed ai convincimenti di Riina, Provenzano, Biondino, Bagarella, Ganci, Aglieri, Greco Carlo, Tinnirello e dei Graviano, cioè quel nucleo dirigente sanguinario di cui ho già parlato. È chiaro invece che la gran parte degli affiliati a cosa nostra riteneva, al contrario, essendo estranea a quei contatti con persone importanti di Riina ed ai discorsi che all’interno di quel nucleo si facevano, che la reazione dello Stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l’assetto stesso di cosa nostra”).
Da segnalare, poi, riguardo a tale interrogatorio la risposta ambigua data dal Cancemi alla domanda se egli ritenesse, alla luce di quanto nel frattempo accaduto (siamo nel marzo 1994), che le aspettative di “cosa nostra” fossero andate deluse: “vedremo, Provenzano è ancora libero”.
Ma, appare di estrema importanza, come già anticipato, il fatto che già nel marzo 1994, ben prima, quindi, della risonanza pubblica dei contatti tra i Carabinieri e Vito Ciancimino, Cancemi abbia espressamente parlato di “trattativa”, che, dopo le stragi del 1992, Riina intendeva intavolare con lo Stato. […] Nel successivo interrogatorio reso ai magistrati della Procura di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, il Cancemi parla, invece, della parallela vicenda della “trattativa” legata alla restituzione di alcune opere d’arte pure riferita da Paolo Bellini ed altri di cui si dirà più avanti separatamente. Nell’interrogatorio congiunto delle Procure di Firenze e Caltanissetta del 23
aprile 1998 (del quale sono stati depositati ed acquisiti tanto il verbale riassuntivo, quanto la trascrizione della registrazione, così che, per maggiore completezza e precisione, è opportuno riferirsi a quest’ultima), quindi, Cancemi, dopo avere iniziato il suo racconto dal 1991 allorché egli era stato convocato a casa di Guddo da Riina, il quale gli aveva detto di recarsi da Vittorio Mangano
per dirgli di mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e Dell’Utri perché ora intendeva occuparsene direttamente (“.. io devo cominciare dal ’91 cedo, esatto, credo dal ’91 quando Riina a me mi ha mandato a chiamare, lui personalmente, con Ganci Raffaele, e io l ‘ho incontrato dietro la villa Serena, la villa di Guddo, e lui mi disse a me: «Totuccio, mi devi fare una cortesia» , ho risposto io: «anche due» , dice: «devi chiamare a Vittorio Mangano e ci devi dire che si mette da parte, questa situazione che lui ha avuto nelle mani, di Dell’Utri e Berlusconi, si deve mettere da parte perché … … … si deve mettere da parte questa cosa dice, me l’ho messo nelle mani io lui mi dice, nelle mani io fa perché è un bene per tutta cosa nostra, queste sono state le parole di Riina”),
cosa che egli aveva effettivamente fatto informando di ciò Vittorio Mangano […], ha, poi, riferito che dopo qualche tempo, in occasione di un altro incontro, il Riina aveva specificato quali richieste intendeva avanzare a quelle persone (“…credo che è stato nel ’92 ….. … Riina un giorno ci siamo incontrati, io Riina, Ganci e credo Biondino Salvatore, che è venuto con una situazione di dire che, ha parlato con noi, che doveva fare sapere a queste persone di, ci doveva dare alcuni punti, di fare
annullare l’ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni
e altre cose,[…]. Quindi i punti che io mi ricordo erano questi del fatto di fare abolire l’ergastolo, ‘sta legge sui pentiti di farla scomparire, di, mi sembra che c’era anche il 41 bis, insomma erano se o sette punti diciamo che lui doveva, doveva portare .. … …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. …. ….. in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell’Utri, i nomi che ha fatto erano questi qua … “).
Nello stesso interrogatorio, quindi, il Cancemi, dopo avere ricordato la vicenda dei quadri che erano stati recuperati già riferita nel precedente interrogatorio del 21 gennaio 1997 e di cui, come anticipato, si dirà successivamente, ha raccontato che lo scopo delle stragi era quello di “sfiduciare” coloro che erano in quel momento al potere […] per favorire l’ascesa di Berlusconi e Dell’Utri
[…], ha riferito di non avere mai saputo di progetti di attentati ai danni di politici e del Dott. Grasso, mentre ha ricordato di un progetto per uccidere il Questore La Barbera […], ha ricordato, quanto agli incontri con Brusca Giovanni, tra i tanti, un incontro presso la casa di Guddo in occasione del quale lo stesso Brusca aveva presentato tale Rampulla a Riina […]. Quanto al Provenzano, invece, Cancemi ha riferito di averlo visto in occasione di qualche incontro nella stessa casa di Guddo […] e ciò anche dopo l’arresto di Riina […] ed ha aggiunto che in occasione di tali incontri successivi all’arresto di Riina, Provenzano ebbe a tranquillizzarlo dicendogli che tutto proseguiva come stabilito dal Riina medesimo (“stai tranquillo che tutto è a posto, le cose stanno continuando per come tu sai da zio Totuccio”). […]
Ebbene, non v’è dubbio che Cancemi abbia effettivamente progressivamente ampliato i suoi ricordi inserendovi anche nomi di estrema notorietà inizialmente taciuti (per tutti, Berlusconi e Dell’Utri) e da ciò derivano anche tal une delle ragioni delle criticità della sua attendibilità già evidenziate nell’apposito paragrafo (Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.5) che impongono un esame rigoroso delle sue dichiarazioni e la ricerca di sicuri riscontri.
E, tuttavia, come si è già evidenziato nella Parte Terza, Capitolo 4 di questa sentenza, l’attendibilità di Cancemi ha, poi, trovato un importante riscontro – all’epoca delle sue dichiarazioni non prevedibile – riguardo alla principale delle omissioni dichiarative soltanto successivamente integrate, quella relativa alla improvvisa “premura” da parte di Riina di uccidere il Dott. Borsellino.
Nelle sue iniziali dichiarazioni, infatti, Cancemi aveva affermato di non sapere nulla dell’uccisione del Dott. Borsellino, mentre successivamente ha raccontato di quella riunione nella quale Riina aveva comunicato a Raffaele Ganci la relativa decisione.
Tale dichiarazione appariva come un tipico esempio di “dichiarazione a rate” ed, infatti, sul relativo ritardo e sulla contraddizione rispetto alle precedenti dichiarazioni si sono incentrate le contestazioni dei difensori degli imputati di quel processo.
Sennonché, come si è già rilevato nel precedente Capitolo 4, quel racconto del Cancemi sulla improvvisa accelerazione imposta da Riina alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino e sulla sorpresa degli interlocutori del predetto capomafia (nella specie, secondo Cancemi, Raffaele Ganci), ha trovato un inatteso e del tutto imprevedibile riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate all’interno del carcere nel 2013 (v. Capitolo 4 già richiamato).
Ciò impone di riconsiderare quelle dichiarazioni del Cancemi ancorché tardive, pur non abbandonando, però, il più rigoroso criterio di valutazione di cui già si è detto.
In ogni caso, quel che è utile rilevare riguardo alla questione in esame in questo Capitolo, è il nucleo delle dichiarazioni di Cancemi sostanzialmente rimasto invariato nel tempo, quello relativo al fatto che, dopo la strage di Capaci, in “cosa nostra” si iniziò a parlare di “trattativa” e che l’oggetto delle pretese di Salvatore Riina era costituito dall’ergastolo, dalla legge sui pentiti, dal sequestro dei beni e dal 41 bis, nonché, più in generale, dai detenuti mafiosi […].
[…] Anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca, sia per la loro evoluzione nel tempo ben messa in evidenza dai difensori degli imputati in sede di controesame, sia per lo stesso ruolo di imputato che il Brusca riveste in questo processo, devono  essere esaminate con particolare ngore (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4).
Non v’è ragione, però, di giungere ad una totale e pregiudiziale dichiarazione di inattendibilità intrinseca del detto dichiarante così come chiesto e sostenuto dai difensori degli altri imputati, sia perché in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l’importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per
l’individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione), sia perché anche nel presente processo sono stati acquisiti straordinari ed imprevedibili riscontri alle dichiarazioni del Brusca nelle parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all’interno del carcere ove lo stesso era detenuto.
Si è già ricordata, in proposito, la conferma, nelle parole del Riina, dell’improvvisa accelerazione impressa alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino, di cui, appunto, Brusca aveva sempre riferito per conoscenza diretta collegata all’incarico di uccidere l’On. Mannino, che egli precedentemente aveva ricevuto e stava attuando, poi, appunto, revocatogli per la sopravvenuta
esigenza rappresentatagli dal Riina medesimo (v. sopra Capitolo 4).
E si è già fatto cenno, nella scheda sopra dedicata al Brusca come collaboratore di Giustizia, ad un particolare, assolutamente peculiare ed originale che ha trovato conferma ancora nelle parole del Riina, riferito al tema controverso degli assetti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” dopo l’arresto di Salvatore Riina.
Si è visto sopra, infatti, che tra le tante dichiarazioni, Brusca ad un certo momento, riferendo, appunto, dell’assetto di “cosa nostra” dopo l’arresto di Riina e delle discussioni cui anch’egli ebbe a partecipare riguardo alle decisioni da prendere in ordine alla prosecuzione o meno della strategia mafiosa, ha riferito di una particolare frase che Bagarella ebbe a rivolgere a Provenzano a fronte del tentativo di questi di tirarsi indietro dalla strategia sino ad allora portata avanti: “Ti metti un cartellone così. prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente» ” (v. dichiarazioni Brusca sopra più ampiamente riportate: “Provenzano l’unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri, Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente
Bagarella gli fa, dice, che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»”).
Ebbene, balza assolutamente evidente la coincidenza del racconto del Brusca con un passo di un’intercettazione effettuata all’interno del carcere nel quale era detenuto Riina allorché quest’ultimo racconta al suo interlocutore che, di fronte alle perplessità del Provenzano, egli gli aveva detto (rectius, ovviamente gli aveva mandato a dire, essendo egli, appunto, già detenuto, ma non essendo
d’ostacolo di certo lo stato di isolamento dal momento che egli, comunque, effettuava i colloqui con i familiari e, pertanto, innanzitutto con la moglie, sorella di Leoluca Bagarella; […]) di mettersi un cartello al collo con la scritta “io non ne so niente” ove intendesse dissociarsi (v. intercettazione del 18 agosto 2013 del colloquio del Riina nel corso del quale quest’ultimo, ad un certo punto, dice: “invece con tutta quella, comu sacciu, con tutta quella esperienza che aveva ci rissi: ti mietti un cartellino attaccato ‘nto cuoddu e dici – io non ne so niente!”).
Come si vede, poiché tale intercettazione non era ancora nota quando Brusca ebbe a fare il suo racconto, si tratta di un riscontro assolutamente straordinario per importanza e rilevanza, che conferma come non sia possibile (né corretto alla stregua dei criteri generali sopra ricordati nella Parte Prima della sentenza, Capitolo 3, paragrafo 3.3) disattendere del tutto le propalazioni del Brusca per difetto di attendibilità intrinseca, seppur applicando, per le criticità che, comunque, hanno connotato la sua collaborazione, un particolare rigore nella ricerca dei riscontri (e ciò sarà fatto anche con riferimento alla intercettazioni effettuate nei confronti di Riina nelle quali si rinvengono, come si vedrà nell’apposito Capitolo in cui tali intercettazioni saranno esaminate, anche talune smentite alle propalazioni del medesimo Brusca che richiederanno una specifica analisi).
Ma, ritornando al tema qui in esame, quello della ricerca della conferma della “trattativa” anche nelle parole del Brusca, è utile qui concentrarsi, come nel caso del Cancemi, soprattutto sulle dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione (dopo il superamento, però, degli iniziali depistaggi finalizzati a “salvare” alcuni soggetti a lui vicini) nel mese di agosto 1996 e, quindi, ben prima delle testimonianze di Mori e De Donno, che, appena da lui conosciute, lo hanno indotto a rielaborare e reinterpretare alcuni ricordi, aggiungendo tardivamente anche alcuni particolari, di cui, proprio per il particolare rigore che, come detto, deve applicarsi nella valutazione delle propalazioni del Brusca, non può tenersi conto in assenza di diretti ed univoci riscontri (si pensi al nome di Mancino soltanto nelle sue più recenti dichiarazioni
aggiunte dal Brusca a proposito del destinatario delle richieste del Riina).
Le dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere il 14 agosto 1996 sono state poste all’attenzione della Corte con le contestazioni che le difese degli altri imputati hanno mosso in sede di esame del Brusca e, tuttavia, possono essere utilizzate, oltre che per la valutazione della credibilità del dichiarante, anche nel loro contenuto nei limiti in cui, ovviamente, poi tali dichiarazioni, a seguito, appunto, delle contestazioni di cui si è detto, sono state confermate dal Brusca medesimo nell’esame reso in questa sede.
Ebbene, è importante, allora, evidenziare che Brusca, già il 14 agosto 1996, prima, si ripete, che Mori e De Donno riferissero i particolari dei loro colloqui con Vito Ciancimino […], ebbe a riferire che dopo le stragi (quelle del 1992) Riina aveva sospeso la strategia stragi sta perché aveva avuto contatti con soggetti non specificati che gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi medesime ed egli (il Riina) aveva a quel punto fatto un “papello” di richieste ritenute, però, esose dai suoi interlocutori, così come raccontato al Brusca medesimo in occasione di un incontro avvenuto nel periodo natalizio del 1992 (v. verbale dell’interrogatorio in data 14 agosto 1996 nel
quale, come risulta dalla contestazione fatta al Brusca in questo dibattimento, si legge a pag. 9: […]”Dopo le stragi di Palermo e l’incarico a me dato di un attentato al Giudice Grasso, da me non attuato per ragioni già dette, Riina aveva messo il fermo. Mi disse espressamente che aveva avuto contatti con qualcuno e questo qualcuno gli aveva detto più o meno «cosa vuoi per finire queste cose?». Riina mi disse di aver fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe. Questo discorso me lo fece sotto le feste di Natale”).
Brusca ha confermato – e, poi, maggiormente dettagliato (ma, d’altra parte, quelle dichiarazioni sono riportate in un verbale riassuntivo) – anche in questo dibattimento il contenuto del colloquio avuto con Riina (“… e lui mi risponde: “Si sono fatti sotto “, stavolta con un tono contento, di soddisfazione e già era arrivato al punto, dice: “Gli ho fatto un papello così di richiesta”[…]”), modificando, però, la collocazione temporale allora data, perché, secondo il predetto dichiarante odierno imputato, quel colloquio, in realtà, avvenne alla fine di giugno 1992 e, comunque, prima della strage di via D’Amelio, così come egli ha potuto ricostruire, asseritamente, sulla base di
alcuni episodi delittuosi di quei mesi, quali l’omicidio Lizio, l’omicidio Milazzo ed il tentato omicidio di Germanà.
La Corte, poiché tale collocazione temporale è stata oggetto di dichiarazioni del Brusca nel tempo diverse e spesso contraddittorie, intende prescindere da tale dato (che, peraltro, come meglio si preciserà nei prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina
(quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque, per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che, invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni fino a quelle rese in questo dibattimento.
[…] Ebbene, non v’è chi non veda come il principale elemento di conoscenza fornito da Brusca (già, si ripete, nell’agosto 1996) si specchi totalmente in un passo della ricostruzione di quegli accadimenti che soltanto dall’anno successivo (agosto 1997), ma pubblicamente addirittura soltanto dal gennaio 1998 (quando furono assunte le relative testimonianze a Firenze), fu, poi, fatta da Mori e De Donno.
Il riferimento è a quella domanda rivolta al Riina dai suoi interlocutori istituzionali così come sintetizzata da Brusca, (” … «cosa vuoi per finire queste cose?» …. ; frase confermata anche in sede dibattimentale: ” …. «Per finirla cosa volete in cambio?» …. “), che fa da contraltare, apparendo logicamente consequenziale nel suo significato sostanziale, alla sollecitazione rivolta da Mori
a Vito Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”‘; sollecitazione incontestatamente inoltrata ai vertici di “cosa nostra” tramite l’intermediario
(Cinà) e certamente recepita dai vertici medesimi se è vero che, come riferito dallo stesso Mori, Vito Ciancimino ebbe successivamente a dirgli che i suoi interlocutori accettavano la “trattativa” (“Guardi, quelli accettano la trattativa”).
Ed è importante evidenziare che Brusca ha reso quella sua prima dichiarazione quando ancora ignorava che tra coloro che “si erano fatti sotto” (cioè che si erano fatti avanti, che lo avevano cercato) vi erano anche i Carabinieri, circostanza che, come dallo stesso riferito, aveva appreso soltanto successivamente dalla lettura dei giornali, inducendolo, soltanto in quel momento, a collegare a tale iniziativa dei Carabinieri ciò che a suo tempo gli aveva detto Riina […].
La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage (quella di Capaci), Riina fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista.
[…] Un ‘ulteriore e, questa volta definitiva, conferma si trae anche dalle dichiarazioni di un altro collaboratore, Antonino Giuffré, che, a differenza dei predetti Cancemi e Brusca, presenta un ben più sicuro livello di affidabilità (v. scheda di cui alla Parte Prima, Capitolo 4, paragrafo 4.21). […] Il Giuffrè ha, tra l’altro, dichiarato che, poiché circolavano nell’ambito di “cosa nostra” notizie sul rapporto confidenziale che Vito Ciancimino intratteneva con le Forze dell’Ordine, egli ebbe a chiedere spiegazioni a Bernardo Provenzano, il quale, quindi, espressamente gli disse che il Ciancimino agiva in “missione” per conto di “cosa nostra” e che, pertanto, per quei suoi contatti con i Carabinieri aveva avuto lo “sta bene” direttamente da Salvatore Riina […]. Orbene, come si vede si tratta di una definitiva conferma di assoluta autorevolezza in quanto promanante direttamente da Bernardo Provenzano, allora alter ego di Riina, e, quindi, al vertice, insieme a quest’ultimo,
dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, oltre che in diretti accertati rapporti ultratrentennali, come si è già visto sopra, con Vito Ciancimino.
Altrettanto autorevole è, inoltre, la fonte Giuffré, non soltanto per il ruolo di vertice dallo stesso ricoperto nell’ambito dell’associazione mafiosa, ma soprattutto per l’accertata ed incontestabile (perché risultante anche documentalmente da alcuni “pizzini” sequestrati) sua vicinanza con Bernardo Provenzano.
In altre parole e per tali ragioni, non soltanto deve ritenersi attendibile il racconto fatto dal Giuffré in questa sede, ma deve, altresì, ritenersi attendibile il racconto fatto dal Provenzano al Giuffré e da questi riferito sia per i rispettivi ruoli di grande rilievo che entrambi i predetti ricoprivano allora in “cosa nostra” che già di per sé non avrebbero consentito il mendacio […], sia, forse ancor più, per il rapporto di estrema reciproca fiducia degli stessi sempre alleati in uno stesso schieramento all’interno di “cosa nostra”.
D’altra parte, anche sotto il profilo logico, non si comprenderebbe perché Provenzano avrebbe dovuto mentire al Giuffré, tanto più che in quel momento i contatti con i Carabinieri non erano più attuali e il Ciancimino era ormai da tempo detenuto.
Si tratta, dunque, di una straordinaria ulteriore conferma del fatto che Vito Ciancimino, sollecitato dai Carabinieri, riusci effettivamente a mettersi in contatto con Salvatore Riina e che quest’ultimo ebbe a quel punto ad avallare l’azione del medesimo Ciancimino per sfruttare l’apertura al dialogo con la “controparte Stato” che da quell’iniziativa derivava.

 

 

fonte mafie blog autore repubblica