Il “papello” e le condizioni per la pace

[…] Si è già visto, altresì […] che, però, già dopo la strage di Capaci che, a quel momento, aveva costituito il culmine di tale furente reazione, Salvatore Riina raccoglie le sollecitazioni che gli provenivano da più parti, ma soprattutto quella veicolata da Vito Ciancimino da lui ritenuta
più concreta per la diretta richiesta di indicare le sue condizioni per far cessare il “muro contro muro”, e decide di “accettare la trattativa” e di dettare, appunto, le sue condizioni.
E queste, conseguentemente, non potevano che riguardare il problema dei detenuti, diventato il suo principale problema dopo l’esecuzione delle condanne del “maxi processo” nei confronti di un numero sino ad allora senza pari di associati mafiosi, molti dei quali appartenenti al gotha di “cosa nostra”, problema poi ulteriormente aggravato dalla prospettata riapertura delle carceri nelle isole e dalla prima introduzione di un regime carcerario individuale più rigoroso mediante l’introduzione del secondo comma all’art. 41 bis O.P. (v. D.L. 8 giugno 1992 n. 306) successivamente attuati dopo la strage di via D’Amelio.
Era inevitabile, dunque, che proprio la questione dei detenuti fosse al centro dei “desiderata” di Salvatore Riina anche per governare il malcontento che si era creato all’interno di “cosa nostra” e che rischiava di indirizzarsi nei suoi confronti per effetto delle assicurazioni sull’esito del “maxi processo” che egli, per anni, fidandosi dei suoi referenti politici, aveva dispensato.
E, come si vedrà, la questione dei detenuti costituirà il filo rosso che lega tutte le azioni di “cosa nostra” anche negli anni successivi al 1992.
Ma che già sin dai primi momenti di tale mutamento di strategia da parte di Riina (da quella vendicativa a quella “trattati vista”), avvenuto in conseguenza delle sollecitazioni di dialogo pervenutegli, al centro dei pensieri (e, quindi, delle richieste) di quest’ultimo vi fosse il problema dei detenuti, trova conferma nelle dichiarazioni di Giovanni Brusca.
Quest’ultimo, infatti, ha, innanzitutto, riferito che, appunto, allorché alcuni soggetti istituzionali “si erano fatti sotto”, Riina aveva risposto rivolgendo loro un “papello” di richieste […].
Ora, tralasciando per il momento la questione “papello” inteso come documento scritto cui si è già fatto cenno sopra nella Parte Seconda della sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Cianci mino e sulla quale si tornerà nelle conclusioni del presente Capitolo, tanto più che Brusca non ha mai visto, se effettivamente esistente come documento scritto, il “papello”, rileva
che, secondo quanto riferito dal detto collaborante (in questa sede anche imputato) tra le richieste del Riina v’erano la revisione del “maxi processo” (v. sopra, nonché, nel seguito: ” … quando io parlavo con Totò Riina si parlava della revisione del Maxiprocesso…”) e, in generale, benefici per i detenuti […], nonché l’eliminazione dell’ergastolo […].
Come si vede, dunque, si trattava di richieste tutte più o meno direttamente connesse, appunto, all’esito del “maxi processo” che aveva scatenato la furia di Riina e, quindi, dirette a rimediare alle conseguenze carcerarie che ne erano derivate per molti mafiosi.
E va detto che sul tema del “maxi processo” si rinviene un riscontro già nella testimonianza di Roberto Ciancimino, il quale, sentito all’udienza dell’11 dicembre 2015, ha riferito che il padre Vito ebbe a raccontargli di avere ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi, si prospettava in contropartita, appunto, la revisione del “maxi-processo” (v. testimonianza di
Roberto Ciancimino citata: “Mio padre ottenne un permesso per arrivare a Palermo. Venuto a Palermo mi racconta questo episodio e mi racconta … Mi disse che voleva vedere che aria tirava a Palermo. Poi mi riferì di avere ricevuto una lettera scritta in cui si diceva che per … Mi riferì mio padre, perché non ho visto niente, mi disse che per fermare le stragi bisognava arrivare alla
revisione del Maxi Processo … “), aggiungendo, peraltro, che, ancorché poi in concreto gli fu detto soltanto della revisione del “maxi processo”, il padre gli aveva parlato di più richieste da parte dei mafiosi (“Mi ha parlato di richieste assurde, però a me mi parlò solo della revisione… … …Assurde … … Richieste, al plurale…. … …Mi parlò di richieste, però… … …Parlò al plurale, però mi parlò specificamente solo della revisione perché voleva illustrato, insomma … …… Tecnicamente cosa era la revisione”).
V’è, poi, un ulteriore non necessario riscontro utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno che ne hanno chiesto l’acquisizione ex art. 468 comma 4 bis c.p.p., nella convergente testimonianza resa da Giovanni Ciancimino all’udienza del 20 febbraio 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale nel processo a carico di Mori e Obinu, poiché anche il predetto teste, avvocato così come il fratello Roberto prima citato, ha riferito che ugualmente il padre Vito gli aveva chiesto notizie sulla praticabilità della richiesta di revisione del “maxi processo” consultando nel contempo un foglio scritto di cui era in possesso […].
Il tema carcerario, unitamente ad altri più risalenti pure interessanti i mafiosi (leggi su “pentiti” e sequestri di beni, argomento quest’ultimo di cui pure Vito Ciancimino ebbe a parlare al figlio Giovanni come da questi riferito in occasione della testimonianza prima ricordata che, però, si ribadisce, è utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donna), è presente anche nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi sin dalle sue prime propalazioni sia con
riferimento alla vicenda dei quadri, perché le “persone alle quali dovevano essere fatte vedere le fotografie potevano far uscire dal carcere Pippo Calò, Bernardo Brusca, forse anche Gambino Giacomo Giuseppe, ed altri importanti personaggi di cosa nostra” ed erano in grado “di fare levare l’ergastolo, nel senso di ottenere una modifica legislativa ed inoltre potevano influire per cambiare la legge sui pentiti e anche la legge sulla confisca dei beni, sia con riferimento ad un altro specifico incontro successivo alla strage di Capaci in occasione del quale Riina aveva, appunto, specificato, sia pure riferendosi, secondo Cancemi, ad altri soggetti (Dell’Utri e Berlusconi, però non citati nelle
iniziali dichiarazioni), quali richieste intendeva avanzare […].
Ora, a prescindere dalla citazione di Dell’Utri e Berlusconi, come detto, del tutto tardiva e, quindi, di per sé sospetta, quel che rileva è, comunque, la conferma che in quel periodo Riina aveva a cuore, appunto, tra le altre cose, soprattutto le problematiche concernenti i detenuti.
Ma, in ogni caso, un ‘ulteriore conferma si può trarre dalle dichiarazioni di altro collaborante, Naimo Rosario, per il quale, a differenza che per Cancemi, si è già pervenuti ad un giudizio di sicura attendibilità intrinseca […].
Naimo, infatti, ha raccontato di un incontro che ebbe intorno al mese di ottobre 1992 con Riina, il quale gli manifestò l’intendimento, appunto, di “aiutare i carcerati” .
In particolare, Naimo ha riferito che Riina, prendendo lo spunto dal paventato allontanamento del Dott. Cinà per recarsi in America, gli aveva detto di essere in attesa di ricevere qualche beneficio che avrebbe aiutato i detenuti […].
Peraltro, lo stesso Naimo nel medesimo periodo aveva avuto conferma del fatto che in “cosa nostra” si era in attesa di ricevere notizie riguardo ai detenuti anche da un sodale particolarmente vicino a Riina e cioè dal noto Salvatore Biondo (”[…]….Il Biondo mi disse, dice: Sarò, dice, stiamo aspettando da un momento all’altro notizie di… Qualche notizia buona che possano … Che ci possano aiutare a sti disgraziati. per sta gente che è in galera con il 4 l bis. Dice: aspettiamo da un momento all’altro buone notizie. Questo è ciò che mi disse, Io ci ho detto: speriamo… “).
Dunque, dalle dichiarazioni di Rosario Naimo, fondate su due diverse fonti, si trae conferma, non soltanto del contenuto delle richieste di Salvatore Riina, ma, altresì, del fatto che nell’autunno del 1992 quest’ultimo era in attesa di una risposta e che, quindi, precedentemente, quelle richieste erano state già inoltrate per il tramite del Dott. Cinà, del quale, infatti, lo stesso Riina paventava
l’allontanamento che avrebbe reso più difficoltoso il dialogo intrapreso.
E se il Dott. Cinà era stato il tramite delle richieste del Riina, allora, deve giocoforza concludersi che, come già rilevato sopra sulla base del complesso delle risultanze probatorie di cui si è dato conto nei Capitoli precedenti, il canale utilizzato dal medesimo Riina e sul quale questi faceva affidamento non era, in quel momento, di certo quello indicato (peraltro in modo tardivo e sospetto da Cancemi) di Dell’Utri e Berlusconi (i quali, d’altra parte, in quell’anno erano ancora lontani dall’assumere responsabilità di governo), ma piuttosto quello ritenuto concreto ed attuale di Vito Ciancimino, il quale soltanto, infatti, a seguito della sollecitazione al dialogo con i vertici mafiosi ricevuta dai Carabinieri, si era, appunto, rivolto al Dott. Cinà per fare da tramite con Salvatore Riina.
In estrema sintesi, dunque, emerge dal compendio probatorio indicato che Riina già nell’autunno del 1992, in risposta alla sollecitazione veicolatagli da Vito Ciancimino, aveva condizionato la cessazione della strategia stragi sta al ricevimento di benefici a vario titolo interessanti i detenuti di “cosa nostra” e che il medesimo, in quel periodo, era in attesa di una risposta che si augurava positiva a riprova della affidabilità e serietà che egli aveva attribuito alla sollecitazione derivante dalla iniziativa dei Carabinieri allorché questi avevano contattato Vito Ciancimino.
V’è da dire, poi, per completezza, che tali conclusioni appena sintetizzate hanno trovato un (ancorché non necessario) riscontro anche nelle dichiarazioni di Pino Lipari prima in dettaglio già analizzate (v. sopra Capitolo 10).
Quest’ultimo, infatti, a sua volta ha dichiarato che tanto Vito Ciancimino quanto Cinà gli dissero che le richieste di Riina ricevute dallo stesso Vito Ciancimino attraverso il Dott. Cinà concernevano, appunto, tra l’altro, la revisione di processi, l’ergastolo ed il 41 bis […].
Ancora per completezza, va, infine, aggiunto che il medesimo contenuto delle richieste del Riina è stato riferito anche da Giuseppe Di Giacomo ancorché le dichiarazioni di quest’ultimo debbano essere vagliate con rigore per la loro tardività. […]
Qui è sufficiente ricordare che anche Di Giacomo, secondo quanto asseritamente raccontatogli direttamente dal Cinà, ha riferito che le richieste del Riina riguardavano il 41 bis e l’ergastolo (v. dich. Di Giacomo: “Tra le altre cose, esternò il fatto che, dice, pago il papello che scrisse o cristiano, perché noi in quel caso u cristiano era espressamente rivolto, era un appellativo
convenzionale, al Totò Riina … … … come se c’è, diciamo, nei suoi confronti un peso, un fardello non indifferente per quello che fece precedentemente quando scrisse e rappresentò il papello, diciamo, quelle richieste scritte, no? Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello. Che poi in vari punti diciamo ne parlammo, che rivedeva il 41 bis. l’ergastolo, che rappresentò … O
cristiano era Totò Riina, in quel caso noi lo menzionammo come u cristiano”).
E’ opportuno, a questo punto, esaminare meglio la questione del “papello”.
Nel presente processo il “papello” è stato documentaI mente identificato dalla Pubblica Accusa in uno scritto contenente un’elencazione di richieste (“1- Revisione Sentenza Maxi Processo; 2- Annullamento Decreto Legge 41 bis; 3- Revisione Legge Rognoni – La Torre; 4- Riforma Legge Pentiti; 5- Riconoscimento Benefici Dissociati – Brigate Rosse – Per condannati di mafia; 6- Arresti Domiciliari dopo 70 anni di età; 7- Chiusura Super Carceri; 8-Carcerazione vicino le case dei familiari; 9- Niente censura posta familiari; 10- Misure Prevenzione – sequestro – non familiari”) consegnato da Massimo Ciancimino agli inquirenti e, quindi, prodotto agli atti di questo processo (n. 3 della produzione documentale del P.M. all ‘udienza del 26 settembre 2013).
Orbene, nella Parte Seconda della presente sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ancorché non sia stato possibile accertare l’autore della grafia di tale documento (v. esito analisi scientifica sulle comparazioni effettuate di cui hanno riferito gli esperti incaricati nei termini già sopra riportati), si sono già manifestati forti dubbi sulla sua autenticità, se non la certezza della sua falsità, tenuto conto delle accertate falsificazioni che con sicurezza possono, invece, addebitarsi a Massimo Ciancimino (v. sopra).
La valutazione di autenticità del documento in questione, in ogni caso, è rimasta rimessa esclusivamente alle dichiarazioni del Massimo Ciancimino, le quali, peraltro, a prescindere dal giudizio di complessiva inattendibilità cui si è pervenuti nella citata Parte Seconda della sentenza, anche sul punto appaiono comunque caratterizzate da numerose oscillazioni ed incertezze nella
ricostruzione dell’iter, che, a partire dal rinvenimento del documento medesimo, ha condotto sino alla sua tardiva consegna alla A.G. dopo molti precedenti interrogatori.
Si vuole dire, in sostanza, che, pur in assenza di elementi indicativi di una falsificazione di tale documento (ed, in effetti, nella Parte Seconda, Capitolo 4, si è visto che tali elementi sono assenti, trattandosi, con elevata probabilità, di una prima fotocopiatura di un originale eseguita con toner in uso sino alla metà degli anni novanta e con carta compatibile con l’epoca interessata), il fatto stesso che il documento medesimo sia stato consegnato (con le contorte modalità di cui si è detto) da Massimo Ciancimino e che possa identificarsi col “papello” soltanto per le parole di quest’ultimo, costituisce un ostacolo insormontabile alla conclusione – ancora sostenuta dal P.M. nella sua
requisitoria all’udienza dell’11 gennaio 2018 – che possa trattarsi del “vero papello”.
E, d’altra parte, se effettivamente dovesse, invece, trattarsi del “vero papello”, ci si troverebbe ancora di fronte al frutto avvelenato della scellerata condotta di Massimo Ciancimino che impedisce in radice di utilizzare persino quel nucleo di fatti veri sui quali egli ha, poi, ricostruito le fantasiose e non più distinguibili sovrastrutture di cui si è detto sopra nella Parte Seconda della sentenza.
In ogni caso, la convinzione della Corte – certamente soggettiva perché non fondata sul documento in sé, ma influenzata dalla sua provenienza da un soggetto totalmente inaffidabile qual è Massimo Ciancimino – appare suffragata anche dalle parole di Salvatore Riina in occasione di uno dei colloqui intercettati di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza e cui, quindi, qui si
rinvia.
Ciò premesso, si è pure, però, già precisato che la probabile falsità del detto documento (così come per gli altri di cui, invece, la falsità è certa) non significa che Vito Ciancimino non sia stato effettivamente destinatario di richieste (eventualmente anche scritte: v. dichiarazioni di Roberto Ciancimino e Pino Lipari) dei vertici mafiosi quali, almeno in parte, quelle contenute nel “papello”
esibito da Massimo Ciancimino e qui acquisito agli atti, poiché la falsificazione documentale è stata utilizzata dal predetto imputato/dichiarante per supportare le sovrastrutture artificiosamente e artatamente aggiunte (v. sopra Parte Seconda della sentenza) alle conoscenze che egli aveva potuto acquisire negli anni sia dal padre sia da altri soggetti, quali, ad esempio, Brusca Giovanni, che, in proposito, aveva reso dichiarazioni sin dal 1996 anche in questo caso abilmente (?) sfruttate dal medesimo Ciancimino.
Ed è proprio Brusca, infatti, che, ben prima di Massimo Ciancimino, ha riferito di un “papello di richieste” che Riina avrebbe rivolto a coloro che, tramite Vito Ciancimino, lo sollecitavano a porre termine alla strategia stragi sta iniziata nel 1992 […].
E’ bene, però, precisare che Brusca non ha mai visto un “papello” inteso come documento scritto da recapitare agli interlocutori del Riina (v. ancora dich. Brusca: ” .. . che io non ho visto, non ho letto e non ho partecipato alla stesura … “) e che l’espressione utilizzata dal Riina (“Gli ho fatto un papello così di richiesta “), nel linguaggio corrente, non è riferibile necessariamente ad un documento scritto, usando si notoriamente tale espressione, più in generale, per indicare una sfilza di richieste quand’anche soltanto oralmente rivolte.
Ne consegue che non v’è neppure certezza che sia mai esistito un documento scritto di pugno di Riina (evenienza, peraltro, esclusa dallo stesso Riina: v. intercettazione dell’8 novembre 2013 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo l), ovvero da questi dettagliatamente dettato ad altri, direttamente recapitato (tramite Cinà) a Vito Ciancimino, non potendo neppure
escludersi, infatti, che il biglietto che, invece, Cancemi ha detto di avere visto nelle mani di Riina (v. dich. Cancemi già sopra riportate: ” …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. “), se tale dichiarazione è vera (non essendovi riscontri), fosse soltanto un semplice appunto personale del Riina medesimo, tanto più che la formulazione
delle richieste era in quel momento ancora in itinere […].
V’è soltanto Lipari che, per essergli stato riferito da Ciancimino, ha riferito di un documento scritto recapitato a quest’ultimo, dal Cinà, all’interno di una busta (v. dich. Lipari: “P. M DI MATTEO : – … Ciancimino le disse cosa conteneva questa busta?; DICH. LIPARI GIUSEPPE : – Sì, mi fece una … Un accenno me lo fece, quelle cose che abbiamo detto, 41 bis, ergastoli, beni, cose … … … diceva
che era… Anche lui pensava che era una richiesta eccessiva perché… . … … Papello, lo ha chiamato Papello, questo Papello lo ha chiamato”), ma, in proposito, non potrebbe neppure escludersi che si sia trattato, in questo caso ed in ipotesi, di una annotazione del Cinà su quanto oralmente rappresentatogli da Riina, così come, d’altra parte, sembra ricavarsi anche dalla confidenza fatta dal
medesimo Cinà a Giuseppe Di Giacomo secondo quanto da quest’ultimo riferito in questo dibattimento (v. dich. Di Giacomo: “… Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello… “).
Ne consegue che, in proposito, non appaiono neppure dirimenti le dichiarazioni testimoniali rese da Roberto Ciancimino e Giovanni Ciancimino […].
Il primo, Roberto Cianci mino, esaminato all’udienza dell’ 11 dicembre 2015, ha riferito, sì, che il padre, allorché gli aveva raccontato degli incontri avuti con i Carabinieri, gli aveva, altresì, raccontato che, dopo avere attivato i suoi contatti, aveva ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi si prospettava in contropartita la revisione del “maxi-processo”, condizione dal
padre stesso ritenuta irrealizzabile […], ma, anche specificamente sollecitato, ha ribadito di non avere visto quella lettera (”No. non l’ho vista. me ne ha solo riferito”) che il padre aveva ricevuto dopo che aveva contattato un “amico degli amici” […].
In proposito, infatti, il padre gli aveva soltanto detto che la lettera conteneva richieste assurde, parlandogli, però, poi, soltanto della revisione del “maxiprocesso” […], ancorché il padre gli avesse parlato di richieste al plurale […].
Il secondo, Giovanni Ciancimino (le cui dichiarazioni, si ripete, sono utilizzabili – e, dunque, vengono qui concretamente utilizzate – soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno), allorché venne esaminato quale testimone in data 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo nel processo a carico di Mori e Obinu, ha, invece, riferito che una volta il padre gli aveva chiesto cosa fosse la revisione del processo penale […] e se fosse possibile la revisione del “maxi
processo” […], tirando fuori subito dopo dalla tasca un foglio di carta (“Disse: “Ah, va bene, va bene”, e aveva … e aveva tirato dalla tasca un pezzo di carta, un pezzo di carta arrotolato o mò dei temi o dei compiti, che si entrano magari durante gli esami, sa questo … questa specie di… come se fosse … il rotolo, il classico rotolo”) e chiedendogli anche della confisca dei beni […].
Il detto teste, nella stessa occasione, ha ribadito che il padre, durante quel colloquio, aveva consultato un solo foglio di carta […].
In sostanza, come si vede, se certamente le predette testimonianze supportano ulteriormente tutte le risultanze sin qui esposte ed anche il racconto di Pino Lipari, le stesse non appaiono utili a confermare che vi sia stato un “papello”, inteso come documento scritto da Salvatore Riina o chi per lui e, soprattutto, per quel che qui rileva, che tale “papello” possa identificarsi con il documento
scritto consegnato da Massimo Ciancimino di cui si è già detto nella Parte
Seconda di questa sentenza, non potendo escludersi che lo scritto di cui hanno parlato i predetti Lipari e Roberto Ciancimino (nonché, con i limiti di utilizzabilità indicati, Giovanni Ciancimino) sia un documento diverso successivamente distrutto da Vito Ciancimino e, quindi, “ricostruito” dal figlio Massimo nella sua accertata foga di accreditarsi come depositario di tutti segreti del padre.
Ma in ogni caso, quel che qui occorre evidenziare è che non è certo necessario accertare se Riina abbia effettivamente scritto o fatto scrivere un “papello” inteso come documento cartaceo contenente le sue richieste, ma va soltanto accertato che il medesimo Riina, eventualmente anche soltanto oralmente […], abbia posto le condizioni per l’abbandono della strategia mafiosa e che tali condizioni siano state via via trasmesse ed inoltrate sino al destinatario finale (ai fini della
configurabilità del reato contestato in questa sede, il Governo della Repubblica).
Finora è stata raggiunta la prova sulla formulazione – e sull’inoltro – da parte di Riina, attraverso il canale Ciancimino apertosi a seguito dell’iniziativa dei Carabinieri, di alcune espresse condizioni cui eventualmente subordinare la cessazione della contrapposizione totale di “cosa nostra” allo Stato.
Si vedrà nel seguito se potrà ritenersi ugualmente provato che le condizioni poste da Salvatore Riina per conto di “cosa nostra” siano effettivamente giunte sino alla cognizione del loro destinatario finale (individuato dallo stesso Riina nel Governo: v. intercettazione del 18 agosto 2013 di cui si dirà meglio più avanti e più specificamente nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo I).
Nel frattempo, però, è opportuno sin d’ora verificare se tali condizioni possano effettivamente qualificarsi come minacce, essendo questo l’indefettibile presupposto logico dell’imputazione di cui al capo A) qui in esame.
La violazione dell’art. 338 c.p.p. addebitata agli odierni imputati al capo A) della rubrica è stata formulata con riferimento ad una soltanto delle due modalità consumative, quella della minaccia (non essendo stato contestato, invece, l’uso della violenza), che nella sua materialità consiste nella condotta di prospettare ad altri un male futuro.
Poiché, pertanto, la minaccia integra l’elemento costitutivo della fattispecie criminosa qui in esame, è opportuno formulare alcune considerazioni di carattere generale, appunto, in tema di minaccia, per poi verificare se le richieste formulate da Riina in risposta alla sollecitazione dei Carabinieri veicolatagli da Vito Ciancimino siano qualificabili come minaccia.
Orbene, al predetto fine, non può che muoversi dalla specifica previsione della condotta delittuosa punita dall’art. 612 C.p.
In quest’ultima fattispecie, come è noto la minaccia viene conformata come reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione. Peraltro, è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina che per la consumazione del reato non occorra che il predetto effetto si verifichi in concreto, essendo sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo (ma quest’ultimo aspetto, quello del raggiungimento del destinatario finale-soggetto passivo, come anticipato nel paragrafo che precede, si vedrà nel prosieguo ).
[…] Ed è opportuno, altresì, sin d’ora precisare che è pure possibile che la minaccia sia esercitata da un terzo o per il tramite di un terzo, il quale, se consapevole, ne risponderà a titolo concorsuale secondo la regola generale dell’art. 110 C.p.
La minaccia deve avere ad oggetto, poi, un male ingiusto e, quindi, antigiuridico nel senso di contrarietà rispetto all’ordinamento giuridico, […].
Si tratta, in sostanza, di ciò che, in termini comuni (ma non estranei ad alcuni ordinamenti giuridici vigenti in altri Paesi) viene definito “ricatto” (ed è appena il caso di evidenziare che, come si vedrà, non a caso questo è proprio il sostantivo utilizzato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allorché è stato esaminato in qualità di teste all’udienza del 28 ottobre 2015, per
definire la condotta attribuita alle cosche mafiose dopo le stragi del luglio 1993).
Ed allora, se questi sono i parametri che individuano la minaccia penalmente sanzionabile, non può essere minimamente dubbio che essi ricorrano in concreto nel caso delle richieste prospettate da Salvatore Riina, nell’interesse di “cosa nostra”, quali condizioni per porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato e, quindi, per porre termine alle stragi ed ali ‘uccisione di ulteriori uomini delle Istituzioni (sia che fossero ritenuti “nemici”, sia che fossero, invece,
ritenuti “amici traditori” da punire).
Ed invero, all’indomani della strage di Capaci che aveva manifestato alla massima potenza la capacità di “cosa nostra” di colpire in ogni luogo anche gli uomini più protetti, non v’è dubbio che la sola prospettazione da parte di Riina di richieste da soddisfare cui egli condizionava il non compimento di ulteriori stragi, era assolutamente idonea ad intimorire i destinatari e, quindi, a diminuire la libertà psichica e morale di autodeterminazione degli stessi.
I destinatari, infatti, venivano posti di fronte alla alternativa tra subire o correre il rischio di subire il male prospettato (le ulteriori possibili stragi ed uccisioni) ovvero sottrarvisi realizzando la condotta richiesta loro dal Riina nel tentativo di coartarne la volontà ed ottenere un aliud facere.
Ugualmente, non può di certo minimamente dubitarsi che sia stato prospettato dal Riina un “male ingiusto” e che, al fine della sussistenza di tale presupposto, è, altresì, irrilevante che le condotte pretese (in ipotesi anche i provvedimenti diretti ad attenuare il rigore della carcerazione) fossero in astratto leciti nel senso della loro conformità alle potestà riconosciute ai destinatari della minaccia, dal momento che è l’intervento intimidatorio di un soggetto privo di un qualsiasi titolo legittimante che è, in ogni caso, contra jus.
In conclusione, dunque, possono già ravvisarsi nella condotta del Riina (e, quindi, di coloro che hanno moralmente o materialmente concorso in essa sotto il profilo della istigazione, codecisione, condivisione od attuazione esecutiva), consistita nella prospettazione di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale con lo Stato e delle stragi ed uccisioni già decise in conseguenza di questa, gli estremi della minaccia punibile penalmente se portata (o, comunque, pervenuta) a conoscenza del soggetto passivo.
Quest’ultimo profilo attinente alla concreta configurabilità del reato, come detto, sarà esaminato nel prosieguo.
Prima, infatti, è necessario esaminare un’altra vicenda, pure introdotta nel presente processo, che ha segnato un punto di svolta nelle dinamiche interne a “cosa nostra” e che dalla Pubblica Accusa è stata in qualche modo collegata alla “trattativa” (così come altre due vicende, quella del mancato arresto di Benedetto Santapaola a Terme Vigliatore e quella del mancato arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, entrambe temporalmente successive e che saranno, quindi, esaminate separatamente più avanti) in forza di alcune singolari “anomalie” investigative (ulteriori rispetto a quelle già sopra evidenziate nel Capitolo 6 di questa Terza Parte della sentenza) che in qualche modo hanno visto protagonista soprattutto l’imputato Mario Mori.

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