Gli “appunti” e le analisi di Gianni De Gennaro

Negli stessi giorni, il 10 agosto 1993, anche il Direttore della D.I.A. De Gennaro scriveva una nota al Ministro dell’Interno cui allegava un documento elaborato dai funzionari della D.I.A. in ordine alle stragi dei precedenti 27 e 28 luglio 1993.
[…] Nel detto «appunto», quindi, tra l’altro, si legge:
“1. Le considerazioni e le riflessioni proposte nel presente studio muovono da precisi riferimenti e da dati di fatto che, in assenza di elementi probatori certi, possono, allo stato delle indagini, indicare un’attendibile chiave di lettura ed offrire un utile quadro di riferimento tanto agli investigatori impegnati nella identificazione degli autori dei delitti, quanto alle Autorità preposte alla tutela
dell’ordine e della sicurezza pubblica.
In tale ottica non si può prescindere da una sintetica rilettura delle vantazioni espresse dalla Direzione Investigativa Antimafia all’indomani delle stragi di Capaci, di Via D’Amelio e di Via Fauro.
Nel preciso convincimento che i fatti criminali di oggi trovino il loro logico presupposto nei luttuosi eventi verificatisi in Sicilia nella primavera del ’92, questa Direzione ritiene che la metodologia da seguire nel corso dell’analisi debba essere quella di un riesame, il più possibile completo, di tutti i gravi delitti che hanno insanguinato il nostro paese negli ultimi tredici mesi, alla ricerca non solo delle analogie che li colleghino tra loro, ma anche dì altri episodi e circostanze che non siano ancora apparsi direttamente interconnessi ovvero che siano sfuggiti fino ad oggi ad una organica e contestuale lettura.
2. La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima non possono non essere interpretati come due momenti significativi di una strategia di difesa di “cosa nostra”, elaborata in un momento in cui la stessa sopravvivenza dell’organizzazione era stata compromessa dalla definitività della sentenza di
condanna del maxi-processo, dal crescente peso assunto dai collaboratori di giustizia, dalla sempre, più efficace risposta investigativa e dalla costante determinazione mostrata da Governo e Parlamento nel garantire l’esecuzione delle pene detentive con adeguato rigore.
Tale stato di cose ha obbligato l’organizzazione a riaffermare il proprio potere anche con reazioni violente, evitando, nel contempo, disgregazioni interne e fughe destabilizzanti.
In particolare, con l’omicidio Lima, prima tappa di un disegno criminoso di cui si conosce il momento iniziale ma non l’esito finale, “cosa nostra” ha abbandonato i vecchi legami con quei settori del mondo politico che avevano deluso le sue aspettative ed iniziato, forse, a ricercare nuovi interlocutori con i quali stabilire intese e stringere alleanze.
Con la strage di Capaci ha inoltre inteso colpire l’immagine del Giudice Falcone, ferma guida e stabile riferimento delle forze impegnate nella lotta alla mafia, nel momento in cui si prospettava, per il magistrato, la possibilità di essere nominato Procuratore Nazionale Antimafia e di costituire, quindi, un’ulteriore gravissima minaccia sia per la mafia, sia per quanti, a vario titolo, fossero ad essa collegati.
3. Già subito dopo la strage di Via D’Amelio la D.I.A. aveva prospettato l’ipotesi che “cosa nostra”fosse divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari, bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica nonché la probabilità di effetti di ritorno dannosi. Proprio a ridosso dell’eccidio di via D’Amelio, infatti, si aveva modo di rilevare che l’assenza di un’effettiva necessità nell’esecuzione del delitto ed una cadenza temporale troppo ravvicinata alla precedente strage, non giustificata da particolare urgenza, costituivano elementi sicuramente estranei al comportamento mafioso tradizionale, abituato a calibrare con attenzione le proprie azioni delittuose.
L’omicidio del Giudice Borsellino e della sua scorta, pur essendo stato consumato in un contesto operativo riconducibile all’azione della mafia, tradiva ad una attenta lettura l’intenzione dei mandanti di perseguire obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di “cosa nostra”.
Non essendo ipotizzabile che gli ideatori della strage non avessero previsto una forte reazione dello Stato da cui sarebbero derivati pesanti effetti per tutti gli affiliati, era da ritenere che il sacrificio fosse stato accettato in vista del conseguimento di obiettivi più remunerativi seppure distanziati nel tempo. Fu proprio a margine dell’attentato di Via D’Amelio che la D.I.A. prospettò, per la prima volta, in modo esplicito l’ipotesi che stesse maturando all’interno di “cosa nostra” e degli altri poteri ad essa collegati una vera e propria scelta stragista dai contorni indefiniti, ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le Istituzioni.
4. Tra la strage di Via D’Amelio e quella di Via Fauro, che segna l’inizio di una nuova fase della strategia terroristica della mafia, intercorrono circa dieci mesi costellati da avvenimenti importanti e da numerosi segnali premonitori. Il primo episodio degno di nota si verifica a Palermo nel mese di settembre dello scorso anno, allorché viene ucciso con modalità operative analoghe a quelle del
delitto Lima, il mafioso Ignazio Salvo. Non sono del tutto note ancora le motivazioni dell’omicidio. E’ possibile che esse fossero riconducibili a comuni regolamenti di conti tra mafiosi, ma è forse più probabile che, stante lo stretto collegamento tra Ignazio Salvo e l’onorevole Lima lo sua eliminazione possa avere avuto una correlazione con il delitto in danno del parlamentare
europeo.
Nel successivo mese di novembre lo D.I.A. ha presentato al Procuratore Nazionale Antimafia una proposta per l’applicazione della misura del soggiorno cautelare nei confronti di 26 sospetti mafiosi. In quella sede, sulla scorta di dati acquisiti dal magistrato nella fase delle indagini preliminari dai
quali si presagiva la realizzazione di attentati effettuati con modalità tali che inducessero ad attribuirli ad organizzazioni eversive e sulla scorta dì altre numerose e concordanti notizie fiduciarie, che segnalavano un pericoloso riarmo di “cosa nostra” e l’inizio di una serie di attentati contro aeromobili e strutture aeroportuali, veniva espressa la convinzione che la mafia si stesse preparando a porre in essere azioni criminali di devastante portata. All’inizio di quest’anno, in data successiva all’arresto di Riina, questa Direzione accertava l’esistenza di un programma di attentati contro rappresentanti delle istituzioni.
L’immediato intervento, con l’arresto di Nino Gioé e dei suoi complici, sortiva probabilmente l’effetto di impedirne la realizzazione e contribuiva verosimilmente a prolungare il periodo di silenzio, che aveva termine con l’attentato di Via Fauro in Roma. Ultimo dato di rilievo: i continui sequestri di armi operati dalle Forze dell’Ordine e le risultanze di concomitanti investigazioni, alcune delle quali ancora in corso, evidenziavano la crescente disponibilità da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso di armamento pesante e di ingenti quantitativi di esplosivo provenienti in parte dai paesi dell’est Europa. In particolare si raccoglievano notizie, in corso di verifica, relative ad accumuli di ordigni da guerra in Calabria, in quantità certamente eccessive per la conduzione di una guerra di mafia. In proposito è appena il caso di ricordare che “cosa nostra” ha da tempo stretto legami con la ‘ndrangheta attraverso una formale affiliazione di alcuni suoi componenti. Detti
legami di cui hanno ampiamente parlato diversi collaboratori di giustizia, sono stati ben evidenziati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Reggio Calabria contro mandanti ed esecutori dell’omicidio del Giudice Scopelliti, identificati nei vertici della commissione provinciale di “cosa nostra” palermitana.
5. Ancora prima della cattura di Salvatore Riina ed esattamente nel mese di dicembre ’92, altre indicazioni utili erano venute da Tommaso Buscetta, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore del quotidiano “La Repubblica”. Il noto collaboratore aveva, in tempi non sospetti, previsto un’orchestrata campagna di disinformazione, gestita da “cosa nostra” e da settori del mondo politico e della stampa, finalizzata a screditare il ruolo dei pentiti. Egli fondava le sue asserzioni su una diretta conoscenza dei meccanismi di “cosa nostra” e della mentalità dei corleonesi in particolare. Buscetta aveva avvertito che fino a quando detta campagna fosse stata in corso, gli attentati
sarebbero stati sospesi per ricominciare poi successivamente. La ripresa della strategia stragista, secondo il pentito, sarebbe stata improntata alle metodologie proprie dei narcotrafficanti colombiani, con l’utilizzo di bombe contro innocenti e con l’attuazione di attentati contro alte cariche dello Stato.
Le previsioni del collaboratore trovano un primo ed immediato riscontro nelle dichiarazioni rese, anche in ambito processuale, da Salvatore Riina, il quale dal momento del suo arresto, inizia a lanciare messaggi delegittimanti e carichi di disprezzo nei confronti dei collaboratori di giustizia, il cui numero, intanto, andava moltiplicandosi con effetti estremamente dannosi per la struttura stessa
delle cosche.
L’azione di Riina non è soltanto l’iniziativa isolata di un uomo sconfitto, bensì un preciso momento di una campagna di disinformazione più generalizzata e tendente a colpire a fondo la credibilità delle testimonianze dei pentiti ed a insinuare dubbi sulla correttezza di inquirenti e investigatori che li “gestiscono “.
Da questo clima torbido traggono origine alcune notizie assolutamente prive di fondamento pubblicate da determinati organi di stampa. Un concreto esempio è dato dall’apodittica, quanto falsa notizia secondo la quale il noto finanziere svizzero Jurgen Heer, già responsabile del settore crediti della Rothschild Bank di Zurigo e apparentemente al corrente di numerosi segreti del mondo
finanziario e politico italiano (dal caso Calvi alla P2) fosse custodito dalla D.I.A., provocatoriamente definita “servizio segreto antimafia”, in una località segreta e all’insaputa dell’Autorità Giudiziaria.
Chi di tale campagna di delegittimazione si è fatta scientemente artefice e portavoce è stata in particolare l’agenzia giornalistica “Repubblica”. Detto semisconosciuto organo di stampa è giunto addirittura ad ipotizzare resistenza di una congiura internazionale ordita dalla D.I.A. e dall’U.S.
Marshall Service, organismo deputato alla protezione dei testimoni negli Stati Uniti, avente lo scopo di manovrare i pentiti di mafia per fini destabilizzanti.
Secondo la prefata agenzia, la D.l.A. avrebbe esercitato la sua attività istituzionale violando apertamente con continui abusi giudiziari i diritti civili degli indagati in spregio delle norme garantiste del codice di procedura penale ed in ciò spalleggiata dai “tribunali speciali”, individuati nel sistema delle Procure Distrettuali e della Procura Nazionale antimafia. Il ricorrente richiamo
strumentale al garantismo, la continua aggressione ai pentiti, il sistematico attacco contro gli organismi investigativi ed in particolare nei confronti della DIA, costituiscono il filo conduttore delle notizie pubblicate per alcuni mesi dall’agenzia “Repubblica”. Il ragionamento da quest’ultima seguito culmina con l’affermazione che la tesi sostenuta in sedi istituzionali dal direttore della D.I.A., circa la matrice mafiosa degli attentati stragisti, sarebbe stata formulata allo scopo di occultare i veri mandanti da identificare invece nei fondamentalisti islamici. Per meglio delineare il contesto cui si fa riferimento pare doveroso fare cenno ad alcune notizie apprese in via riservata, secondo le quali l’agenzia giornalistica in questione, intorno a cui gravitano personaggi già legati a Mino Pecorelli, ha come referente privilegiato il gruppo politico dell’On.le Vittorio Sbardella e come direttore Landò Dell’Amico, già legionario della Decima M.A.S. di Junio Valerio Borghese e successivamente iscritto al MS.I, al P.C.I. e al P. S. D.I. , ove ha messo a disposizione di tutti la sua
professionalità di giornalista, non trascurando di esercitare, come sommessamente si mormora fra gli addetti ai lavori, anche l’attività di collaboratore del S.I.D. Gestore di case da gioco clandestine, ha collezionato anche un arresto per truffa ed uno per reati contro la persona.
E’ da rimarcare che la sequenza di azioni delegittimanti, che non trascurano di colpire direttamente anche il suo Direttore, venga attuata nello stesso periodo di tempo in cui alla D.I.A. è affidata dalle competenti Autorità Giudiziarie la conduzione di una serie di indagini estremamente delicate. La campagna di disinformazione non si limita a questa sorta di “comunicazioni interne” note
per lo più soltanto a pochi addetti ai lavori, ma prosegue oltre con la manipolazione delle notizie riguardanti il processo contro i fratelli Gambino, che si è celebrato a New York nella scorsa primavera.
Detto processo si è concluso senza alcun verdetto poiché la giuria non è stata in grado di raggiungere l’unanimità prescritta dalla legge americana, in quanto uno dei dodici giurati non aveva condiviso il giudizio di colpevolezza maturato dagli altri undici membri del collegio.
Ebbene, questa circostanza, peraltro ora soggetta a verifiche da parte dell’F.B.I. che sospetta un caso di corruzione, così come verificatosi in passato per analoghi processi di mafia, è stata falsamente presentata da una parte dei mass media italiani come un conclusivo giudizio di inattendibilità
formulato dalla giustizia statunitense sui pentiti Buscetta, Mutolo e Marino Mannoia. Per tutta risposta sia i giudici americani, sia la rappresentanza diplomatica statunitense in Italia sono intervenuti con dichiarazioni dirette a ristabilire la verità.
Ciò nonostante l’azione delegittimante nel confronti dei collaboratori della giustizia, ripresa ed amplificata da organi di stampa e reti televisive, ha inizialmente raggiunto il suo scopo, creando disorientamento e confusione non solo nella pubblica opinione, ma addirittura anche all’interno della vita politico-parlamentare.
A conferma di ciò si potrebbero citare numerosi episodi, basti per tutti il caso dell’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Roma, nello scorso aprile, dai capigruppo parlamentari democristiani per denunciare una presunta cospirazione che sarebbe stata posta in essere attraverso un uso illegittimo e strumentale delle dichiarazioni testimonia/i dei collaboratori di giustizia.
6. Alle previsioni dell’epoca, fatte da Buscetta, seguono più di recente le dichiarazioni del collaboratore Annacondia, il quale, a suo dire, sin dalla fine del ’92 avrebbe avuto modo di ascoltare, in ambito carcerario, progetti stragisti ventilati da appartenenti a “cosa nostra” e ad altre organizzazioni criminali.
E’ a tale proposito che deve essere sottolineata l’importanza assunta dal trasferimento dei boss in particolari istituti di pena, in attuazione dell’art 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario,[…]. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa. Precisi segnali provengono dall’ambiente carcerario dove è stato registrato, nel corso di recenti colloqui investigativi, un clima di crescente insofferenza verso misure restrittive sopportate con estrema difficoltà dai detenuti che ne evidenziano in ogni occasione i riflessi negativi soprattutto sui
rapporti con i familiari. Anche da informazioni fiduciarie raccolte nelle carceri siciliane nelle scorse settimane si è appreso che tra i detenuti appartenenti a “cosa nostra”, specialmente di livello medio, serpeggia un diffuso malumore per il fatto di non essere più adeguatamente protetti dai vertici dell’organizzazione.
[…] La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ed il sostanziale fallimento della campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, hanno sicuramente concorso, insieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati. Non può non evidenziarsi che l’applicazione di una normativa estremamente rigorosa, si
ricordi in proposito anche la funzione svolta dall’Art.4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che ha denegato ai mafiosi non pentiti la possibilità di fruire dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione e dell’assegnazione al lavoro esterno, ha sortito nei primi dodici mesi
ulteriori effetti dannosi per l’organizzazione, avendo contribuito in modo efficace a far maturare in ben tredici detenuti, sottoposti a trattamento speciale, la scelta di collaborare con la giustizia.
Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”.
7. Dopo Via Fauro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. E’ come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo
momento, a fare sfoggio della propria forza e sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose. Da Via Fauro in poi tutti gli attentati vengono eseguiti al di fuori della Sicilia e sono caratterizzati soprattutto dall’intento di suscitare il massimo clamore possibile e di creare sconcerto e disorientamento tra la gente. Scopo evidente è quello di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello Stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata. Siffatta strategia è senz’altro idonea ad insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che, in fondo,
potrebbe essere più conveniente abbandonare una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di “cosa nostra” a condizioni in qualche modo più accettabili da parte dei mafiosi. Un significativo precedente lo troviamo in un recente passato in Colombia, dove le continue stragi poste in essere dai trafficanti di droga costrinsero lo Stato a trattare e il Governo a modificare la legge che consentiva l’estradizione dei trafficanti negli US.A.
[…]
8. Successivamente agli attentati di Via Fauro e Via dei Georgofili sono giunti dall’interno di “cosa nostra” alcuni segnali, apparentemente slegati tra loro, che è importante riuscire a decifrare poiché si tratta di avvenimenti in qualche misura verosimilmente riconducibili al tema degli attentati e riferibili a personaggi che si ritiene possano essere inseriti nel ristretto gruppo che ha ideato e realizzato il piano stragista.
Ci si riferisce alla richiesta di Giuseppe Calò di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare sulle stragi, alla costituzione di Salvatore Cancemi ed al suicidio di Antonino Gioè.
Tre fatti atipici che hanno avuto tra i protagonisti i massimi esponenti della famiglia di Porta Nuova, in particolare Pippo Calò, uomo della cupola di “cosa nostra”, al centro di alcune delle vicende giudiziarie di maggior rilievo della storta recente del nostro paese: dall’affare Calvi al rapido 904. Le risultanze processuali hanno portato alla luce i suoi molteplici collegamenti con realtà criminali diverse, da quella eversiva a quella collegata al mondo affaristico internazionale. Nomi come quello di Danilo Abbruciati, dell’intera banda della Magliana, di Flavio Carboni e Francesco Pazienza si affiancano al suo in intrecci non ancora completamente chiariti in cui compaiono anche la
massoneria e la criminalità organizzata napoletana.
Il primo a muoversi è proprio Pippo Calò, colui che si è sempre rifiutato di parlare con poliziotti e magistrati, che chiede di essere ascoltato dalla Commissione stragi e non, come sarebbe stato forse più logico attendersi, dalla Commissione antimafia. E’ assai probabile che il boss abbia bisogno di una cassa di risonanza attraverso la quale lanciare messaggi e avvertimenti, in linea con lo stile mafioso, senza essere costretto ad accettare un vero e proprio contraddittorio. La richiesta di audizione potrebbe sottintendere resistenza di un fermento o di contrasti all’interno del vertice della mafia, ma non si può parimenti escludere che qualcuno abbia suggerito tale iniziativa al Calò, dandogli altresì indicazioni sulle cose da dire nella sede prescelta per il suo show.
Pochi giorni prima degli attentati di Roma e Milano Salvatore Cancemi, esponente di spicco della stessa famiglia di Porta Nuova, prende a sua volta una iniziativa senza precedenti: pur essendo libero ed in grado di fronteggiare eventuali pericoli, decide di costituirsi alla polizia denunciando timori per la propria incolumità.
Cancemi non solo sceglie di non difendersi sul campo, ma addirittura, dopo essersi fatto arrestare, offre la propria disponibilità a collaborare e sin dalle prime dichiarazioni fa riferimento all’esistenza dì un profondo contrasto tra una mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata. Ultimo segnale, ma non meno importante, è il suicidio di Gioè pochi giorni dopo gli attentati. Il suo gesto non certamente abituale nella cultura degli uomini d’onore è chiaramente da ricollegare alle conversazioni carpitegli dagli investigatori attraverso intercettazioni ambientali, in cui egli ed i suoi complici facevano riferimento ad attentati eseguiti o in progettazione. Sul punto sono in corso
approfonditi accertamenti che potranno fornire una valida e completa interpretazione del fatto. Premeva ora sottolineare soltanto l’anomalia dell’episodio, sintomo evidente di una situazione di malessere all’interno dell’organizzazione criminale.
9. Passando ora ad un esame dei delitti nella loro dinamica esecutiva, si evidenzia l’esistenza di un legame progettuale tra tutti gli attentati anche e soprattutto dalle analogie riscontrabili nel modus operandi. Il costante utilizzo di autobombe, l’impiego di rilevanti quantità di esplosivi dello stesso tipo, l’individuazione di luoghi ed orari tali da procurare il massimo della risonanza senza provocare necessariamente vittime, sono tutti elementi certi di analogia tra i fatti in esame.
Da non sottovalutare, tra l’altro, la scelta dei tempi di esecuzione che appare legata ad una concreta possibilità per i mass inedia, e in particolare per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività, amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta. Ancora un elemento comune è dato dall’assenza di rivendicazioni credibili. Una metodologia omogenea si riscontra anche nei furti delle autovetture impiegate, commessi tutti da un massimo di tre giorni ad un minimo di un giorno prima delle esplosioni. Da ciò una netta sensazione che la decisione di agire sia stata presa di volta in volta in concomitanza, forse, con fatti e circostanze esterne, che allo stato non è dato conoscere.
Ulteriore comune caratteristica si ritrova dalla strage di Via dei Georgofili in poi, laddove ci si
trova di fronte ad episodi in cui manca un obiettivo predeterminato, ma emerge con assoluta chiarezza la volontà di infondere un terrore generalizzato senza tuttavia causare preventivati danni alle persone. La collocazione degli ordigni è in tal senso sintomatica: punti situati in zone centrali di importanti città, nei pressi di luoghi molto frequentati nelle ore delle esplosioni, ma tali da non
coinvolgere, se non casualmente, vittime innocenti.
Deflagrazioni, pertanto, di particolare violenza e obiettivi prescelti solo sulla base dei parametri anzidetti e non per il significato intrinseco degli stessi. Se così non fosse non si spiegherebbe la casualità delle vittime di Firenze, la cui presenza sul luogo era pressoché sconosciuta a tutti, né la collocazione dell’ordigno in Via Palestro a Milano, località con le caratteristiche volute dagli attentatori, ma profondamente differente da quelle colpite a Roma nella stessa notte e nel contesto di un unico disegno criminoso.
10. Sul piano militare il numero degli attentati, la loro distribuzione sul territorio e le modalità operative ci forniscono il quadro della forza di chi ha agito. Si tratta di elementi che conoscono le città in cui hanno operato e dove possono contare anche su di un supporto logistico, sufficientemente numerosi per attuare rapidamente una serie di attività preparatorie ed esecutive di complessa realizzazione. Emblematico il caso di Firenze in cui, dai momento del furto dell’autovettura utilizzata come autobomba a quello della deflagrazione, sono trascorse poco più di quattro ore.
In questo caso in un lasso di tempo cosi breve è stato possibile: trafugare almeno due autovetture, una da trasformare in autobomba ed una da utilizzare per allontanarsi dal luogo dell’attentato; disporre di un luogo sicuro ove nascondere le auto rubate e caricare l’ingente quantitativo di esplosivo già trasportato sul posto ed occultato; attraversare la città, per recarsi sul luogo dell’attentato con l’autovettura preparata per l’esplosione; attivare il congegno di innesco e fuggire indisturbati.
Anche negli altri casi ci si trova di fronte a gruppi operativi affiatati e, nel caso degli ultimi episodi, anche ben collegati tra loro ed in grado di agire con sostanziale simultaneità in città diverse.
Appare evidente, anche nella fase esecutiva, l’omogeneità degli attentatori e il contesto unitario delle loro azioni.
In assenza di notizie o segnali sull’esistenza di organizzazioni eversive allo stato capaci di agire a tali livelli di operatività è d’obbligo l’immediato riferimento a “cosa nostra”, unica organizzazione criminale che risulta poter disporre di una struttura dislocata in numerose regioni italiane, di un
adeguato controllo del territorio, di collegamenti con la criminalità comune e con frange di quella eversiva, nonché di strumenti idonei per la realizzazione del progetto stragista.
Tralasciando, per ora, le connessioni e le saldature con camorra napoletana e ‘ndrangheta calabrese e riferendoci al centro-nord d’Italia esaminiamo alcuni fatti a sostegno di quanto affermato.
Le conclusioni del processo relativo alla strage del rapido 904, la sentenza di rinvio a giudizio pronunciata dal Giudice Istruttore di Venezia sulla “mafia del Brenta “, gli esiti delle numerose indagini condotte a Milano hanno permesso di stabilire che “cosa nostra”:
per mezzo di suoi rappresentanti di rilievo, ha assunto un ruolo di preminenza nell’ambito della criminalità locale a Roma, Firenze, Milano e sull’asse Padova-Venezia;
a Roma dispone di una parte della malavita locale che si identifica nella banda della Magliana e di contatti con appartenenti all’eversione di estrema destra; a Firenze e in Toscana di gruppi di estrazione siciliana e napoletana insediatisi da tempo e confluiti poi sotto la sua direzione; a
Milano, che ha ospitato personaggi del calibro di Luciano Liggìo, dei fratelli Fidanzati, dei Bono, dei Ciulla, dei Cardio, ancora oggi dispone di una parte della malavita organizzata catanese e calabrese, con un preciso riferimento ai vertici corleonesi.
E’ un quadro di riferimento chiaro di come “cosa nostra” abbia ampie possibilità di operare nelle città colpite dagli attentati, anche utilizzando risorse criminali del posto.
11. Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza della presenza operativa di “cosa nostra”.
Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa.
Le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non appaiono essere semplice frutto della mente di un criminale comune: si riconosce in queste operazioni dì analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali.
Si potrebbe a tal punto pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse.
Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari (come, ad esempio, hanno avuto le Brigate Rosse), si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata.
Non si tratterebbe, quindi, di una organizzazione di tipo verticistico in cui i componenti sono legati da una ideologia, da un unico progetto politico o da una disciplina dì gruppo.
Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano.
Non è da oggi che “cosa nostra”, sodalizio dalle connotazioni anche eversive, mantiene collegamenti con altre organizzazioni al fine di supportare ipotesi golpiste o azioni stragiste.
In passato sono stati accertati suoi rapporti con ambienti dell’eversione di destra: valga per tutti l’esempio, ormai giudiziariamente provato, del golpe Borghese.
Recenti indagini condotte in Calabria pongono in evidenza l’esistenza di collegamenti fra Franco Freda, all’epoca latitante, ed elementi di spicco della ‘ndragheta reggina, strettamente legati a “cosa nostra, come si evince dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’On.le Romeo.
Da ultimo vi è il riscontro offerto dall’esito del procedimento penale sull’attentato al treno rapido 904 del 23.12.1984, che ha consentito di condannare affiliati a “cosa nostra” che operarono in collusione con elementi della malavita napoletana e personaggi legati a gruppi estremisti di destra. Per quanto riguarda il coinvolgimento di ambienti diversi dalla criminalità organizzata, comune ed eversiva, ci sono prove di collusioni con ambienti massonici a rischio.
Recenti indagini hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ’70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispira tori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana. Emerge tra tutti il caso di Stefano Bontate, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù e teorico, in seno a “cosa nostra “, dell’importanza dell’adesione di uomini d’onore alla massoneria. L’ottica del Bontate, così come testimoniato da Marino Mannoia nelle aule dei tribunali statunitensi, era quella dell’allargamento delle strategie criminali della mafia e del suo inserimento in dinamiche operative di più ampio respiro. Sulla base di tali conoscenze, tenuto conto delle severe misure normative introdotte nel nostro ordinamento e della ferma azione condotta dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine contro il crimine, non si possono non rilevare le gravi ed oggettive difficoltà in cui, a vario titolo, sono venute a trovarsi diverse lobbies criminali che cominciano a temere per la loro stessa sopravvivenza.
Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa “cosa nostra” e la sua disperata ricerca di una sorta di “soluzione politica”, potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un “pactum
sceleris” attraverso l’elaborazione di un progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero, fatto ancor più grave, ad innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo o comunque per
garantirsi uno spazio di sopravvivenza.
Sia pure nella sua gravita e pericolosità il fenomeno è ancora oggi circoscrivibile e attaccabile, a condizione che l’attività investigativa prosegua con altrettanta efficacia e che continui con estrema determinazione l’azione di contrasto sin qui intrapresa”.
Come si vede, si tratta di un documento che si distingue per profondità, accuratezza e capacità di intuizione dell’analisi e nel quale, per la seconda volta (dopo la conferenza stampa del Gen. Cancellieri: v. sopra Capitolo 7), si torna a parlare apertamente di “trattativa” tra “cosa nostra” e lo Stato.
[…]
L’analisi della D.I.A., quindi, ancora individua nel regime di rigore carcerario e nella necessità dell’organizzazione “cosa nostra” di intervenire sullo stesso per garantire la sua stessa sopravvivenza, l’origine della nuova ondata di attentati diretti a “indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa” […].
Ed è bene qui ricordare come nel momento in cui la D.I.A. effettuava quell’analisi (1993), ben lontane erano ancora le conoscenze sulla “trattativa” che soltanto dopo anni (nel 1997-98) sarebbero emerse prima con i memoriali Mori e poi con le testimonianze pubbliche dello stesso Mori e di De Donno […].
All’oscuro di ciò, ma anche dell’apertura del D.A.P. col documento programmatico del 26 giugno 1993 che ancora non aveva prodotto effetti avendo il Ministro prorogato i primi decreti del 41 bis […], la D.I.A. non può, comunque – ed ovviamente -, che ribadire la necessità di non cedere al
ricatto mafioso […], ricordando, peraltro, un grave e non certo edificante precedente di “trattativa”, quello che aveva indotto il Governo colombiano a modificare una legge su pressione dei trafficanti di droga […].
Ancora con grande intuito investigativo, la D.I.A. segnala due elementi […] di estrema rilevanza ai fini della comprensione dei fatti e delle conseguenze che ne deriveranno, la presentazione spontanea alle Forze dell’Ordine di un soggetto di spicco dell’organizzazione mafiosa, Salvatore Cancemi, e la riferita (da quest’ultimo) spaccatura all’interno di “cosa nostra” tra una componente “stragista” ed una “pacifista” in quel momento soccombente […].
La D.I.A., quindi, non ha dubbi sulla riconducibilità a “cosa nostra” degli attentati di Firenze, Milano e Roma […]. Come si vede, nell’analisi della D.I.A. v’è già l’intelligente lettura degli accadimenti di quel biennio e l’aderente individuazione dell’origine di essi (il “maxi processo”, l’omicidio Lima, la strage di Capaci), della svolta apparentemente anomala in qualche modo impressa dalla strage di via D’Amelio, della causa di quelli più recenti (la sollecitazione della “trattativa”) e della finalità perseguita (l’attenuazione del rigore carcerario che minava il
potere dell’organizzazione mafiosa).
E, poi, v’è anche, per la prima volta, l’evidenziazione di una possibile spaccatura interna a “cosa nostra”, […] che si rivelerà decisiva per lo sviluppo degli eventi nonostante anche la D.I.A., così come già aveva fatto il Segretario Generale del CESIS […], avesse messo in guardia il Governo sulla assoluta necessità di mantenere la linea della fermezza senza alcun cedimento nel settore
carcerario.
Ma, la consapevolezza negli ambienti investigativi della “trattativa”, intesa, ovviamente, per le conoscenze che si avevano in quel momento, come finalità autonomamente individuata da “cosa nostra”, risaliva almeno ai primi giorni del giugno precedente, così come è emerso anche nel corso dell’esame dibattimentale dello stesso De Gennaro che aveva sottoscritto l'<<appunto>> riservato esaminato in questo paragrafo, grazie all’intuizione di un altro grande investigatore della “scuola Falcone”, il Dott. Manganelli.
[…] Secondo il Dott. Manganelli, poi, “La valenza intimidatoria degli attentati nei confronti di tanto autorevoli rappresentanti delle istituzioni [i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ndr.] ha certamente inteso estendere i propri effetti verso gli stessi appartenenti a “Cosa Nostra”, delusi dagli esiti processuali sorprendentemente ad essi sfavorevoli …. …. La prova di forza della fazione sanguinaria al vertice di “Cosa Nostra” ha rappresentato, quindi, anche un tentativo di incrementare la propria credibilità verso gli incerti accoliti”.
[…] In sostanza, ancora secondo il Dott. Manganelli, “Obiettivo della strategia “delle bombe” sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il “carcerario” ed il “pentitismo” da qualche tempo “fuori dalle regole”, con trattamenti disumani in ambito penitenziario, vessazioni nei confronti dei familiari dei detenuti (interminabili viaggi per poter effettuare i colloqui,
riduzione del numero degli stessi, umilianti ispezioni corporali ed altro), eliminazione normativa delle misure di cui possono invece beneficiare gli altri detenuti (arresti domiciliari, semilibertà, eccetera), uso non sempre corretto del “pentitismo “.
Dunque, gli “attentati non avrebbero dovuto necessariamente realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una “trattativa” che “Cosa Nostra” potrebbe condurre – secondo la fonte – anche utilizzando “canali istituzionali” …. … …. Per raggiungere il traguardo della “trattativa” –
secondo le informazioni acquisite – la strategia del terrore potrebbe continuare con analoghe iniziative criminali e proseguire, poi, con una seconda fase in cui verrebbero eseguiti attentati a personaggi impegnati nella lotta alla mafia”.
Orbene, l’ultimo documento che analizza gli accadimenti stragisti del 1993, appunto quello dello S.C.O. della Polizia di Stato dopo quelli del CESIS e della D.I.A. prima esaminati, giunge a conclusioni ancora più precise, non soltanto ponendo al centro dell’analisi medesima proprio – e senza incertezze di sorta – la “trattativa” con lo Stato perseguita da “cosa nostra” sulle questioni del
carcerario e del pentitismo […], ma, compiendo un balzo in avanti rispetto alle altre analisi, basandosi su una fonte evidentemente ritenuta attendibile, parla espressamente dell’utilizzo di “canali istituzionali” e, quindi, implicitamente ma ineludibilmente, di soggetti delle Istituzioni già ben individuati a quel fine da “cosa nostra” […]
Ora, non v’è – e non avrebbe potuto, ovviamente, esservi – alcun riferimento espresso all’iniziativa del Col. Mori, ma, se si considera quel riferimento ai “canali istituzionali” insieme alle risultanze delle deposizioni di De Gennaro e Arlacchi [Pino, ndr.], non è difficile leggere tra le righe un riferimento all’unico tentativo di contatto tra “cosa nostra” ed esponenti delle Istituzioni di cui circolava notizia negli ambienti investigativi specializzati (v. testimonianza Arlacchi nel
paragrafo precedente), quello operato dal Col. Mori, il quale aveva, se non espressamente millantato, quanto meno, in ogni caso, lasciato credere di avere coperture politiche (v. ancora testimonianza Arlacchi riportata nel paragrafo che precede: “…probabilmente, come ho già detto, il millantare coperture politiche che secondo noi non aveva assolutamente”), così come, d’altra parte, soltanto dopo molti anni (nel 1997), lo stesso Mori avrebbe ammesso dinanzi alla Corte di Assise di Firenze (v. dichiarazioni Mori citate, sopra già più ampiamente riportate: “… certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: ”beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l’aiutiamo”. Allora gli dissi: ”lei non si preoccupi, lei vada avanti” …”).
[…]
Dunque, alla stregua della valutazione complessiva delle risultanze probatorie già singolarmente esaminate in questo Capitolo, deve pervenirsi alla conclusione che nelle Istituzioni fossero ormai ben chiari, dopo le ulteriori bombe del 27-28 luglio 1993, sia la finalità di “cosa nostra” di (ri)attivare una “trattativa” per attenuare il rigore carcerario e, più in generale, ottenere benefici per i propri associati detenuti, sia, nel contempo, la corrispondente necessità di mantenere la linea della fermezza, intrapresa dopo la strage di Capaci e sino ad allora non più abbandonata, e ciò ad iniziare dal regime del 41 bis perché qualsiasi passo indietro nella sua applicazione sarebbe stato letto come un segnale di cedimento dello Stato al ricatto di “cosa nostra”.
E deve dirsi, però, che in quel momento, per le chiare indicazioni di tutti gli organi investigativi, nulla lasciava presagire che un tale cedimento potesse esservi, poiché, nel Governo, da un lato, il Presidente del Consiglio Ciampi non tralasciava occasione per raccomandare il mantenimento della linea dell’assoluta fermezza nel contrasto al fenomeno mafioso, e, dall’altro, il Ministro della
Giustizia Conso aveva, sino ad allora, mostrato altrettanta fermezza, prorogando pressoché in blocco, in data 16 luglio 1993, nonostante le contrarie pressioni interne ed esterne al suo dicastero, i decreti applicativi del regime del 41 bis adottati all’indomani della strage di via D’Amelio e, quindi, in scadenza tra il 20 e il 21 luglio 1993.
In senso contrario, ma ancora sottotraccia, si muoveva soltanto il D.A.P. di fatto guidato da Francesco Di Maggio.

 

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