L’“informativa” della Dia che racconta tutto

Le valutazioni conclusive appena esposte nel Capitolo che precede si fondano in misura non secondaria su risultanze investigative in ordine alla convergenza di interessi ed azioni tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ad iniziare dall’omicidio Scopelliti già sopra pure citato.
Ebbene, un importantissima conferma della comune strategia delle predette due organizzazioni mafiose e anche con altre organizzazioni altrettanto pericolose (la “camorra” napoletana) si trae da un documento prodotto dal P.M. All’udienza del 26 settembre 2013.
Si tratta dell’informativa della Direzione Investigativa Antimafia sottoscritta in data 4 marzo 1994 dal Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie Dott. Pippo Micalizio.
Quest’ultimo è successivamente deceduto e, dunque, la nota è stata acquisita per la sua utilizzazione nel presente processo con ordinanza del 17 ottobre 2017.
Ebbene, in tale informativa v’è un’ampia ricostruzione delle indagini svolte sulle stragi degli anni 1992-1993 e sui collegamenti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” con altre organizzazioni criminali, sia di stampo mafioso, sia di stampo terroristico.
Per la più completa cognizione di tale ricostruzione si rinvia alla informativa medesima, evidenziandosi qui di seguito soltanto alcuni passi che appaiono più rilevanti in relazione ai fatti oggetto del presente processo ed alle valutazioni conclusive del Capitolo che precede:
“L’ipotesi di lavoro formulata nel presente documento è intesa a promuovere e quindi sviluppare un’azione investigativa che possa consentire l’acquisizione di prove in ordine ad una connessione tra le stragi consumate a Palermo (Capaci e Via d’Amelio) nell’estate del 1992 e quelle commesse a Roma, Firenze e Milano nell’arco dell’anno successivo (Via Fauro – Via dei Georgofili – Via Palestro – Via del Velabro – Piazza San Giovanni), preordinate alla realizzazione di un unico disegno criminoso, che ha visto interagire criminalità organizzata di tipo mafioso, in primis la “cosa nostra” siciliana, con altri gruppi criminali che, sebbene allo stato non siano stati compiutamente individuati, possono però essere identificati pianificando un’ adeguata strategia di indagine”.
“Particolare interesse hanno destato i segnali provenienti dal mondo carcerano riguardo ad una crescente insofferenza da parte di mafiosi sottoposti allo speciale regime detentivo introdotto dall’art.41-bis L.354/ 75, regime reso ancor più insopportabile dalla consapevolezza dei mafiosi di non poter più confidare nella ormai consolidata prassi dell’ “aggiustamento” dei processi”.
“La determinazione di “cosa nostra” ad effettuare attentati come reazione al 41bis e, più in generale, come mezzo per “dare una lezione ai politici” è emersa anche dalle dichiarazioni del collaboratore La Barbera Gioacchino … … … in quanto avevano il solo scopo di dimostrare lo capacità della mafia di colpire dovunque e – si ritiene – di costringere lo Stato a patteggiare con “cosa nostra”, inducendolo a rivedere la recente normativa carceraria, così da rendere lo stato di detenzione di cui all’art. 41bis meno gravoso”.
“Parallelamente al consolidarsi del quadro indiziario circa una matrice mafiosa negli attentati di Roma, Firenze e Milano, è andato rafforzandosi negli investigatori la sensazione che il nuovo indirizzo stragistico inaugurato dalla mafia perseguisse in realtà obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di “cosa nostra” o, per lo meno, tendesse al conseguimento di obiettivi comuni o convergenti con gruppi criminali di diversa estrazione con cui esistono rapporti stabili o che in passato avevano convissuto con la mafia. Si è osservato così come l’atipicità, sotto taluni aspetti, degli attentati in questione rispetto a quelli tradizionali di “cosa nostra” (primo fra tutti la scelta degli obiettivi), potesse risultare funzionale non solo alle finalità “terroristiche” della mafia, ma anche agli scopi di entità criminali diverse che avessero operato in sintonia con quest’ultima nel perseguimento di obiettivi comuni o convergenti, gruppi criminali che fossero in grado di elaborare i sofisticati progetti necessari al conseguimento di finalità di più ampia portata. Tali eventi non sono apparsi, quindi, come consueti attentati di mafia, seppure gravissimi, bensì come atti di vera e propria politica mafiosa, la cui riconducibilità alla mafia, intesa come organizzazione criminale chiamata “cosa nostra”, doveva procedere in modo graduale, attraverso una serie di stadi intermedi che rappresentavano altrettanti momenti di convergenza operativa o ideativa.
In chiave interpretativa sono state così considerate, a tale riguardo, le analogie col “modus operandi” difatti eversivi degli anni 70″ e sono state richiamate alla memoria le risultanze processuali relative alla strage sul treno 904 che hanno messo in luce connivenze tra ambienti mafiosi, ambienti della destra eversiva e dell’alta finanza collegata alla massoneria. Sono state attentamente rilette le dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia sui rapporti instauratisi
sin dagli anni 70 tra i vertici di “cosa nostra” e logge massoniche siciliane, quelle sull’appoggio richiesto in quegli anni alle organizzazioni maliose da Junio Valerio Borghese e quelle relative ai progetti di tipo eversivo-separatista delineatisi nello sfondo dell’intesa intercorsa tra la ‘Ndrangheta calabrese e “cosa nostra” siciliana, a seguito della quale la mafia calabrese ha assunto una nuova struttura verticistica propria del modello siciliano.
A rievocare e vivificare un siffatto scenario hanno contribuito, peraltro, alcune recenti circostanze e talune vicende, tuttora al vaglio delle competenti AA.GG., apparentemente scollegate, ma che, sottoposte ad attenta analisi, lasciano intravedere aspetti comuni di estremo interesse ai fini investigativi. In particolare, ha destato l’attenzione degli investigatori la circostanza che Rampulla Pietro, esponente della “famiglia” catanese Santapaola, indicato dall’A.G. di Caltanissetta come l’artificiere della strage di Capaci, sia appartenuto ad ORDINE NUOVO, in contatto con l’ordinovista Cattafi Rosario, indagato dall’A.G. di Messina per traffico internazionale di armi e tratto in arresto in quanto inquisito dalla DDA di Firenze per rapporti con “cosa nostra” nell’ambito della nota indagine sull’autoparco di Milano.
Del tutto enigmatica è apparsa poi la figura di Papalia Domenico, per le inquietanti circostanze che lo legano al mafioso Gioè Antonino, morto suicida in carcere, e a quanto pare all’omicidio del giudice Occorsio ad opera della destra eversiva. Infatti il Gioé, senza apparente motivo, ha citato il Papalia nella lettera scritta prima di suicidarsi. Peraltro, nella medesima lettera il Gioè, per motivi altrettanto poco chiari, ha inteso menzionare tale Bellini, che dovrebbe identificarsi in Bellini Paolo, ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva, sul conto del quale sono in corso accertamenti.
IL QUADRO GENERALE
Nel periodo compreso tra i mesi di maggio e luglio ’93 si è verificata una serie di attentati stragisti in Roma, Firenze e Milano. Si è trattato di eventi non nuovi per l’ltalia ove più volte la criminalità organizzata di stampo mafioso e quella eversiva hanno realizzato attentati mediante l’impiego di esplosivi, causando spesso un elevato numero di vittime. Tali attentati si sono sempre verificati in
concomitanza di particolari momenti della vita nazionale, coincidenti con una maggiore pressione dello Stato contro la criminalità organizzata a seguito di episodi e situazioni di particolare gravita. La matrice delle stragi non è stata a tutt’oggi ancora esattamente individuata, mentre le molteplici inchieste giudiziarie in corso hanno lasciato intravedere la presenza di interessi ascrivibili a settori differenziati, non esclusi quelli di categorie interessate, attraverso la realizzazione di una “strategia del terrore”, a sollecitare una solidarietà nazionale diretta a mantenere un determinato status quo, oppure, coscienti della inarrestabilità del processo di trasformazione, ad accelerarlo guidandolo verso precisi orientamenti politici, sociali ed economici. Gli ultimi episodi in ordine di tempo erano avvenuti a Palermo con le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino. Da allora anche in Sicilia vi è stato un periodo di relativa tranquillità – interrotto
dall’omicidio di Salvo Ignazio (sett. 1992) – coincidente con il massiccio impiego di Forze dell’Ordine e dell’Esercito nelle regioni ad alta densità mafiosa, con la cattura di Salvatore Riina ed altri rilevanti successi di polizia giudiziaria. Sin dall’omicidio del giudice Falcone la D.I.A. aveva individuato l’inizio di una strategia di attacco frontale allo Stato che, già con la successiva strage di via d’Amelio, aveva tradito connotazioni che lasciavano intravedere la volontà di perseguire anche scopi diversi da quelli propri dell’organizzazione siciliana. A seguito degli attentati di via Fauro in Roma, di via dei Georgofili a Firenze e del fallito attentato in via dei Sabini a Roma l’11 giugno 1993, il Direttore della D.I.A. ebbe ad rappresentare innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia il convincimento che i primi due episodi fossero lo sviluppo della strategia intrapresa da “cosa nostra”, mentre, per il terzo, valutazioni tecniche consigliavano di rinviare prudentemente ogni giudizio. In seguito ai successivi attentati del 27 e 28 luglio verificatisi in via Palestro a Milano, a San Giovanni in Laterano ed in via del Velabro a Roma, la D.f.A., in una analisi inoltrata ad altre Autorità istituzionali, giungeva alla conclusione che fosse in pieno sviluppo un progetto ordito da “cosa nostra” e da altre forze criminali, ancora non chiaramente individuate, tendente a soddisfare interessi convergenti.
ANALISI DELLE MODALITÀ’ DI ESECUZIONE DEGLI ATTENTATI
L’esame dei delitti nella loro dinamica esecutiva evidenzia l’esistenza di un legame progettuale e analogie nel modus operandi. Il costante utilizzo di autobombe, l’impiego di rilevanti quantità di esplosivi dello stesso tipo, l’individuazione di luoghi ed orari tali da procurare il massimo della risonanza senza provocare, almeno nelle intenzioni, necessariamente vittime, così da diffondere terrore generalizzato, l’assenza di rivendicazioni credibili, sono tutti elementi certi di analogia tra i fatti in esame, mentre le modalità di esecuzione ed il numero degli stessi, la loro distribuzione sul territorio forniscono il quadro della forza di chi ha agito, soprattutto se si considera che altri attentati erano stati progettati e, per varie cause, non sono stati portati a termine… ci si trova difronte a gruppi operativi affiatati e, nel caso degli ultimi episodi, anche ben collegati tra loro ed in grado di agire con sostanziale simultaneità in città diverse. In assenza di rivendicazioni specifiche, è d’obbligo il riferimento ad un’organizzazione criminale che sia in grado di impiegare basi logistiche
dislocate nei luoghi interessati, capace di un adeguato controllo del territorio e con disponibilità di mezzi e strumenti idonei per la realizzazione di un progetto stragista. L’organizzazione criminale che più di tutte racchiude in sé tali caratteri, almeno su basi militari e di caratura criminale, è sicuramente “cosa nostra” siciliana.
LE CAPACITA’ OPERATIVE DI “COSA NOSTRA” E DELLE ORGANIZZAZIONI DI TIPO MAFIOSO AD ESSA COLLEGATE AI FINI DELLA ESECUZIONE DEGLI ATTENTATI
Nelle attività dirette all’esterno, “cosa nostra” ha come referenti, come si vedrà, più categorie di interlocutori, una delle quali è costituita dalle altre forme di criminalità organizzata presenti sul territorio. L’organizzazione siciliana è ormai considerata l’asse portante di un autentico “sistema criminale” in cui convergono le altre più pericolose consorterie di stampo mafioso e non.
Rapporti con la ‘ndrangheta.
Per quanto attiene ai rapporti con la ‘ndrangheta, le indagini svolte hanno condotto alla constatazione che la criminalità organizzata calabrese non solo può essere ormai considerata per alcuni aspetti parte integrante di “cosa nostra”, ma che la stessa ha raggiunto livelli di pericolosità perlomeno pari a quelli della struttura siciliana.
Nel 1991, ai termine di una lunga trattativa, è stato costituito un organismo provinciale unico, un’autentica “commissione” calabrese, sotto la quale sono stati raccolti tutti i gruppi. Nella circostanza è stata determinante l’opera di mediazione di “cosa nostra”, già da tempo in stretto contatto con alcuni gruppi della ‘ndrangheta
Con la costituzione della “commissione” calabrese i legami tra la ‘ndrangheta e “cosa nostra” siciliana sono diventati talmente forti che, pur non potendosi parlare di una organizzazione unica, certamente è possibile pensare ad una strettissima alleanza. A riprova di quanto affermato, vi sono le risultanze delle indagini condotte dalla D.I.A. in ordine all’omicidio del giudice Antonio Scopelliti. E’ infatti accertato che l’omicidio è stato commesso dai calabresi su richiesta di “cosa nostra” siciliana che intendeva cosi provocare un rinvio dell’imminente processo pendente innanzi alla Corte di Cassazione contro i suoi più autorevoli esponenti.
Sulla consistente presenza nel nord Italia dei sodalizi criminali calabresi, sono oramai acquisiti molteplici riscontri. Vale la pena di soffermare l’attenzione sulle famiglie dei Barbaro – Papalia di Plati, individuate a Milano, ove operavano nel campo dei sequestri di persona e del traffico di  stupefacenti,autonomamente e in raccordo con famiglie di “cosa nostra” siciliana.
Nell’ambito del gruppo Papalia, la figura del suo capo, Papalia Domenico, nato a Piati (Re) il 18.04.45, appare di notevole interesse per una circostanza che ancora deve essere chiarita, ma che si ritiene certamente rilevante. Infatti di costui, come si è già accennato, ha parlato Gioè Antonino, noto esponente della famiglia di Altofonte (PA), arrestato a seguito di una intercettazione ambientale dalla quale sono stati raccolti elementi che lo collegavano ad azioni stragiste compiute e in progettazione da parte di “cosa nostra”, morto suicida per impiccamento il 28 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia. Il Gioé ha lasciato una lettera in cui smentiva il contenuto delle conversazioni intercettate e, tra l’altro, si prodigava senza apparente motivo per dichiarare l’innocenza di Papalia
Domenico, condannato per omicidio. Il Gioè, infatti, affermava, con una giustificazione peraltro banale, che quando aveva detto di aver appreso in carcere dal Papalia stesso che in effetti era lui l’autore dell’omicidio per cui era stato condannato, aveva detto una cosa non vera e lo aveva detto al solo scopo di accreditarsi come un criminale al corrente di molte cose. Il Papalia Domenico è stato arrestato 1’8 marzo 1977 in un appartamento del quartiere Montesacro a Roma, in esecuzione di un ordine di cattura perché ritenuto responsabile di sequestro di persona ai danni di Ferrarmi Giuseppe avvenuto il 9.7.75 a Corsico (MI) e, da allora, è sempre stato detenuto. In data 3.12.80 il Papalia è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Antonio D’Agostino, avvenuto il 2.11.76 in Roma. Secondo quanto accertato in sede processuale, mentre il D’Agostino, esponente di spicco della criminalità organizzata calabrese, si intratteneva a parlare col Papalia dinanzi ad un ristorante romano, era transitato un giovane che, giratosi di scatto, aveva esploso colpi di pistola all’indirizzo del D’Agostino, uccidendolo. La Corte d’Assise di Roma ha condannato il Papalia quale esecutore materiale dell’omicidio, accogliendo la tesi secondo cui il giovane di passaggio avrebbe sparato con una scacciacani, al solo scopo di distrarre il D’Agostino che era stato in realtà ucciso dal Papalia. Tale giudizio è stato confermato sia in sede di Appello, che di ricorso in Cassazione. Nel 1992 prendeva l’avvio una singolare campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica tendente alla revisione del processo ed alla scarcerazione del Papalia. L’opera dì sensibilizzazione proseguiva nel 1993 anche per opera del giornalista di Platì Antonio Delfino e dei parenti del D’Agostino e dello stesso magistrato che acquisì le prove della colpevolezza del Papalia, mentre veniva inoltrata la richiesta di grazia al Presidente della Repubblica. In contrapposizione a tale iniziativa si registravano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Morabito Saverio, affiliato all’organizzazione criminale Papalia – Sergi dal 1977 al 1992, dalle quali si evince che l’omicidio del D’Agostino fu effettivamente ideato ed organizzato da Papalia Domenico. Il procedimento di revisione è in corso.
Rapporti con la camorra.
In Campania è noto da tempo che, alcune delle più agguerrite organizzazioni criminali locali, hanno instaurato stretti rapporti con “cosa nostra” siciliana che è riuscita, malgrado i violenti fermenti che in più riprese hanno sconvolto gli equilibri locali, ad assicurare la propria presenza stabile nel tempo, con un ruolo criminale di primo piano. L’annessione era avvenuta prima, attraverso la formale affiliazione degli elementi più rappresentativi, tra i quali basta ricordare Nuvoletta, Zaza, Bardellino, D’Alessandro. A riprova di tali legami è la circostanza riferita dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo secondo la quale egli stesso sarebbe stato affiliato a “cosa nostra” in Murano (NA), presso la tenuta di Lorenzo Nuvoletta. In un secondo tempo, allo scopo di radicare
ancor meglio il legame, già efficace, con quei napoletani che erano validamente inseriti nelle attività criminali, venne autorizzata la costituzione in Campania di famiglie di “cosa nostra” e la creazione di un vero e proprio “mandamento” che, pur privo di un proprio referente in seno alla “commissione” di Palermo, era rappresentato direttamente dal “segretario della commissione”.
Rapporti con la sacra corona unita.
Anche dalle indagini sviluppate sulla struttura e sulle attività di alcune organizzazioni pugliesi sono emerse iniziative che discendono da “cosa nostra”, intese ad annettere le organizzazioni locali di maggior spessore.
Conclusioni
Sembra possibile affermare che, specie in questi ultimi dieci anni, si è verificato un fenomeno di progressiva aggregazione tra forme di criminalità organizzata di diversa estrazione e, in alcuni casi, anche una contestuale compattazione all’interno di esse. Favorevole ad una tendenza di questo tipo è stata “cosa nostra” siciliana che ad ogni circostanza propizia si è adoperata per rimuovere le condizioni che ne ostacolavano la realizzazione.
Il rischio che attualmente si profila è che la decisa e continua azione repressiva dello Stato induca all’attivazione della forma di aggregazione criminale di cui si è detto anche nel perseguimento di obiettivi strategici per la salvaguardia dell’interesse comune alla sopravvivenza, ricorrendo a tecniche di puro stragismo, un tempo non adottate dalla mafia. Alcune testimonianze, recepite dopo gli attentati della scorsa estate, hanno posto in evidenza, come si vedrà in seguito, l’esistenza di consultazioni in ambito carcerario, tra elementi appartenenti a differenti forme di criminalità organizzata, finalizzate all’esecuzione di attentati dimostrativi proprio per dare una risposta forte
all’azione repressiva dello Stato.
PER UNA SCELTA DI TIPO TERRORISTICO PURO
Alla luce del quadro d’insieme che si viene a prospettare circa il complesso di cointeressenze, alleanze e interconnessioni tra “cosa nostra”, ‘ndrangheta, camorra, criminalità organizzata pugliese e romana, complesso di forze criminali che per comodità di trattazione verrà definito d’ora in avanti come un “sistema criminale” senza per questo voler intendere una struttura monolitica, appare evidente quale possa essere la capacità operativa dispiegabile da detto sistema in qualunque regione del territorio nazionale. Quanto ai motivi che avrebbero indotto “cosa nostra” e con essa l’intero “sistema criminale”, a ricorrere al terrorismo essi vanno certamente ricercati nella rinnovata efficacia dell’azione dello Stato, condotta con determinazione e senza cali di tensione. In particolare è stata già in più occasioni sottolineata l’importanza assunta dal trasferimento dei boss in particolari istituti di pena in attuazione dell’Art. 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario. Grazie alle pesanti restrizioni imposte alla vita carceraria ed in particolare all’isolamento, che ha notevolmente limitato ogni forma di contatto con l’esterno, i detenuti non sono più riusciti ad esercitare efficacemente la loro azione di comando dall’interno delle carceri, venendo in tal modo delegittimati e perdendo gradualmente potere all’interno dell’organizzazione. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa.
[…]
Al riguardo va considerato che, solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma (21 e 22 luglio 1993), il Ministro di Grazia e Giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti ad organizzazioni mafiose. La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste oppure, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una “normalizzazione” di fatto. In sintonia con tale interpretazione appare il contenuto di uno scritto anonimo, pervenuto nello scorso agosto presso l’ufficio DIA di Milano. Trattasi di un documento, già portato a conoscenza dell’A.G. che, benché anonimo, si ritiene degno di attenzione. Lo scritto avvertiva che, sin dal febbraio ’93, i boss di “cosa nostra” avevano programmato la perpetrazione di attentati dimostrativi, da eseguire di notte e senza causare vittime, allo scopo di stimolare opportuni contatti con rappresentanti di Servizi di Sicurezza, nel corso dei quali poter avanzare la richiesta di allentare la pressione investigativa e di “aggiustare” i processi ancora in corso di svolgimento. Qualora tale fase non avesse sortito l’esito sperato, prosegue l’anonimo, i mafiosi, d’intesa con elementi croati collegati al traffico di armi e droga, avrebbero provocato attentati alla frontiera italo slovena sino a giungere ad un’offensiva finale che avrebbe visto l’impiego di armi pesanti con numerose vittime innocenti, nonché sabotaggi a vie di comunicazioni ed attentati a tribunali od altre sedi. Prescindendo comunque dall’esprimere giudizi di merito sul contenuto della missiva, va rilevato che per il tipo e la quantità di esplosivo impiegato, i luoghi prescelti per i recenti attentati appaiono idonei a provocare stragi di grosse dimensioni, non avvenute verosimilmente per una precisa scelta degli attentatori che, pur avendo posizionato le macchine con l’esplosivo in luoghi di notevole afflusso (in via Pauro c’è una scuola, in via dei Georgofili c’è il museo, via Palestro S.Giovanni/via del Velabro di giorno sono molto affollati), hanno programmato l’esplosione in un orario in cui la possibilità di arrecare danni alle persone fosse ipoteticamente ridotta. E tale insolita circostanza, che non sembra occasionale, a far sospettare che scopo primario di questi ultimi episodi criminali potesse essere non tanto l’esecuzione di una strage indiscriminata, quanto piuttosto quello di lanciare un messaggio che, per i suoi contenuti di morte, venisse subito chiaramente interpretato dai destinatari istituzionali.
Sembra ipotizzarle, con sufficiente grado di certezza, che l’analisi fatta dai criminali in via preventiva circa i possibili risultati delle loro azioni dinamitarde, di matrice oscura perlomeno per l’opinione pubblica, avrebbe potuto portare le Istituzioni, preposte alla sicurezza pubblica ed
all’amministrazione della giustizia, alla incapacità di gestire una “emergenza bomba”. Di fronte a tale difficoltà, sarebbe stato possibile prima orientare l’opinione pubblica verso il convincimento che le stragi fossero di matrice politico-terroristica, casomai di origine internazionale, e, in un secondo e ravvicinato momento, allentare la pressione sul carcerario, i cui destinatari, cioè la criminalità organizzata, aveva poco a che fare con le “bombe”.
LE INDAGINI VOLTE ALLA IDENTIFICAZIONE DEGLI ESECUTORI DELLE STRAGI
[…] Indicazioni acquisite nella fasi di avvio delle investigazioni riconducono all’ipotesi che vede “cosa nostra” ed il “sistema criminale” ad essa connesso in veste di struttura esecutiva.
Si ritiene, inoltre, che il “sistema criminale” sopra delineato possa avere connessioni con altre “presenze” legate al mondo affaristico-economico, nonché ad altri gruppi criminali perseguenti obiettivi politici. In questo contesto è stata posta l’attenzione su alcuni ambienti che in passato hanno dimostrato disponibilità a forme di collaborazione con la criminalità organizzata di tipo
mafioso, in alcuni casi anche per la perpetrazione di attentati, così come è avvenuto per l’area ideologica dell’estrema destra.
L’AMBIENTE POLITICO – AFFARISTICO
La c.d. copertura a livello politico di “cosa nostra”, comune anche ad altri gruppi della criminalità organizzata, trova dunque il suo logico presupposto nel primario bisogno della mafia di imporsi con strumenti diversi, ma non meno condizionanti, da quello della violenza fisica. E’ anche in virtù di tali presupposti che la lotta alla mafia ha avuto vittime soprattutto tra coloro che hanno intuito e combattuto questo sistema di potere, anche se negli ultimi tempi, venute meno le protezioni per una crisi profonda dell’attuale sistema sociale e politico e per la conseguente incapacità di garantire “protezioni”, la reazione delle organizzazioni criminali mafiose ha conosciuto punte di aggressività più accentuate ed efferate. Gli omicidi di Rocco Chinnici, di Pier Santi Mattarella, di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Ninni Cassarà, di Libero Grassi, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, solo per citarne alcuni, sono in fondo delitti compiuti non solo contro il singolo, ma anche contro il potere statale e la componente sana della società che essi rappresentavano. Motivazioni diverse, come appresso meglio vedremo, sarebbero invece alla base degli omicidi di Salvo Lima ed Ignazio Salvo, che hanno segnato un vero e proprio cambio di strategia della “cosa nostra” palermitana. E’ risultato, infatti, in più inchieste giudiziarie, alcune tuttora in corso, che costoro hanno per anni rappresentato, con diversi ruoli ma complementari tra loro, l’elemento di congiunzione tra l’organizzazione mafiosa e taluni settori politici ed imprenditoriali, anche al di là di singole vicende siciliane. La loro eliminazione ha consentito a “cosa nostra” di dare un preciso segnale con cui rivendicare il proprio potere sul territorio e lanciare un chiaro monito a chi viola i patti o non ne realizza le aspettative. La logica di quest’ultima considerazione si ritrova nel modo di agire stesso della mafia, che si muove all’interno del tessuto sociale creando una inestricabile ragnatela di interessi, frutto di un sistema che prevede, tra l’altro, lo scambio di favori con settori corrotti dell’apparato istituzionale in una sorta di flusso costante che non può e non deve interrompersi, non solo per motivi di mero interesse economico, ma anche perché verrebbe meno la forza intimidatrice dell’organizzazione.
[…]Proprio con riferimento all’omicidio di Salvo Lima, che sarebbe stato ucciso perché non era più in grado di garantire la necessaria copertura giudiziaria dopo il disastroso esito – per i mafiosi – della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Il processo, infatti, anziché essere “aggiustato” secondo le aspettative, non solo confermò le pene ma certificò anche l’esistenza della “commissione” e la sua responsabilità nei delitti di interesse comune e strategico per
l’organizzazione.
GLI OMICIDI FALCONE E BORSELLINO COME INIZIO DELLA STRATEGIA DI ATTACCO ALLO STATO CONDOTTA DA “COSA NOSTRA” IN CONCORSO CON ALTRE FORZE CRIMINALI
La “cosa nostra” ha avviato la strategia di attacco frontale alle Istituzioni con la strage di Capaci. Obiettivo il Giudice Falcone il quale, pur non essendo più direttamente impegnato in indagini contro la criminalità mafiosa, nel suo nuovo incarico stava conducendo un’azione d’indirizzo della politica giudiziaria con prevedibili gravissime conseguenze, non solo per la mafia, ma per l’intero
“sistema criminale”. Con la strage di via d’Amelio e l’omicidio del giudice Borsellino, erede morale di quanto aveva rappresentato Giovanni Falcone, si consolidava negli investigatori il convincimento che era stata intrapresa una strategia di scontro frontale contro lo Stato. Nella circostanza non si potevano infatti non riscontrare talune anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di “cosa nostra”, tanto da far ritenere che si fossero inserite nell’azione mafiosa patologie estranee, di origine non ben definita, ma tali da essere risultate determinanti per il verificarsi dell’evento. Alla data del delitto, infatti, il decreto legge emanato in risposta alla strage di Capaci, che esaltava alcuni poteri repressivi degli organi inquirenti e investigativi, era oggetto di serie perplessità, da parte della classe forense e della magistratura, che potevano preludere ad un drastico ridimensionamento del provvedimento in sede di conversione in legge. In un momento così delicato, a soli due mesi di
distanza dalla strage di Capaci, l’esecuzione di un secondo gravissimo omicidio, per cui non esisteva alcuna apparente motivazione di urgenza, non sembra sia da ricondurre esclusivamente agli interessi immediati di “cosa nostra”.
L’organizzazione mafiosa, adusa a ponderare con cura le proprie mosse, non poteva non considerare che l’impatto sull’opinione pubblica sarebbe stato fortissimo e che altrettanto forte sarebbe stata la richiesta di adozione di severe misure di contrasto alla criminalità. Difatti con l’omicidio Borsellino cadde ogni perplessità nei confronti del provvedimento governativo che venne addirittura inasprito. L’apparente incongruenza della decisione presa da “cosa nostra” non può quindi trovare giustificazione se non interpretando la sua condotta come espressione della volontà di perseguire fini diversi da quelli logicamente ad essa attribuibili, quali quello di provocare il rinvio di un processo o impedire ad un magistrato di proseguire in una inchiesta capace di arrecare gravi danni all’organizzazione o semplicemente eseguire una vendetta.
Le considerazioni esposte inducono a ritenere che ci si trovi di fronte ad una logica diversa, meno cauta, servente interessi e finalità diverse, ma non necessariamente disgiunte da un vantaggio per “cosa nostra”.[…] Può quindi affermarsi che “cosa nostra”, con le stragi di Capaci e via d’Amelio,
ha agito nonostante avesse previsto la dura reazione istituzionale. Il vertice dell’organizzazione ha agito nella piena consapevolezza dell’alto costo che avrebbe dovuto sopportare, in ossequio ad un interesse di gran lunga superiore che travalicava l’ambito prettamente mafioso.
I MOTIVI DEL TRASFERIMENTO DELLA STRA TEGIA TERRORISTICO – MAFIOSA AL DI FUORI DELLA SICILIA
E’ un dato di fatto che la stagione delle stragi, iniziata con Falcone e Borsellino, è proseguita con gli attentati di Roma, Firenze e Milano in un contesto storico politico del tutto particolare e diverso rispetto a quello di pochi mesi prima, con una situazione parlamentare di grave crisi, uomini politici e imprenditori ai massimi livelli travolti da “tangentopoli” ed una tempesta giudiziaria che si è
abbattuta su uno dei servizi di sicurezza.
La medesima ineludibile ed improcrastinabile necessità di fermare l’azione dello Stato potrebbe essere stata avvertita sia dalla criminalità organizzata che da altri gruppi di potere criminale con una convergenza di interessi diversi in una strategia delinquenziale comune.
A questo punto la strage di Capaci e l’omicidio del giudice Falcone assumerebbe la fisionomia di qualcosa di più di una semplice vendetta della mafia per diventare un omicidio strategico, deciso da menti criminali diverse nel quadro di un progetto più ampio che non si riesce a definire.
Le stesse considerazioni sono maggiormente valide per la strage di via d’Amelio. A differenza di questi due delitti, gli attentati successivi vengono però eseguiti fuori dalla Sicilia e con connotazioni molto diverse: non si tratta più, quindi, di colpire uomini rappresentativi dello Stato, ma anche di seminare terrore e caos in forma generalizzata. La prima motivazione del cambio di strategia può essere ricercata nelle sollecitazioni che provenivano dagli affiliati detenuti tra i quali, a causa delle restrizioni in carcere, si era creato un diffuso malessere che aveva come destinatari i capi, sia perché alle loro decisioni si faceva risalire la causa delle nuove difficili condizioni detentive, sia perché sembrava che non si stessero adoperando per porvi rimedio. Inoltre è da tenere presente che nel
periodo che intercorre tra le prime due stragi siciliane e gli attentati di Milano, Firenze e Roma, sono stati arrestati alcuni dei più importanti esponenti di “cosa nostra” tra cui lo stesso Riina.
Mantenere alto il livello di scontro in Sicilia, visti i precedenti, equivaleva a sottoporsi deliberatamente ai rigori dell’art. 41 bis a tempo indeterminato, proprio quando quasi tutti i massimi esponenti dell’organizzazione si trovavano detenuti. Bisogna rammentare che quando, all’epoca dell’omicidio Borsellino, “cosa nostra” accettò di sopportare dei sacrifici, nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato 11 art. 4i bis e anche che Salvatore Riina non era detenuto né prevedeva di diventarlo.
Una seconda motivazione derivava probabilmente dall’esigenza, questa volta condivisa anche dalle forze criminali che hanno affiancato la criminalità organizzata, di creare una situazione di allarme che fosse di carattere nazionale. […] Invece, con attentati anonimi, di oscura matrice, lontano da Palermo, nel cuore della Capitale, di Firenze, di Milano il pensiero della gente corre ad immagini di una mafia onnipresente, inafferrabile, minacciosa senza però averne alcuna prova, va alle onnipresenti ed evanescenti organizzazioni responsabili della strage di piazza Fontana, della stazione di Bologna e di tanti altri gravissimi attentati, immagina misteriose organizzazioni
di ogni genere, italiane e straniere, e nell’impossibilità di dare una identificazione certa agli attentatori diventa più facile preda del terrore perché si trova ad essere minacciata da un pericolo senza volto.
I RAPPORTI NOTI TRA “SISTEMA CRIMINALE” E FORZE ILLEGALI DI DIVERSA ESTRAZIONE
Per cercare di individuare quali possano essere i compartecipi del “sistema criminale” nel disegno terroristico, in cui sono inquadrati gli attentati e le stragi oggetto della presente informativa, è necessario ricorrere alla ricerca di tutti i contatti che quella parte della criminalità organizzata di stampo mafioso appartenente al “sistema criminale” risulta aver avuto, in passato e recentemente, con altre entità criminali.
a. Ambienti massonici deviati.
La prima forma di associazionismo criminale di cui ci si deve occupare è costituita dalla cosiddetta “massoneria deviata”, intendendo con ciò quell’insieme di personaggi che sfruttando la propria qualità di affiliati alla massoneria si adopera come tramite tra elementi dediti ad affari illeciti,
appartenenti ad ambienti che altrimenti difficilmente potrebbero comunicare tra loro. E’ stato incontestabilmente provato che “cosa nostra” si avvale di ambienti massonici per infiltrarsi e condizionare i settori istituzionali più difficilmente permeabili all’influenza mafiosa.
L’inchiesta a cui si fa riferimento ha accertato che mafiosi legati ad Agate Mariano sfruttavano le relazioni allacciate tramite la massoneria per attivare contatti con magistrati impegnati in processi che li riguardavano. Non va dimenticato che anche Salvatore Greco, detto il “senatore”, fratello di Michele, ed altri uomini d’onore risultarono iscritti alle logge palermitane, i cui elenchi furono trovati a Palermo, in via Roma, nel corso di una perquisizione nel 1986. […]Sono ampiamente noti, poi, i rapporti tra Sindona, legato alla Loggia massonica P2, e “cosa nostra”, di cui fu ospite nel 1979 in occasione del suo simulato rapimento.
Da ultimo si ricordano i legami tra “cosa nostra” e la Loggia P2 che sono emersi dalle indagini, ancora aperte, sugli intricati intrecci tra Pippo Calò, la banda della Magliana e uomini legati a Gelli come Roberto Calvi e Flavio Carboni. […] Anche a Milano si rinvengono canali di contatto tra la ‘ndrangheta e la massoneria di Licio Gelli. Ci si riferisce ancora al Papalia Domenico, sul conto
del quale ci si è già soffermati, […].
b. Gli ambienti della destra eversiva.
Già sono stati ricordati i primi contatti, avvenuti nel 1970, tra “cosa nostra” siciliana e la destra eversiva in occasione del golpe Borghese. In epoca più recente è stato certamente Pippo Calò, attraverso i suoi rapporti romani con la banda della Magliana, ad avere la possibilità di contattare appartenenti all’estremismo di destra. Un dato di fatto certo è che, con riferimento alla strage del rapido 904, in quella circostanza, come si è già avuto modo di dire, una componente della struttura che operò era formata da uomini del gruppo napoletano di Giuseppe Misso, il quale aveva dato alla sua organizzazione una connotazione anche ideologica di estrema destra.
Una connessione tra “cosa nostra” e l’estremismo di destra è emerso con la scoperta degli autori della strage di Capaci. Tra questi, infatti, si trova Pietro Rampulia, da Mistretta, che ebbe il ruolo di artificiere. […] Oltre che mafioso il Rampulla vanta pregiudizi di natura politica […]. A tale periodo  risale infatti la sua adesione ad Ordine Nuovo e la sua conoscenza con Cattafi Rosario, unitamente al quale fu denunciato e successivamente condannato per lesioni. Il Cattafi Rosario, da Barcellona Pozzo dì Gotto (ME), anch’egli militante di Ordine Nuovo, nei primi anni 70 ha vissuto le medesime esperienze del Rampulla venendo più volte denunciato.[…].
c. I servizi segreti.
La trattazione dell’argomento deve essere affrontata con responsabile prudenza perché i riferimenti ai servizi di sicurezza che si rinvengono sono sempre generici, senza alcuna indicazione che consenta di individuare con esattezza a quale organismo ci si debba esattamente riferire. Anche quando taluno viene indicato come appartenente ai servizi segreti non è mai possibile stabilire quale ruolo ricopra in quegli ambiti: funzionario regolarmente inquadrato, collaboratore esterno, informatore. […] L’unica prova concreta dell’esistenza di rapporti tra criminalità organizzata e servizi segreti è stata raccolta nel contesto della recente indagine condotta dalla D.D.A. di Palermo sui legami tra mafia e massoneria mediante i quali “uomini d’onore” di Mazara del Vallo tentavano di “aggiustare” i processi. Nel relativo provvedimento di custodia cautelare si legge di una conversazione intercorsa tra due “uomini d’onore” di Mazara del Vallo, raccolta a mezzo di
intercettazione ambientale, durante la quale si fa esplicito riferimento ai servizi segreti ed ai loro legami con ambienti massonici e giudiziari, questi ultimi da avvicinare per il tentativo di aggiustare i processi. Contatti con i servizi segreti sono emersi nel corso degli anni a proposito della “Banda della Magliana”, con cui Pippo Calò, malgrado le sue smentite, ha mantenuto rapporti strettissimi.
Per quanto riguarda Licio Gelli e i suoi rapporti con i servizi segreti, oltre alle molteplici risultanze processuali, basterà rammentare come nel 1978 il prefetto Walter Pelosi, direttore del Cesis, il generale Giulio Grassini, direttore del Sisde, e il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, fossero tutti iscritti alla P2.
d. Attività di depistaggio e campagna di disinformazione
[…] Altro elemento di inquinamento e di disinformazione è lo stillicidio di minacce e rivendicazioni della “Falange Armata”, organizzazione terroristica nota solo per i suoi comunicati ed atti intimidatori, che sembra essere solo una sigla usata da diverse componenti. Da parte dell’organizzazione in argomento sono state rivendicati, mediante telefonate ad agenzie d’informazione di varie città, l’omicidio di Salvo Lima, le stragi di Capaci e di via d’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgojìli a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano.
[…]
CONCLUSIONI
La presente informativa che ha lo scopo, come si è detto, di individuare ipotesi investigative e delineare un possibile quadro globale di riferimento degli eventi stragistici del 1993, in virtù della quantità e qualità dei dati riscontrati nell’ambito di procedimenti penali e di indagini tuttora in corso presso le diverse competenti DDA relative ad attività criminali di tipo mafioso, di tipo mafioso-politico, di tipo mafioso-massonico e di tipo stragistico, può diventare una chiave di lettura unitaria in relazione alle stragi di cui all’oggetto.
L’attualizzazione dei rapporti tra le persone indicate nel presente documento e soprattutto l’individuazione dei loro nuovi ed aggiornati punti di contatto potranno essere la chiave di lettura per risolvere in senso positivo, con l’acquisizione di riscontri probatori certi, le inchieste sulle stragi.

 

http://mafie.blogautore.repubblica.it/