La minaccia contro il governo Berlusconi

Secondo la Pubblica Accusa, in parallelo già con l’azione concretizzatasi nella minaccia ai Governi Amato prima e Ciampi, soprattutto, dopo, venne a svilupparsi, dopo l’arresto di Salvatore Riina (già preceduto da quello di Vito Ciancimino), un’ulteriore azione che vide protagonisti da un lato Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, che di fatto, al di là delle cariche formali mai loro attribuite, raccolsero il testimone dello stesso Riina rappresentandone la volontà, e, dall’altro, Marcello Dell’Utri (per il tramite di Vittorio Mangano che con lo stesso vantava un risalente rapporto di frequentazione) e che sfociò, infine, ancora secondo la contestazione di reato del P.M., nella rinnovazione della minaccia mafiosa nei confronti anche di Silvio Berlusconi appena insediatosi nel
maggio 1994 a Capo del nuovo Governo della Repubblica.
Tale azione così, infine, sfociata, peraltro, ancora secondo l’Accusa, avrebbe avuto già un prologo nel 1992, dopo l’uccisione di Salvo Lima, allorché il medesimo Marcello Dell’Utri si sarebbe offerto alle cosche mafiose come nuovo interlocutore delle stesse in sostituzione del predetto Lima.
E’ opportuno, allora, iniziare proprio dalla figura di Marcello Dell’Utri quale emerge, innanzi tutto, dalle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, per poi verificare:
– se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra”, come si è visto nella precedente Parte Terza di questa sentenza, ebbe a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragista;
– se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi;
– se tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi;
– se, infine, Dell ‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.
[…]
Nel corso del processo, quanto all’odierno imputato Marcello Dell’Utri, sono state acquisite al fascicolo del dibattimento le sentenze pronunciate nei confronti del predetto rispettivamente il 29 giugno 20 l O dalla Corte di Appello di Palermo, il 9 marzo 2012 dalla Corte di Cassazione, il 25 marzo 2013 ancora dalla Corte di Appello di Palermo e, infine, dalla Corte di Cassazione il 9
maggio 2014 con la quale è stato irrevocabilmente definito il processo.
Marcello Dell’Utri, invero, venne portato a giudizio per rispondere dei seguenti reati:
a) di cui agli artt.110 e 416 commi 1,4 e 5 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra “, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni in tessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;
3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell ‘Utri a porre in essere (in varie
forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui all’articolo 416 commi 4° e 5° c.p. trattandosi di associazione armata ed essendo il numero degli associati superiore a dieci. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e
centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982;
b) di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra “, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni
intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:
1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;
3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell’Utri a porre in essere (in varie
forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art.416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il
prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi.
Con la prima delle predette sentenze, quella del 29 giugno 2010, l’imputato Marcello Dell’Utri, già condannato dal Tribunale di Palermo per i predetti reati unificati sotto il vincolo della continuazione alla pena di anni nove di reclusione, venne assolto dalla Corte di Appello di Palermo dal reato di cui sopra al capo b), nel quale veniva dichiarato assorbito il reato di cui al capo a), limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perché il fatto non sussiste e per l’effetto venne ridotta la pena allo stesso inflitta ad anni sette di reclusione.
Con la seconda delle predette sentenze, quella del 9 marzo 2012, tuttavia, la Corte di Cassazione annullava la sentenza della Corte di Appello nel capo relativo al reato del quale l’imputato era stato dichiarato colpevole e rinviava per un nuovo giudizio ad altra sezione della medesima Corte di Appello.
Con la terza delle predette sentenze, quella del 25 marzo 2013, quindi, la Corte di Appello di Palermo, decidendo in sede di rinvio, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo dell’ Il dicembre 2004, tenuto conto dell’assoluzione irrevocabile pronunziata dalla Corte di Appello con la sentenza del 29 giugno 2010 con riferimento alle condotte contestate per il periodo successivo al 1992, rideterminava la pena inflitta in anni sette di reclusione.
Con l’ultima delle predette sentenze, quella del 9 maggio 2014, infine, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso di Marcello Dell’Utri determinando il passaggio in giudicato anche della condanna così come stabilita dalla Corte di Appello di Palermo il25 marzo 2013.
[…]
Per la condotta per la quale Dell’Utri è stato condannato ci si può rifare, in particolare, alla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25 marzo 2013. Da tale sentenza si ricava, invero, che già dalla precedente pronunzia della Corte di Cassazione di annullamento della sentenza della Corte di Appello di Palermo del 29 giugno 2010 era derivato il definitivo accertamento, “in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all’attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza, collaboranti gravitanti ali ‘interno di cosa nostra” di alcuni precisi fatti indicati nei seguenti termini:
“- l’assunzione – per il tramite del Dell ‘Utri – di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra;
– la non gratuità dell’accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo essendosi posto anche come garante del risultato;
– il raggiungimento dell’accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quell’assunzione, è stato l’artefice grazie anche ali ‘impegno specifico profuso dal Cinà”.
Tali condotte, sostanzialmente “consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di “cosa nostra” al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l’associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell’imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in
cambio di una generale protezione”, sono state, quindi, già ritenute “sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all’imputato di concorso esterno in associazione mafiosa”.
Secondo la Corte di Appello, dunque, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti” cospicui da parte di Silvio Berlusconi di cui si è detto sopra, essendo “emerso che l’imputato (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ’90”.
E’ importante qui sottolineare che, ancora secondo quei giudici, la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, quella voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palermitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e
Dell’Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che – per i motivi più volte evidenziati – è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.
Sino a tale data, pertanto, sono stati ravvisati “tutti gli elementi costitutivi del delitto contestato non essendo mai emerso alcun fatto da cui poter desumere un mutamento dell’elemento psicologico di Dell’Utri” che investiva “sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, che dopo quasi un ventennio Dell’Utri ben conosceva, sia il contributo causale recato con il proprio
comportamento alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa con la quale consapevolmente e volontariamente l’imputato interagiva dal 1974”.
E’ ugualmente utile rilevare in questa sede che, ancora secondo quella Corte di Appello, la “peculiarità del comportamento di Dell’Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso
tavolo” e ciò non per “ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione”, ma per “valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all’associazione mafiosa, ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti
acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un’attività di sostegno all’associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.
La Corte di Appello con la medesima sentenza del 25 marzo 2013 non ha trattato, invece, l’assoluzione dell’imputato Dell’Utri per la condotta successiva al 1992, poiché questa, a seguito dell’inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore Generale avverso la precedente sentenza della Corte di Appello del 29 giugno 2010, era divenuta definitiva.
Da quest’ultima sentenza, comunque, si ricava che, secondo quel Giudice, poteva ritenersi provato l’assunto accusatorio in ordine al concorso esterno a carico dell’imputato soltanto fino al 1992, poiché, appunto, solo fino a detta data l’imputato risultava avere svolto l’attività di “mediazione” tra Silvio Berlusconi, vittima dell’estorsione, e l’associazione mafiosa “cosa nostra”, rappresentata
prima da Stefano Bontate e poi da Salvatore Riina.
Nel periodo successivo, infatti, l’imprenditore Berlusconi aveva maturato l’idea di assumere quel ruolo politico che, poi, effettivamente, aveva assunto dalla fine del 1993 ed erano mancati elementi probatori tali da far ritenere che quei pagamenti fossero proseguiti.
Quella Corte di Appello, dunque, aveva escluso che per il periodo successivo al 1992 fossero state poste in essere dall’imputato Dell’Utri condotte consapevoli e concrete di contributo materiale aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa, avendo, peraltro, escluso che, al fine di ritenere integrato il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa,
potessero rilevare le condotte dell’imputato di mera disponibilità o di vicinanza ad esponenti mafiosi e, sotto altro profilo, che l’imputato medesimo avesse avuto un ruolo nell’ipotetica trattativa tra i mafiosi catanesi ed il gruppo Fininvest nella vicenda che traeva origine dai cinque attentati ai magazzini Standa nella provincia di Catania, compiuti agli inizi del 1990, il più grave dei quali aveva causato danni gravissimi all’edificio nel quale aveva sede uno dei detti magazzini.
D’altra parte, la Corte traeva conferma sul fatto che “cosa nostra”, sino alla fine del 1993 – inizi del 1994, non avesse ricevuto garanzie politiche né da Dell’Utri né da altri, dal fatto che l’associazione mafiosa sino a quella data, non avendo trovato nuovi contatti politici, aveva avviato una politica stragi sta ed aveva nel contempo progettato di costituire un proprio partito siciliano autonomista.
Inoltre, la Corte di Appello del 2010 aveva ritenuto di non potere escludere in termini di assolutezza che Vittorio Mangano potesse avere millantato con Brusca e Bagarella di avere ricevuto da Dell’Utri promesse politiche nel corso degli incontri avvenuti nel 1993-1994 e che, dunque, i pretesi contatti fossero rimasti soltanto a livello di tentativo senza alcun esito positivo.
In sostanza, quindi, dopo il 1992, ancora secondo la Corte di Appello del 2010, non era stato possibile acquisire “prove inequivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Del ‘Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa”.
[…] Orbene, i fatti accertati in positivo all’esito del processo nei confronti di Marcello Dell’Utri di cui alle sentenze appena ricordate possono ritenersi pienamente provati anche nel presente processo alla stregua della valutazione che qui può essere fatta unitamente agli altri elementi di prova direttamente acquisiti in questa sede e che saranno di seguito esposti.
[…]
IL RUOLO DI MARCELLO DELL’UTRI NELLE VICENDE DEL 1992
Come si è già anticipato nella Premessa alla Parte Quarta della presente sentenza, secondo la contestazione di reato formulata dalla Pubblica Accusa al capo a) della rubrica riportata in epigrafe, l’azione che, dopo l’arresto di Salvatore Riina (già preceduto da quello di Vito Ciancimino), vide protagonisti da un lato Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (di fatto in rappresentanza di “cosa nostra” avuto riguardo al ruolo, in quel momento senza effettivo potere, di Provenzano), e, dall’altro, Marcello Dell ‘Utri (per il tramite di Vittorio Mangano che con lo stesso vantava un accertato risalente rapporto di frequentazione) e che sfociò, infine, ancora secondo la contestazione di reato del P.M., nella rinnovazione della minaccia mafiosa nei confronti anche di Silvio Berlusconi appena insediatosi nel maggio 1994 a Capo del nuovo Governo della Repubblica, ebbe già un prologo nel 1992, allorché, dopo l’uccisione di Salvo Lima, il medesimo Marcello Dell’Utri si sarebbe offerto alle cosche mafiose come nuovo interlocutore delle stesse in sostituzione del predetto Lima.
Infatti, la prima condotta che viene espressamente contestata all’imputato Marcello Dell’Utri è quella del concorso nel reato di minaccia al Governo “inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio LIMA ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento
dei benefici” di varia natura (“tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione”) in favore degli aderenti all’associazione mafiosa (v. capo d’imputazione).
[…]
L’accusa si fonda sostanzialmente sulle propalazioni di Giovanni Brusca e di Salvatore Cancemi.
[…] Brusca ha riferito di avere chiesto a Riina, dopo la strage di Capaci (periodo indicato con qualche margine di incertezza, poiché in precedenza si era temporalmente riportato al periodo dopo l’uccisione di Lima), se qualcuno si fosse fatto effettivamente avanti e che, a quel punto, il medesimo Riina, tra gli altri soggetti (Ciancimino e Bossi), gli aveva fatto anche il nome di Dell’Utri, nome che, tuttavia, lo stesso Brusca non aveva indicato inizialmente (v. dich. Brusca sopra riportate: “… Ed io, in base a questi ragionamenti fatti con Totò Riina precedentemente, a un dato punto, dopo la strage … dopo l’omicidio … dopo la strage di Capaci veramente gliel’avevo chiesto pure prima, però più approfonditamente dopo la strage di Capaci, dico: “È venuto qualcuno? Si è sentito qualcuno? C’è novità?” Ma con riferimento, diciamo, a questo tipo di meccanismo, cioè una volta ucciso Lima vediamo chi si fa sotto per vedere qualche cosa. E lui mi risponde con fare disinteressato, dice: “Sì. mi hanno portato il mio paesano, che sarebbe Vito Ciancimino, a Bossi, la Lega di Bossi” e non avevo fatto il nome di Dell’Utri. che poi ho fatto ultimamente, che non lo
avevo fatto in precedenza … […] Non me l’ha detto chi gli … Mi dice: “Mi hanno portato”. Non mi ha detto: “Me li ha portati Tizio, Caio e Sempronio”. Posso immaginare, ma credo che non interessa. No che “me li ha portati Vito Ciancimino”. Si sono fatti sotto, si sono fatti presenti del posto di … Il senso era: “Il posto di Lima, il nostro referente, ci sono questi soggetti che possono
adempire a quelle che erano le nostre esigenze” e dice: “Mi hanno portato la Lega di Bossi, il mio paesano Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri”, però tra il gesto e il tono della voce era come dire “non m’interessa”… “).
Sennonché, poi, ancora Brusca ha riferito di un ulteriore incontro avuto con Riina dopo circa venti giorni dal primo, nel quale quest’ultimo aveva manifestato disinteresse verso quei politici che precedentemente si erano proposti, raccontando che questa volta il medesimo Riina si era mostrato
soddisfatto perché qualcuno “si era fatto sotto” ed egli aveva così avanzato un “papello” di richieste quali condizioni per cessare le stragi[…].
[…] Ciò premesso, seppure l’indicazione nominativa di Dell’Utri in quella fase, così come quella di Bossi, potrebbe non sorprendere alla stregua di alcune risultanze su talune iniziative politiche di quel periodo di cui si dirà meglio nel Capitolo seguente, tuttavia, quel che occorre rilevare in questa sede è, in ogni caso, che dalle stesse dichiarazioni del Brusca non è dato ricavare un benché minimo
effettivo collegamento di qualsiasi tipo tra una eventuale iniziativa dell’imputato Dell’Utri (e ciò a prescindere da ogni considerazione sulla tardività dell’indicazione di quest’ultimo da parte del detto dichiarante, comunque superabile in forza delle risultanze di alcune intercettazioni dei colloqui di Riina in carcere di cui si dirà nella successiva Parte Quinta della sentenza) e le richieste che, a un certo momento, Riina, mutando il suo intendimento di vendetta e di mera contrapposizione frontale allo Stato, aveva ritenuto di avanzare a titolo di condizione per la cessazione della contrapposizione
medesima e, quindi, delle stragi.
Lo stesso Brusca, infatti, ha riferito che Riina si era mostrato disinteressato all’approccio dei “politici” precedentemente da lui indicati, tra i quali Dell’Utri, ed ha quindi aggiunto che quando successivamente, invece, Riina gli aveva detto che qualcuno “si era fatto sotto” ed aveva mostrato per tale ragione soddisfazione, egli aveva “pensato” che si potesse trattare di quegli stessi soggetti citati nel precedente incontro […].
Dunque si è trattato di una mera deduzione del dichiarante che non trova alcun riscontro né nelle copiose acquisizioni probatorie ampiamente esposte nella Parte Terza, che consentono di ricollegare piuttosto quella indicazione di Riina all’iniziativa dei Carabinieri attuata per il tramite di Vito Ciancimino, né in qualsiasi altra delle acquisizioni probatorie pure esposte nel Capitolo precedente
di questa Parte Quarta della sentenza.
D’altra parte, lo stesso Brusca ha dichiarato espressamente che il riferimento (anche) a Dell’Utri era stato da lui soltanto “immaginato” […], perché in occasione di quel secondo incontro Riina non gli
disse chi fossero i suoi interlocutori […], specificando, semmai, soltanto chi fosse il destinatario del “papello”, il Ministro Mancino (v. dich. Brusca: “…le richieste erano assai e dette in tono arrabbiato, seccato e mi fa il nome di Mancino, l’onorevole Mancino, che ‘sta richiesta era andata a finire a lui…”), ancorché va sottolineato che, anche in questo caso, si tratta di una aggiunta del Brusca alle
precedenti dichiarazioni ancora più tardiva e, quindi, sospetta, oltre che smentita dallo stesso Riina in occasione di uno dei suoi colloqui (quello del 12 agosto 2013) intercettati durante la detenzione che saranno esaminati più avanti.
[…] Come detto, dunque, a prescindere da ogni considerazione sulla tardività dell’indicazione da parte di Brusca anche di Dell’Utri quale soggetto che già nell’immediatezza dell’uccisione di Salvo Lima si era proposto per prenderne il posto quale tramite con il mondo politico, difetta, in ogni caso, qualsiasi riscontro sulla detta indicazione. Riscontro che, in particolare, non può rinvenirsi neppure nelle propalazioni di Antonino Giuffré, il quale, infatti, ha, sì, parlato di Dell’Utri subentrato nel ruolo che era stato di Salvo Lima, ma con riferimento ad un momento successivo, quello della fine del 1993 allorché si approssimava l’ufficialità della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi con una nuova forza politica in vista delle elezioni della primavera del 1994.
Ed invero, Giuffrè ha riferito, appunto, che, dopo la sua scarcerazione e ancora nei primi mesi del 1993, si pensava piuttosto all’On. Mario D’Acquisto come soggetto che avrebbe potuto prendere il posto di Salvo Lima e che soltanto verso la fine del 1993 l’interesse di “cosa nostra” si era rivolto, invece, verso la nuova forza politica di Silvio Berlusconi, utilizzando ancora, quale tramite per
raggiungere quest’ultimo, Marcello Dell’Utri […].
Dunque, secondo Giuffrè è soltanto nella seconda metà del 1993 che il ruolo che “in precedenza era stato svolto da Vito Ciancimino nell’interesse di “cosa nostra” fu assunto da Marcello Dell’Utri (v. ancora dich. Giuffrè citate: “Non lo so questo, cioè, c’è un discorso dell’83, post Ciancimino, di cui io diciamo non ho notizie. Riprendiamo tutto il discorso alla fine poi nella seconda metà del 93, con il discorso che ho detto, che ci si sia appoggiati su Dell’Utri, di altro non so, signor Presidente.. … …Allora diciamo che possiamo dire che il posto del Ciancimino era stato preso da Dell’Utri, questo lo posso tranquillamente asserire”).
Tale indicazione, peraltro, appare più coerente con altre acquisizioni probatorie che saranno esaminate nei Capitoli che seguiranno con riguardo alle elezioni politiche del 1994 e, d’altra parte, risulta confermata anche dalle sia pure più generiche indicazioni fomite da Stefano Lo Verso sulla scorta di alcune confidenze raccolte direttamente da Provenzano.
Come si è visto sopra nel precedente Capitolo, paragrafo 2.34, infatti, Lo Verso ha raccontato che Provenzano, nel contesto di un discorso che aveva preso le mosse dall’uccisione di Salvo Lima, ad un certo punto, gli aveva fatto il nome di Marcello Dell’Utri come soggetto che aveva preso il posto di Lima quale referente politico dell’associazione mafiosa […].
Sennonché, secondo quanto ancora raccontato da Lo Verso, Provenzano aveva aggiunto che ciò era avvenuto dopo le stragi […].
Come si vede, dunque, pur dovendosi dare atto della genericità di quella confidenza, d’altra parte, fatta da Provenzano dopo oltre un decennio dai fatti e, quindi, senza alcuno specifico riferimento ad una delle stragi […], v’è piena coincidenza con l’indicazione ben più precisa di Giuffré secondo cui soltanto nella seconda metà del 1993 (quindi, appunto, dopo le stragi del luglio 1993) il ruolo che in precedenza era stato svolto da Vito Ciancimino nell’interesse di “cosa nostra” fu assunto da Marcello Dell’Utri (v. sopra).
Peraltro, a riprova di tale collocazione temporale, v’è il fatto che anche in quel discorso del Provenzano riferito da Lo Verso il contatto con Dell’Utri è stato, poi, direttamente collegato con le elezioni politiche del 1994 e con l’appoggio dato a Forza Italia anche dallo stesso Provenzano […], così come, d’altra parte, già noto al dichiarante […].
Considerazioni pressoché analoghe a quelle prima svolte riguardo alle propalazioni di Giovanni Brusca, poi, devono farsi anche per le propalazioni di Salvatore Cancemi.
[…] Cancemi, in estrema sintesi, ha confermato sia l’episodio precedente del 1991 quando Riina gli aveva detto di avvisare Vittorio Mangano di mettersi da parte nei rapporti con Dell’Utri e Berlusconi in quanto intendeva gestirli direttamente […], aggiungendo, peraltro, che nel medesimo periodo Riina, parlandogli della prospettiva di un investimento della Fininvest a Palermo, aveva fatto cenno a possibili benefici […], sia l’incontro con Riina che precedette la strage di Capaci nel quale quest’ultimo aveva detto di essersi incontrato con “persone importanti” non meglio specificate […], sia, infine, la riunione del 1992 in cui Riina aveva espressamente fatto i nomi di Dell’Utri e Berlusconi, aggiungendo, peraltro, che a tale riunione era presente anche Giovanni Brusca […].
Orbene, in più punti precedenti della presente sentenza si sono già evidenziate le
criticità delle dichiarazioni di Cancemi soprattutto derivanti dal ritardo con il
quale quest’ultimo ha reso (anche) le dichiarazioni appena esaminate
concernenti Dell’Utri e Berlusconi, inizialmente – e per alcuni anni – mai citati.
[…] Un ulteriore straordinario ed eccezionale riscontro all’episodio raccontato da Cancemi relativo all’invito di Salvatore Riina ad informare Vittorio Mangano che da quel momento non avrebbe dovuto più occuparsi dei contatti con Dell’Utri e Berlusconi perché lo stesso Riina li aveva ormai “nelle mani” (v. dich. Cancemi del 23 aprile 1998 già sopra più ampiamente riportate: “…dice:<<devi chiamare a Vittorio Mangano e ci devi dire che si mette da parte, questa situazione che lui ha avuto nelle mani, di Dell ‘Utri e Berlusconi, si deve mettere da parte perché … … … si deve mettere da parte questa cosa dice, me l’ho messo nelle mani io lui mi dice, nelle mani io fa perché è un bene per tutta cosa nostra, queste sono state le parole di Riina .. “), si rinviene nelle parole di Salvatore Riina intercettate in carcere il 29 settembre 2013 (” … ma nuatri bisogno ri Giuvanni avemu pi Dell’Utri?.”) di cui si dirà meglio più avanti nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo 1, cui si rimanda.
Ma in ogni caso qui non appare utile approfondire ulteriormente l’attendibilità delle dichiarazioni del Cancemi concernenti Dell ‘Utri e Berlusconi, dal momento che dalle stesse parole del predetto collaborante non è dato ricavare alcun elemento che possa, da un lato, riscontrare e supportare il racconto di Giovanni Brusca e la conseguente ipotesi accusatoria secondo cui Dell’Utri si
“propose” ai mafiosi già nel 1992, […] e, dall’altro lato, l’ulteriore contestazione secondo cui il medesimo Dell’Utri, ancora nel 1992, abbia in quel modo agevolato o sollecitato le minacce che, poi, effettivamente furono rivolte al Governo dell’epoca ovvero anche soltanto se ne sia fatto intermediario verso quest’ultimo.
[…]
Non solo, ma, come si vedrà meglio nella successiva Parte Quinta della sentenza, nelle stesse parole del Riina intercettate in carcere nel 2013 si rinviene la definitiva conferma che quest’ultimo in quell’anno 1992 e sino al suo arresto aveva, di fatto, “snobbato”, non ritenendolo allora abbastanza importante, Silvio Berlusconi e, quindi, anche Dell’Utri che ne fungeva da intermediario verso
“cosa nostra” (v. intercettazioni del 22 agosto e 29 settembre 2013 che saranno riportate più avanti nella già richiamata Parte Quinta della sentenza).
Sotto altro profilo, inoltre, v’è anche un’altra intercettazione delle conversazioni del Riina, quella del 5 settembre 2013 di cui pure si dirà più ampiamente nella successiva Parte Quinta della sentenza, che, laddove Riina racconta di avere appreso di una visita fatta da Provenzano a Dell’Utri a Como, pur dicendo di non sapere se ciò fosse effettivamente accaduto (v. intercettazione citata che più
avanti sarà più ampiamente riportata: “” … Però iu aveva sempri… che questo Binnu e questo Marcello (incomprensibile) iri a truvallu (incomprensibile) … ci rida (incomprensibile) ma iddu ci riceva (incomprensibile) Binnu stai attento … …….. Però… se è vero che ci iu a … a Como … ma vieru è? …”), sembra avallare il fatto che i contatti con Dell’Utri furono ripresi soltanto dopo l’arresto del Riina (che, infatti, non ha conoscenza diretta di quanto accaduto) e, quindi, come si è visto sopra, soltanto dopo le stragi del 1993 in vista dei nuovi assetti politici che iniziavano a delinearsi.

 

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