Cosa è la mafia e come va combattuta

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, istituita nel lontano 1963, sembra ormai decisamente avviata alla conclusione dei suoi lavori dopo una attività di circa tredici anni, attività che per la sua lunga dura­ta è stata oggetto di quelle critiche e di quelle pesanti osserva­zioni che ci sono ben note.
Ritengo però che, indipendentemente dal modo con cui riusciremo a consegnare al paese un documento significativo ed incisivo sui risultati del nostro lavoro, resta il fatto che la Commissione, durante questi lunghi anni ha svolto una notevole mole di lavoro, e che la sua presenza, nonostante il discredito di cui, dobbiamo riconoscerlo, è oggi circondata nella opinio­ne pubblica, è stata di indubbia efficacia ed utilità quanto me­no per la funzione di freno esercitata sulle attività mafiose.
Ma su questo argomento mi propongo di tornare più avanti, quando accennerò alla maniera in cui la società italiana in ge­nerale e quella siciliana in particolare hanno reagito di fronte al problema della mafia.
Tredici anni sono certamente molti e credo che noi siamo i primi a riconoscerlo, come pure dobbiamo ammettere che questa eccessiva dilatazione nel tempo è la causa della stan­chezza e dello scarso entusiasmo con cui adesso si va avanti, come giorni fa ha osservato il senatore Adamoli.
Quindi la decisione unanimamente adottata di mettere un punto fermo alle indagini, alle inchieste, alle ricerche e di sta­bilire, in tempi abbastanza ravvicinati, l’iter della discussione conclusiva in modo da arrivare al più presto alla presentazione della relazione definitiva, è stata di una opportunità inconte­ stabile. Però l’esigenza di fare presto non deve fare passare in seconda linea la necessità di formare un documento approfondito sul problema della mafia, specialmente in ordine a quello che ne costituisce l’aspetto caratterizzante, che è il rapporto mafia-pubblici poteri.
Desidero risparmiare agli onorevoli colleghi una ennesima ripetizione di considerazioni sulla origine e sulla evoluzione della mafia, ricordando che, a parte quanto qui è stato da altri pregevolmente detto, da almeno una quindicina di anni vi è stata sulla mafia una fioritura di libri e di pubblicazioni in cui studiosi, scrittori e dilettanti, giornalisti piùo meno qualifica­ti, si sono dedicati all’esame di questo caratteristico fenomeno delinquenziale, con minore o maggiore competenza, con argo­menti più o meno seri e convincenti, con indagini approfondi­te o con superficialità, con il risultato, certamente positivo di avere dato un ampio contributo all’arricchimento del materia­ le di studio sulla mafia e di avere sollecitato l’attenzione di tut­ta la opinione pubblica su questa piaga della Sicilia, ma anche con risultato, che non ritengo positivo, di avere contribuito al­la deformazione ed all’inquinamento del concetto di «mafia», per cui oggi molto spesso questa etichetta viene con facilità as­segnata a fenomeni di corruzione, di malcostume, di violenza, che pur presentando aspetti gravemente pericolosi o dannosi per le nostre strutture sociali, non hanno nulla da vedere con la mafia vera e propria, cosicché vengono a crearsi confusioni ed annacquamenti che si risolvono unicamente a vantaggio dei mafiosi.
Fatta questa premessa, ritengo che compito.della Commis­sione non sia quello di risalire alle origini della mafia, di stabili­re quindi se la mafia si formò e si sviluppò come strumento di oppressione della classe contadina al servizio dei grandi lati­fondisti oppure come struttura intermedia e parassitaria tra la classe dirigente ed il resto della popolazione o piuttosto come organismo nato dalla necessità di difesa dei ceti poveri contro le angherie e le sopraffazioni dei potenti.
Compito della Commissione è quello di identificare il feno­meno nella sua natura delinquenziale con le sue ripercussioni nella struttura sociale e politica della società siciliana, di indi­viduare quegli aspetti peculiari che differenziano questa forma di criminalità organizzata da altre consimili forme esistenti nel nostro paese, come in  Calabria, in Campania o nelle  grandi città del Nord, di sottoporre al Parlamento i risultati di tali indagini e soprattutto di formulare precise e concrete proposte sui rimedi pili idonei a combattere efficacemente e a stroncare il fenomeno della mafia in Sicilia. Ed il capitolo delle proposte resta a mio avviso, e mi pare che la mia opinione sia condivisa da tutti gli onorevoli colleghi, il più importante, il più delica­to, quello forse determinante ai fini di una conclusione positi­va e soddisfacente dei nostri lavori.
Nel sottolineare l’esigenza di una rigorosa delimitazione dei confini del fenomeno della mafia, confini che includono uni­camente la Sicilia Occidentale, poiché tali confini non si sono allargati per effetto dell’esportazione di questo prodotto dete­riore in altre parti d’Italia, non vorrei che si ricadesse nel vec­chio errore di adombrare una concezione razzista della mafia, quasicché la mafia esiste in Sicilia poiché esistono i siciliani.
La vivace reazione dell’on. Nicosia ad una non molto felice espressione del sen. Bertola, il quale, ne sono certo, non inten­deva dare alle sue parole il significato che apparentemente avevano, mi è sembrato opportuna e tempestiva, e comunque personalmente la approvo pienamente, come giusta reazione a certe impostazioni culturali retrive e infondate, smentite dalla realtà storica.
E queste mie osservazioni non devono sembrare superflue, se si pensa  che errori di tal genere sono stati commessi e nu­merosi ed anche in tempi recenti, o si è cercato di commetterli. Ricordo che durante il fascismo, venne deciso che funziona­ri ed impiegati dello Stato siciliani non venissero piu destinati in Sicilia; durante la guerra, alla vigilia dell’invasione alleata, il comandante in capo delle forze armate in Sicilia, gen. Roat­ a lanciava un proclama, rimasto famoso, con cui, per risolle­ vare il morale depresso della popolazione e per rafforzarne lo spirito di resistenza, si incitavano i siciliani a combattere ac­canto ai militari italiani e tedeschi.
In epoca molto più recente, due componenti di questa Com­missione, presentarono una relazione nella quale, tra le altre cose, prospettavano la opportunità di allontanare dalle zone mafiose i magistrati siciliani.
E non più tardi di due anni fa, all’epoca della crisi della Commissione per il caso dell’on. Matta, venne avanzata la proposta, e con serietà, di escludere da questa Commissione tutti i parlamentari eletti nei collegi siciliani.
Sono tutti fatti significativi i quali confermano, è bene dirlo chiaramente, le tendenze razziste, più o meno latenti, di certi ambienti o comunque di alcuni personaggi.
E queste  tendenze  vanno  respinte  con assoluta decisione se si vuole evitare l’insorgere di fenomeni come quello del se­paratismo nel dopoguerra e se si vuole abbattere il clima di diffidenza, sospetto ed anche di rancore, che ancora oggi con­tinua ad inquinare i rapporti tra Stato e Sicilia.
Il fatto vero è che vi sono gravissime responsabilità dello Stato verso la Sicilia e intendo parlare sia dello Stato liberale sabaudo, dello Stato fascista e di quello democristiano, re­sponsabilità determinanti, a causa del distorto esercizio del potere, ai fini dello sviluppo della mafia e della virulenza da essa mantenuta  nonostante  le periodiche repressioni.
Tralasciando di parlare delle responsabilità dello Stato libe­rale sabaudo e di quello fascista, che ormai appartengono alla storia, e parlando invece di quelle dello Stato democristiano, io mi chiedo quali siano mai le ragioni, per le quali da anni e anni non vi è compagine governativa nella quale non siano presenti esponenti politici di primo piano, che la opinione pubblica con insistenza accusa di collusione o di connivenza o quanto meno  di rapporti  con la mafia.
E sia ben chiaro che non intendo affatto mettere in discus­sione la onorabilità di questi uomini, anche perché la indica­zione proveniente dalla voce pubblica potrebbe essere del tut­to erronea, ma non faccio altro che rilevare una situazione obiettiva che il partito di maggioranza ha sistematicamente ignorato, continuando a imporre nei posti di governo uomini che, a torto o a ragione, godono fama di essere implicati in co­se di mafia.
E oo stesso dicasi, per quanto si tratti di una vicenda di pro­porzioni minori, della inclusione dell’on. Matta in seno a que­sta Commissione, inclusione che si cercò di mantenere con ogni sforzo, anche contro le reazioni di parlamentari come i senatori Torelli e Varaldo, che pagarono con l’allontanamen­to dalla Commissione, il prezzo della loro rettitudine.
Ora, ripeto, non mi permetto minimamente di mettere in dubbio la onorabilità dell’on. Matta e desidero ricordare al ri­guardo quanto, a suo tempo, ebbe molto opportunamente a dire il senatore Adamoli e altri colleghi, ma non c’è dubbio che quel deputato, in conseguenza della sua attività di ammini­stratore del Comune di Palermo in un periodo molto discusso, non avrebbe mai dovuto entrare a far parte di questa Commis­sione.
La sua designazione, che sin dal primo momento formò og­getto di polemiche e di critiche, fu una vera e propria imposi­zione, vorrei dire per usare un termine appropriato che fu un atto di mafia.
Evidentemente tutto ciò non può che accrescere la sfiducia del cittadino verso lo Stato, che nello stesso momento in cui dice di operare e combattere contro la mafia, appare rappresentato da uomini che, di fronte all’opinione pubblica, a torto o a ragione, si presentano in qualche misura legati alla mafia. E probabilmente si deve a questa situazione la mancata for­mazione, nella società siciliana, di una forte e diffusa coscien­za antimafiosa, anche se bisogna riconoscere che oggi l’atteg­ giamento del cittadino verso il fenomeno della mafia non è piu quello di quindici anni fa, allorché la presenza, la influenza e le interferenze del mafioso in tutti i settori venivano accettate come qualcosa di naturale, allorché i capimafia godevano di prestigio e di autorità ed essi stessi erano convinti di avere una effettiva posizione di preminenza nell’ambiente in cui viveva­no.
Ed in proposito mi ricordo della risposta che ebbe a darmi il capomafia di Marineo e del bosco della Ficuzza una volta che lo interrogavo su certi suoi asseriti cordiali rapporti con un maresciallo dei Carabinieri, in relazione ad un procedimento penale in cui era marginalmente implicato. Ricordo che mi ri­spose, con fare borioso e con aria di dignità offesa: «E lei pen­sa che Vincenzo Catanzaro possa essere amico di un mare­sciallo dei Carabinieri», ponendo un accento di disprezzo su queste ultime parole.
Per inciso,  anni dopo, incontrai nuovamente Vincenzo Ca­tanzaro che non era piu il soggetto borioso e tracotante che avevo conosciuto, ma che si era trasformato in una persona umile e remissiva, preoccupata di mettere in evidenza le sue benemerenze presso quegli stessi organi dello Stato, un tempo cosi apertamente  disprezzati.
Era capitato a Catanzaro quello, che nello stesso periodo capitò a tanti altri capimafia; avevano perduto la fiducia nella loro autorità e nel loro potere, si sentivano senza protezione e senza difese, esposti quindi come un qualsiasi comune delin­quente, ai rigori delle leggi di quello Stato, di quelle leggi che tante volte avevano impunemente ignorato o sfidato.
Questa è una prova, se ve ne fosse bisogno, che quando lo Stato fa un giusto uso della sua forza, non trova certo resisten­za in questi esponenti della criminalità mafiosa, il cui potere, il cui prestigio sono quasi sempre da ricollegare alle carenze del­lo Stato stesso.
Ritornando al mutato atteggiamento del cittadino verso il fenomeno della mafia, bisogna dire che oggi le cose sono note­ volmente cambiate, e forse anche per merito della presenza di questa Commissione, perché oggi nessuno osa piu vantarsi di essere amico di un capomafia, perché oggi la credibilità e la in­fluenza del mafioso sono decisamente venute meno, come pure è crollato il mito del mafioso considerato uomo coraggioso, uomo d’onore; oggi il mafioso viene visto nelle sue esatte di­mensioni di delinquente pericoloso e senza scrupoli; verrà guardato con timore ma non certamente col rispetto di una volta.
Tutto ciò certamente fa sperare bene perché quella coscien­za antimafiosa, di cui ho detto, si formi e si consolidi nella so­cietà siciliana, ma sino ad oggi essa è mancata cosi come è mancata la collaborazione della intera società italiana, come ha rilevato pure il senatore Adamoli, e finché questi fattori, coscienza antimafiosa e collaborazione di tutta la società, non saranno presenti in misura determinante, non sarà mai possi­bile portare a termine il difficile compito di stroncare il feno­meno della mafia.
Non è la prima volta che lo Stato affronta la mafia con l’in­tento di distruggerla e bisogna riconoscere  che sino adesso lo Stato non è riuscito nello scopo che si era prefisso.
La repressione piu dura, della quale oggi si parla soprattut­to per criticarla, fu quella operata sotto il fascismo, legata al nome del Prefetto Mori, inviato in quell’epoca in Sicilia con poteri eccezionali.
Mori era convinto della sua missione alla quale si dedicò con ogni energia ricorrendo anche a sistemi che oggi sarebbe­ro inconcepibili in un paese democratico e che devono essre disapprovati per il loro contenuto di coercizione e di sopraffa­zione delle libertà e dei diritti del cittadino, ma il fatto è che l’opera di Mori, per quanto si riferisce al compito affidatogli, fu coronata da successo nel senso che egli riusì a distruggere le bande armate, collegate agli aggregati mafiosi, che infesta­vano le plaghe interne della Sicilia, specialmente nella zona delle Madonie e delle Caronie, a stroncare l’attività delle asso­ciazioni mafiose che pullulavano nei centri urbani e in quelli rurali, a ripristinare l’ordine pubblico sia nelle città che nelle campagne.
Ciò che fece completamente difetto fu l’attuazione di una politica sociale ed economica idonea a rimuovere le cause del fenomeno mafioso, senza la quale nessuna operazio­ne repressiva è destinata ad un successo definitivo, come infat­ti si verificò per quella del Prefetto Mori, i cui risultati furono rapidamente annullati nell’immediato dopoguerra, quando i gruppi di mafia si ricostituirono con una virulenza forse mag­giore rispetto al passato.
Ma di questa carenza la responsabilità non può certamente essere fatta ricadere su Mori, il quale svolse il suo ruolo con competenza, con energia e con efficacia. E dimostrò di essersi reso conto degli aspetti piu delicati del problema della mafia, quando cominciò a interessarsi dei protettori e dei complici collocati ad alto livello e già collusi col regime fascista. Ma fu allora che egli venne rimosso brutalmente dal suo incarico per cui non gli restò che sfogare la sua delusione e la sua indigna­zione nelle lettere scritte ad un Ministro che gli era amico.
Comunque dell’opera di Mori, a distanza di una quindicina di anni, non rimase letteralmente nulla.
E nemmeno può essere ritenuta effetto di questa opera, co­me qualcuno sostiene, la sparizione della mafia dalle Mado­nie, poiché tale fatto in realtà è la conseguenza dello sviluppo e della evoluzione della popolazione di quella zona e soprat­tutto della presa di coscienza delle classi contadine che, nel dopoguerra, lottarono a lungo per sottrarsi alla oppressione e allo sfruttamento dei latifondisti e per il trionfo dei loro dirit­ti, a lungo  calpestati o ignorati.
Durante la lunga vita di questa Commissione, nel periodo iniziale, che può collocarsi tra il 1963 ed il 1968, le organizza­zioni mafiose furono scardinate e disperse, principalmente nel palermitano, per effetto di una energica azione condotta sia dagli organi di polizia sia  dalla magistratura, che prese lo spunto dalle cruente lotte scatenatesi tra due opposte cosche mafiose, culminate nella nota strage di Ciaculli del 30 giugno 1963.
È un periodo di cui conservo un ricordo vivissimo in tutti i particolari e i dettagli, perché ebbi la ventura di essere incari­cato della istruzione di tutti i piu importanti processi contro le associazioni mafiose.
Ed è un periodo emblematico perché è allora che si verifica quel mutamento della opinione pubblica verso la mafia, del quale ho parlato e in cui crollano certi miti collegati al fenomeno mafioso, come quello della impunità.
E il periodo in cui a palazzo dei Normanni si discute sulla opportunità dello scioglimento del Consiglio Comunale di Pa­lermo, proprio in relazione alle vicende della speculazione edi­ izia ed alle pesanti infiltrazioni mafiose in queste vicende.
È il periodo in cui la tranquillità e l’ordine sembrano nuova­ mente ristabiliti in cui i reati di tipo mafioso subiscono una contrazione, mai prima registrata, in cui in paesi come Cor­ leone, la gente riprende l’abitudine, quasi dimenticata, di usci­re la sera per le strade.
Questa azione fu indubbiamente agevolata e incoraggiata dal semplice fatto che esisteva una Commissione parlamentare di inchiesta, che rappresentava il simbolo autorevole della vo­lontà politica di perseguire e stroncare il fenomeno mafioso.
Senonché anche in questa occasione vennero a mancare quegli interventi idonei a sradicare il malcostume mafioso dai diversi settori della vita pubblica, forse anche a cause della mancata tempestiva  presentazione  di una adeguata  relazione in Parlamento da parte della Commissione.
Inoltre  le deludenti ed anche sorprendenti conclusioni  dei grossi processi contro le associazioni  mafiose, processi carat­terizzati da assoluzioni in serie o, nel migliore dei casi, da con­danne inflitte con lo stesso metro che poteva essere usato con­tro bande di ladruncoli e non certamente contro criminali rite­nuti colpevoli di appartenere alle piu sanguinarie e temibili as­sociazioni mafiose, dicevo le conclusioni di quei processi annullarono praticamente gli sforzi e i sacrifici compiuti negli anni precedenti e i mafiosi ritornarono in libertà col maggiore prestigio loro conferito dalla vititoria riportata contro lo Stato.
E da quel momento ha imzi0 la nripresa di una campagna sempre piu aggressiva e audace che non si arresta difronte ad alcun ostacolo; si comincia con l’omicidio Bologna e si conti­nua con la strage di viale Lazio, con il sequestro e la soppres­sione del giornalista De Mauro, con l’omicidio dell’albergato­re Ciuni, ucciso nell’ospedale dove era stato ricoverato per un precedente attentato, con l’assassinio del Procuratore della Repubblica Scaglione sino alla recente ondata di delitti di ogm
genere; tutto questo dà la misura della inutilità della lotta che sino ad oggi si è tentato di condurre contro la mafia.
Anche le misure  di prevenzione, considerate in un primo tempo come il sistema piu efficace, in mancanza di altro per stroncare le attività mafiose, si sono rivelate, alla prova dei fatti,  o inutili o controproducenti;   infatti i mafiosi, superato lo sbandamento iniziale si sono adattati alle diverse condizioni di vita loro imposte ed hanno continuato a mantenere i loro legami, a curare i loro interessi, avvalendosi dei numerosi ritrovati della tecnica più avanzata; inoltre, approfittando della vicinanza. di grossi e richi centri urbani hanno esteso le loro attività in campi nuovi, dando luogo ad un processo di espansione in località. ed in settori, dove mai in precedenza avevano operato, e suscitando cosi un giustificato allarme nella opinione pubblica.
In definitiva il quadro che viene fuori da questa sommaria analisi è tutt’altro che confortante, perché la constatazione obiettiva da fare è che non si è fatto nulla o che quanto si è fatto è stato inutile.    .
Aggiungo, anzi. che i pochi dati positivi che possono non trars1, consistono soprattuttto nell’attenuarsi di certe inf1ltrazi0ni della mafia nei centri di potere, sono da attribuirsi alla in­fluenza, diretta o indiretta, esercitata da questa tanto criticata Commissione.
Ma a parte ciò, la realtà amara è che la situazione odierna
non differisce da quella di quindici anni fa, se non per la diver­sità degli obiettivi criminosi e delle tecniche adottate dai ma­fiosi.
La mafia continua ad esistere cosi come esisteva in passato; ha subito semplicemente un processo di trasformazione e di adeguamento alle mutate condizioni economiche e sociali dell’isola: l’abigeato è soltanto un ricordo; la speculazione edi­lizia ha fatto il suo tempo; il contrabbando delle sigarette si è ridotto a proporzioni trascurabili, mentre si sono sviluppati il traffico della droga, e la cosiddetta industria dei sequestri.   ·
Si parla oggi di una nuova mafia rispetto a quella degli anni ’60 e a quella degli anni ’50 ed in effetti la mafia di oggi è nuo­va in quanto si sono rinnovati capi e gregari ed in quanto certi aspetti delinquenziali sono molto piu marcati che nel passato, però sotto il profilo di organizzazione criminale con scopi di illecito lucro, da realizzare mediante la intimidazione e la vio­lenza, con la tendenza a inserirsi con funzioni parassitarie nel­le strutture della società e ad avvalersi di complicità conniven­ze e protezioni nei diversi settori della vita pubblica, la mafia è sempre quella di una volta, con tutte le caratteristiche di estre­ma pericolosità sociale.
La recente uccisione del sindacalista Morreale, commessa a Roccamena, la cui matrice è certamente di natura mafioso-po­litica e che deve essere fatta risalire, in base alle risultanze delle indagini sino ad ora svolte, come ebbi l’onore di riferire alla Commissione una settimana fa, al gruppo di mafia da anni im­perante in quella località, costituisce una dimostrazione delle mie considerazioni ed altresl una smentita a coloro che sostengono, non capisco in base a quali dati, che la mafia è pratica­mente scomparsa dalle campagne.
E la situazione non è affatto migliore nelle città; a Palermo le estorsioni consumate o tentate, precedute o accompagnate da attentati dinamitardi e violenze di ogni genere, sono all’or­dine del giorno e costituiscono un preoccupante problema.
Il recente tragico episodio in cui perse la vita la guardia di P.S. Cappiello e rimase ferito l’industriale  Randazzo mi pare sia una evidente dimostrazione che dietro il gruppo operativo costituito da comuni delinquenti vi è di regola, con funzioni organizzative o di semplice copertura, il gruppo locale di ma­fia; infatti dalle indagini svolte in occasione di quel delitto èemerso il nome di Riccobono Rosario, capomafia di Partanna Mondello, da tempo  latitante al quale si attribuisce, tra l’al­tro  la eliminazione dei vecchi capi della zona.
Per chiudere sull’argomento desidero richiamare l’atenzione della Commissione sullo stato d’animo della popolazi0ne di fronte alla recrudescenza della criminalità di marca mafiosa, come aspetto caratteristico della ondata di criminalità abbat­tutasi su tutto il paese; è uno stato d’animo depresso e scorag­ iato è lo stato d’animo di chi si sente completamente abban­donato dallo Stato, da quello Stato che non riesce, non dico a risolvere, ma nemmeno ad affrontare in maniera conveniente un problema di tali dimensioni.
La gente oggi ha paura ed è questa una.senazione che si co­glie sia nelle città sia nelle campagne e ciò mi pare che sia un preoccupante regresso nella via dello sviluppo civile e demo­cratico della nostra  società.
A questo punto, per coerenza logica, bisogna porsi l’interrogativo su quello che bisogna di fare.
Certo la Commiss10ne ha poteri limitati, ma è l’espressione del Parlamento e in que­sto momento decisivo e conclusivo della sua attività, è nelle condizioni migliori per dare una risposta alle aspettative del paese, attraverso la indicazione decisa ed aperta dei centri infetti e delle strutture inquinate dal fenomeno maf10so, in modo da consentire quel profondo processo di rinnovamento che è indispensabile per ristabilire la fiducia del cittadino nello Stato e conseguentemente per la formazione di una diffusa coscienza antimafiosa.
Questa  è la premessa necessria perche sia possibile colpire la mafia alle rad!ci, distruggendo l’alone di intangibilità di cui sono circondati coloro che la proteggono, coloro che con essa colludono e che da essa ricavano benefici e vantaggi di ogni genere. È poi necessario proporre misure ido­nee al fine di reprimere e di prevenire le attività mafiose, che costituiscono uno degli ostacoli principali al progresso econo­mico e sociale della Sicilia.
Questa, secondo me, è la strada sulla quale si dovrebbe av­viare la Commissione e ritengo che lo schema di relazione che ci è stato sottoposto e che, ad ogni modo, costituisce un docu­mento di indiscutibile serietà e pregio, debba essere approfon­ dito nella parte attinente al delicato argomento del rapporto mafia-potere.
Quanto alle proposte, mi pare che il discorso vada rinviato al momento in cui esse verranno articolate e presentate alla Commissione, in base al programma di lavoro già concorda­to.
Concludo queste mie brevi osservazioni augurandomi che il documento finale  risponda nel modo più soddisfacente alle aspettative di tutti, e dei parlamentari e dei cittadini in genere, e che esso sia formulato in modo da poter ricevere il consenso di tutti i componenti della Commissione e di acquistare quindi l’autorevolezza necessaria per imporsi alla responsabile atten­zione di coloro ai quali compete il grave dovere di tradurre in concrete realizzazioni le indicazioni e le proposte della Com­missione.

 

fonte http://mafie.blogautore.repubblica.it/