Paladini antimafia, le verità nascoste: prima adorati come eroi poi scaricati

Paladini antimafia, le verità nascoste: prima adorati come eroi poi scaricati

Pietrangelo Buttafuoco) – Sta sempre “dalla parte giusta”, la Mafia. È un concetto espresso da Paolo Mieli in una conversazione con Silvia Truzzi nel nostro giornale. E i picciotti, infatti, si sono trovati sempre ben collocati: con la sinistra storica contro la destra nell’Italia preunitaria, quindi coi “garibaldesi” contro i borboni, con gli antifascisti contro Benito Mussolini al punto di essere – grazie all’operazione “L”, ovvero Lucky Luciano che agevola l’invasione americana in Sicilia – padri della patria democratica e repubblicana.

E sta dalla parte dell’antimafia, la Mafia. Il Padrino dell’Antimafia, il libro di Attilio Bolzoni, racconta attraverso la controversa vicenda di Antonio Montante, già leader di Confindustria in Sicilia, il paradosso di chi – facendosi apostolo della legalità – costruiva un sistema di potere imprenditoriale, politico e culturale invincibile.

Mettersi contro Montante significava mettersi contro il Bene maiuscolo; aveva una scorta, inaugurava convegni, ammaestrava la sapiente pedagogia istituzionale, coordinava la strategia della politica “democratica e repubblicana”, stava per diventare ministro con il Pd e chi non assecondava la sua strategia era marchiato dell’indicibile sospetto: “mafioso”.

Ed è “una cronaca italiana sul potere infetto” quella che svela Bolzoni nel suo lavoro.
Nomi immacolati di tante battaglie di onestà – da Don Ciotti a Rosario Crocetta e altri santi del calendario dell’impegno civile – vengono fatti scendere dagli altari e ridimensionati tra i figuranti di un mestiere: l’antimafia contundente, mero strumento di potere, travestimento a uso di pupi e pupari.

Un’indicibile verità è quella della mafia. Un caso di manipolazione di cui, per dirla con Mieli e il suo Le verità nascoste, fa sempre testo l’idea approssimativa che se ne ha. A maggior ragione resta nascosta la viva verità se non trova esito quello che meritoriamente ha scoperchiato Claudio Fava – uno che non fa proclami, ma la lotta alla Mafia – nel suo ruolo di presidente della Commissione Antimafia in Sicilia.

Ben più di quello che può fare Salvatore Lupo, lo storico cui Mieli tributa il titolo di “grande studioso della materia”, ha fatto Fava andando dritto al punto.

La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016, Giuseppe Antoci – all’epoca presidente del Parco dei Nebrodi – subisce, grazie a Dio senza conseguenze, un attentato.

Non un episodio di vita provinciale ma un ingente dispiegamento di fuoco, molotov e massi abbandonati sull’asfalto per bloccare la blindata in cui viaggiava la vittima designata. Un impressionante atto criminale che a distanza di tre anni – “il più potente attentato dopo quelli della stagione delle stragi”, così scrivono i parlamentari – ha solo una conclusione: “l’avvenuta esplorazione di ogni possibile spunto investigativo non consente di ravvisare ulteriori attività idonee all’individuazione di alcuno degli autori dei delitti contestati”.

Lo stesso Antoci, da tre anni, attende di capire e Fava, mettendosi al lavoro con i suoi colleghi, ha onorato il proprio dovere andando oltre quella “avvenuta esplorazione”. L’esito della relazione parlamentare, come ha scritto Gery Palazzotto “è stato indiscutibilmente migliore di quello investigativo, perché ha saputo mettere a frutto la certezza del dubbio”.

L’unica cosa certa è il dubbio: “Tra le ipotesi”, si legge nella relazione, “quella stragista mafiosa è la meno plausibile”. Antoci contesta, si sente “mascariato” ma è il dubbio ad avere ragione, le verità – purtroppo – sono solo travestimenti.

Da Il Fatto quotidiano del 7 ottobre 2019

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