L’attentato sui Nebrodi, la dinamica

Già a partire dalle prime ore della mattina del 18 maggio 2016, la notizia del fallito attentato perpetrato ai danni del presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi, dottor Giuseppe Antoci, e del personale della Polizia di Stato preposto alla sua sicurezza, l’assistente capo Sebastiano Proto (autista) e l’assistente capo Salvatore Santostefano (tutela), getta nello sconcerto una nazione intera. Il timore è che si possa aprire una nuova stagione di violenza mafiosa. Lo fa capire a chiare lettere la stampa che accosta l’agguato di Contrada Volpe alle stragi del biennio ’92-’93. Lo lascia intendere l’allora procuratore capo di Messina, dottor Guido Lo Forte:
«Quello che emerge è che la mafia sta rialzando la testa, la ‘”terza mafia” della provincia di Messina quella dei Nebrodi, una delle organizzazioni criminali tra le più antiche e pericolose».
Una sensazione destinata ad essere significativamente rafforzata dai dettagli dell’azione criminosa che pian piano vanno emergendo.
In particolare, colpiscono le parole di un investigatore coinvolto nelle indagini, la cui identità non viene rivelata, riportate il 19 maggio 2016 dal portale web di Rai News:
Un “attacco da guerriglia civile”, con scene da “terrorismo mafioso”, con tanto di bottiglie Molotov per incendiare auto blindata e costringere gli occupanti a scendere. Ma il “commando” non ha fatto i conti con la reazione del vicequestore Davide (rectius Daniele) Manganaro e degli altri poliziotti. Così un investigatore impegnato nelle indagini sull’agguato. Gli aggressori sarebbero “almeno tre”, ma, sottolinea, è “difficile dirlo con precisione”. La ricostruzione si basa sulle testimonianze delle vittime: “Hanno visto il lampo procurato da ogni esplosione, ma non le persone che hanno sparato”. Per l’investigatore, la “mafia ha alzato il tiro” e un agguato del genere “non può non che essere deciso ad alti livelli”. “Hanno sottovalutato – conclude l’investigatore – che la reazione dello Stato sarà più forte di prima e che adesso l’attenzione su di loro sarà altissima, fino a quando non li prenderemo”.
La sequenza degli accadimenti verificatisi tra la notte del 17 e del 18 maggio 2016 è ricostruita dal gip Eugenio Fiorentino nel decreto di archiviazione emesso in accoglimento della richiesta dei pubblici ministeri della D.D.A. della Procura di Messina del 3 maggio 2018.
Tale ricostruzione ha rappresentato, per questa Commissione, un punto di partenza naturale e dovuto per gli approfondimenti oggetto della presente inchiesta (ne parleremo più diffusamente nel capitolo successivo).
Qui ci interessa riepilogare, nella loro successione, i fatti di quella notte, così come ricostruiti nel decreto del gip: la riunione tenutasi nella sala del Comune di Cesarò, la successiva cena presso il ristorante “Mazzurco”, la seconda riunione svoltasi nella medesima casa comunale, infine l’agguato in Contrada Volpe:
“Nel corso della serata del 17 maggio Giuseppe Antoci – presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi e già da tempo sottoposto a tutela a causa delle funzioni svolte – aveva partecipato ad una riunione con il sindaco di Calì Salvatore ed alcuni esponenti della giunta del Comune di Cesarò, avente ad oggetto un progetto di recupero di una struttura alberghiera ubicata all’interno del Parco dei Nebrodi, al termine della quale si era recato – su invito del sindaco ed unitamente al dirigente del Commissariato di P.S. di Sant’Agata di Militello, Daniele Manganaro – a cena presso il ristorante denominato “Mazzurco”, sito al bivio per Troina della strada statale n. 120.  Conclusa la cena, dopo una sosta ulteriore di circa un’ora presso gli uffici del comune di Cesarò, l’Antoci e gli uomini della scorta – sempre a bordo dell’autovettura blindata Lancia Thesis – si erano avviati verso il comune di Santo Stefano di Camastra, ove il primo aveva la sua abitazione, mentre il Manganaro, unitamente al suo autista, si era intrattenuto ancora per circa 10 minuti con il sindaco Calì.
(…)
Intorno alle ore 1.55 circa il veicolo citato, a bordo del quale si trovava la persona offesa, giunto in Contrada Volpe, era stato costretto a rallentare bruscamente ed a fermarsi, a causa della presenza di alcuni grossi massi collocati sulla carreggiata: quasi contestualmente, esso veniva raggiunto – sulla fiancata sinistra, lato posteriore – da diversi colpi d’arma da fuoco, sparati da almeno due soggetti travisati (indossavano entrambi una giacca mimetica) che si erano appostati sul lato sinistro della carreggiata.
Pochissimi istanti dopo giungeva sul luogo dell’attentato anche l’autovettura Suzuki Vitara sulla quale si trovavano il Manganaro e l’Assistente Capo Granata, i quali, resisi immediatamente conto di ciò che stava accadendo, rispondevano tempestivamente al fuoco costringendo alla fuga i malviventi (senza che alcuno rimanesse ferito).”La sequenza degli eventi è poi riassunta nelle dichiarazioni rilasciate da Giuseppe Antoci in sede di sommarie informazioni testimoniali, così come riportate nel decreto di archiviazione :
«Una volta in macchina mi sono appisolato. Ad un certo momento, ho udito le voci dei due poliziotti che dicevano che vi erano delle pietre sulla strada e la macchina cominciava a rallentare. Immediatamente ho udito dei colpi molto forti alla macchina, come se fossero state delle pietre. L’agente di tutela ha cominciato ad urlare di abbassarmi e con le mani mi ha spinto verso il basso tra i sedili. Ho sentito l’arrivo di un’altra macchina che ha frenato rumorosamente e ho cominciato a sentire numerosi colpi e ho capito che stavano sparando. Credo che l’autista sia sceso subito dalla macchina e abbia cominciato a sparare. Forse scende anche l’agente di tutela. Non sono in grado di dire nulla sulla direzione degli spari né con quale arma siano stati esplosi. Ho sentito distintamente le urla del Dott. Manganaro ma credo che anche gli altri abbiano urlato, anche se sono stati momenti di forte concitazione. Poco dopo, viene aperto lo sportello posteriore destro, dal lato ove mi trovavo io e qualcuno, che riconosco subito nel Dott. Manganaro, mi tira fuori dall’autovettura, per farmi salire su un’altra vettura e per allontanarci a velocità. Ricordo che nel preciso momento in cui si è aperto lo sportello ho detto “No, no” perché pensavo che volessero sequestrarmi, ma il Dott. Manganaro si è fatto immediatamente riconoscere. Il buio era pesto, ma ricordo di aver visto una pietra di colore chiaro. Quindi ci dirigiamo, con l’altra autovettura, in circa dieci minuti presso il rifugio del Parco “Casello Muto” che attualmente è vigilato da personale del Corpo di Vigilanza del Parco. … Non mi risulta che ci siano stati feriti tra il personale di scorta ed il Dott. Manganaro ed il suo autista. … Ricordo molti colpi di arma da fuoco ma non saprei indicarne il numero. Li ho uditi solo dopo che sono stato abbassato tra i sedili.»
Il gip conclude la sua ricostruzione facendo riferimento alle risultanze investigative emerse in sede di primo sopralluogo sul luogo dell’agguato:
“Si rinvenivano: sotto un muretto di contenimento posto sul lato sinistro della carreggiata, in direzione Cesarò – San Fratello, due bottiglie molotov, piene fino all’orlo di benzina; alcune cicche di sigarette che facevano ipotizzare che gli attentatori avessero atteso a lungo l’arrivo dell’autovettura; numerosissimi bossoli espulsi dalle armi in dotazione al personale di scorta e di polizia”.
Queste, infine, le considerazioni riportate dal dottor Antoci nella relazione da questi depositata nel corso della sua audizione dinanzi questa Commissione:
«… il loro obiettivo era fermare l’auto, perché sapevano bene che era blindata, volevano fermarla e poi darle fuoco, infatti sono state ritrovate alcune bottiglie molotov. Quindi volevano incendiare la macchina, una volta bloccata sparando alle ruote, obbligandoci a scendere perché all’interno dell’abitacolo sarebbero penetrati il fumo e le fiamme, e quel punto ci avrebbero giustiziati…».

 

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