Quei fascisti palermitani

Oltre a essere il più autorevole militante di Terza posizione in Sicilia, Francesco «Ciccio» Mangiameli era anche professore di Lettere in un liceo di Palermo ed era ovviamente in contatto con altri esponenti del mondo della scuola.
Tra questi vi era Alberto Volo, che gestiva una scuola privata nel capoluogo siciliano –l’istituto Manara Valgimigli –ed era anch’egli vicino a Terza posizione. I due si erano conosciuti un paio di mesi prima dell’omicidio Mattarella e tra loro era nata una grande amicizia e confidenza, su cui Volo si sofferma nelle dichiarazioni rese ai giudici istruttori del pool di Palermo tra marzo e aprile 1989: «Circa l’omicidio di Piersanti Mattarella, posso dire quanto segue. Tutto è partito dalla mia conoscenza con Francesco Mangiameli, avvenuta […] nell’ottobre-novembre 1979 […]. Simpatizzammo subito data la nostra comune ideologia e così, in breve tempo, fui coinvolto dal Mangiameli in un progetto per far evadere Pierluigi Concutelli […]. Per quanto attiene più precisamente all’omicidio di Piersanti Mattarella, io posso riferire quanto mi è stato confidato dal Mangiameli [… il quale] mi confidò che a uccidere Piersanti Mattarella erano stati Riccardo e il prete e cioè Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, della cui appartenenza ai Nar egli mi rese edotto […]. Ricordo peraltro che il Mangiameli si diceva certo che a uccidere Mattarella era stata la massoneria che si era avvalsa dei due suddetti […]. Il Mangiameli […] mi confidò che egli sapeva soltanto, inizialmente, che egli doveva dare appoggio logistico ai due per una azione importante […]. Mi riferì anche che i due, prima e dopo l’omicidio, avevano trovato rifugio nella sua villa di Tre Fontane che, specialmente allora, e in quella stagione, costituiva rifugio ideale per chi volesse nascondersi, essendo molto isolata».
Sin qui, gli elementi d’accusa a carico di Valerio Fioravanti e di Gilberto Cavallini sono fondamentalmente due: le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, e la presenza a Palermo di quest’ultimo e di Cavallini proprio nei giorni in cui Mattarella viene ucciso, circostanza rivelata concordemente sia da Cristiano sia da Alberto Volo. Un altro elemento di accusa nei confronti dei due è costituito dall’identificazione di Valerio Fioravanti da parte di Irma Chiazzese, la vedova di Piersanti Mattarella, che aveva visto in faccia lo sparatore, il quale «indossava un k-wayazzurro con cappuccio in testa». Il riconoscimento avviene a quattro anni di distanza dal fatto, quando diventano di pubblico dominio le accuse mosse al leader dei Nar da suo fratello Cristiano.
Il 19 marzo del 1984, la signora Chiazzese dichiara di avere provato «una forte sensazione nel vedere le fotografie di Giusva Fioravanti» e precisa che Valerio Fioravanti «è quello che più corrisponde all’assassino che ho descritto nell’immediatezza dei fatti»15. Due anni dopo, in sede di ricognizione formale, articola meglio la sua valutazione: «Quando dico che è probabile che nel Fioravanti si identifichi l’assassino intendo dire che è più che possibile che lo stesso sia autore dell’omicidio, ma che non sono in grado di formulare un giudizio di certezza». Infine, nel luglio del 1986, aggiunge un particolare. Racconta di aver incrociato il killer poco prima che aprisse il fuoco e di aver notato, tra l’altro, il suo strano modo di camminare, che definisce «un’andatura ballonzolante». Che Valerio Fioravanti si muovesse così lo racconta anche il suo camerata Stefano Soderini, esponente dei Nar diventato poi collaboratore di giustizia. In un interrogatorio reso al giudice istruttore Falcone nel luglio del 1986 Soderini, dopo aver affermato che «la descrizione del killer riferita dalla vedova Mattarella si attaglia a Valerio Fioravanti», rivela anche un soprannome («l’orso») affibbiato al leader dei Nar proprio per quella sua caratteristica. «Il Fioravanti» precisa Soderini «si muoveva così in ogni circostanza, anche quando era in azione. Anzi, questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone contro cui agiva che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi»16.In quello stesso interrogatorio del luglio 1986 Stefano Soderini fornisce a Giovanni Falcone un ulteriore oggettivo riscontro probatorio allorché dichiara quanto segue: «So per certo che, fin quando il Cavallini non ha procurato il macchinario per fabbricare targhe di autovetture false, il Fioravanti mi diceva che per alterare le targhe delle vetture era solito usare più targhe, che tagliava per ricostruirne un’altra con i numeri, conseguentemente, “modificati”»17.Si tratta dell’elemento probatorio cui si è accennato all’inizio–quello della targa falsa montata sulla Fiat 127 dagli assassini di Mattarella –che aveva suscitato l’interesse di Giovanni Falcone e poi quello di Loris D’Ambrosio, ma che è stato sostanzialmente ignorato dagli inquirenti palermitani dopo l’avvenuta emarginazione di Falcone. Ce ne occupiamo nel prossimo paragrafo.

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