Chi indaga su Messina Denaro si può far male? La strana vicenda del maresciallo Masi raccontata dal giornalista Ranucci

Matteo Messina Denaro e la sua latitanza. Tante vite distrutte e tante mezze verità. Il boss assassino che ha ucciso senza pietà e conosce i segreti delle stragi, continua a vivere da latitante, lasciando attorno a se, tante altre vittime che hanno cercato di trovarlo . Un altra strana storia è quella del Maresciallo Masi. Pubblichiamo l’inttervista al grande giornalista di Report, Ranucci  che parla del caso Masi e della  lettera inviata dallo stesso maresciallo al Fatto

La lettera di Saverio Masi al Fatto Quotidiano nel 2019: “Io carabiniere pregiudicato 

Nel maggio del 2013 il maresciallo capo dei carabinieri Saverio Masi ha presentato una denuncia alla procura di Palermo contro i suoi superiori, asserendo che nel 2004, quando prestava servizio al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, individuò per la strada il superboss latitante Matteo Messina Denaro, a bordo di una utilitaria, e di averlo seguito fino all’ingresso di una villa. Ma una volta denunciato il fatto ai superiori, questi gli avrebbero intimato di non proseguire nelle indagini. Per gli stessi fatti – tra gli altri – Masi è stato a sua volta denunciato per calunnia alla Procura della Repubblica di Palermo dagli ufficiali da lui accusati.

Il video dell’intervista a Ranucci. “Masi  ha visto Messina Denaro ,è stato stoppato sulle relative indagini utili a trovare il  boss

Dalla lettera inviata al giornale il FATTO di Marco Travaglio

Riceviamo e pubblichiamo dal maresciallo dei carabinieri Saverio Masi il suo intervento in merito alle accuse contro la polizia da parte del sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. “I torturatori del G8 sono ai vertici della nostra polizia. Come possiamo chiedere all’Egitto coloro che hanno torturato Giulio Regeni?” le parole del magistrato, a cui ha risposto il numero uno della polizia Franco Gabrielli, che ha parlato di “accuse infamanti”. Saverio Masi fa parte della scorta del pm antimafia Nino Di Matteo ed ha accusato alcuni alti ufficiali dei carabinieri di aver ostacolato le indagini sulla cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. È stato condannato per falso materiale: aveva cercato di farsi togliere una multa producendo una relazione in cui si attestava  che al momento dell’infrazione stava effettuando un pedinamento  con l’auto privata

Se nessuno vuol dare retta ad uno stimatissimo ed onesto magistrato, allora ascolterete le parole di un pregiudicato, come me. Mi scuso preventivamente -umilmente e sinceramente- con il sostituto procuratore generale di Genova, Enrico Zucca per quanto sto per dire: non dovrebbe essere un pregiudicato come me a riconoscere le sacrosante verità delle sue affermazioni. Forse dovrebbero farlo le massime cariche dello Stato, quello Stato ove regni una Giustizia sociale che i cittadini con il loro ultimo voto si ostinano ancora a ricercare.

Quello che ho detto è una verità inconfutabile: sono un maresciallo dei carabinieri pregiudicato. Sono stato infatti condannato in via definitiva dalla Cassazione nel 2015 a sei mesi di reclusione per falso materiale relativamente alla vicenda di una firma apposta ad un documento che attestava un fatto vero, cioè che mi trovavo in servizio quando avevo preso una multa alla guida del mio mezzo privato. Purtroppo si trattava di una prassi, all’epoca delle indagini di mafia, dovuta al fatto che vi fosse la necessità di utilizzare mezzi non facilmente individuabili.

D’altronde la mia riportata condanna non è un mistero per nessuno. Quando fui chiamato a testimoniare davanti alla corte d’Assise di Palermo al processo sulla trattativa Stato-mafia, circa quegli ostacoli frapposti nella ricerca dei latitanti ed altre vicende più gravi quali il mancato sequestro del ‘papello’ da parte di altri carabinieri, tutti i giornali hanno correttamente sottolineato che la mia testimonianza era quella di un pregiudicato.

Inoltre, in seguito ad una querela da me sporta per denunciare gli ostacoli che ritenevo e ritengo di aver trovato mentre ero impegnato nelle indagini per la cattura di importanti latitanti, quali Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, sono stato anche rinviato a giudizio per calunnia e dovrò affrontare per questo, com’è giusto, un processo a Palermo, al quale non cercherò assolutamente di sottrarmi. Anzi, sarà la sede giusta per far luce su ciò che da troppo tempo un sistema sempre meno oscuro di potere continua a celare.

È giusto così. È giusto così perché ho giurato come carabiniere di “essere fedele alla Repubblica italiana, di osservarne la Costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina ed onore tutti i doveri del mio stato per la difesa della Patria e la salvaguardia delle libere istituzioni”.

È perciò corretto e doveroso che, in presenza di una condanna definitiva, da molti anni io non svolga più il lavoro di investigatore, specializzato nella ricerca di latitanti, per condurre il quale avevo perfezionato il mio addestramento e che da allora io non abbia avuto alcuna promozione o gratificazione dall’Istituzione cui appartengo. Sono fermo allo stesso grado che avevo quando emersero per la prima volta queste vicende nel 2009.

Se l’Arma decidesse di esonerarmi dal servizio che sto espletando o di penalizzarmi ulteriormente non potrei che essere d’accordo con una decisione intrinsecamente giusta: i condannati e coloro su cui gravano pesanti sospetti non devono godere di alcun trattamento di riguardo, meno che mai devono progredire in carriera o ricevere qualsiasi forma di benevolenza.

 

 

ilcircolaccio