Roberta e l’ombra della ‘Ndrangheta

Sorride alla vita, Roberta, in quella foto di fine anni Ottanta. Seduta su un muretto, ride serena, forse pensando alle vacanze imminenti e al mare che l’aspetta. Una camicia azzurra si abbina perfettamente ai suoi orecchini: un segno di buongusto e di quella sana leggerezza propria di una ragazza di diciannove anni.
Roberta curava la sua femminilità, che stava sbocciando appieno in quell’estate del 1988: in un’altra fotografia, grandi orecchini a cerchio gialli, una maglia in tinta e un fiore tra i capelli, ricci e vaporosi, incorniciano il suo sguardo pensieroso, in uno scatto rubato e per questo ancora più spontaneo. È una ragazza semplice, Roberta: una studentessa universitaria, tranquilla, allegra, amabile, che nel pieno della sua giovane età ama vestirsi, piacersi, divertirsi. E proprio a divertirsi pensa in quel luglio 1988 quando, in sella al suo Piaggio “Sì”, si appresta a partire per San Lucido, la località di mare dove la sua famiglia possiede una casa, a solo un’ora di strada dalla loro abitazione. La partenza è già organizzata: la ragazza partirà da Rende di Cosenza con il suo motorino, ma non conoscendo la strada sarà scortata lungo il percorso dai suoi genitori, in auto dietro di lei per non perderla mai di vista.
Eppure, a volte basta un solo, insignificante dettaglio imprevisto per cambiare per sempre una vita. I coniugi Lanzino, infatti, si attardano: si fermano per strada per comprare un cocomero fresco, da mangiare in quella torrida serata. Roberta, nonostante si sia accorta che i genitori non sono dietro di lei, prosegue. E, poco dopo, perde l’orientamento, finendo su una strada secondaria. Si ferma a chiedere indicazioni a un contadino, viene scortata per un tratto di strada da un furgoncino. Infine, viene affiancata da una “Fiat 131” Mirafiori di colore chiaro con a bordo due uomini.
Qualche ora dopo, Matilde e Franco Lanzino arrivano nella casa al mare sicuri di trovare la ragazza, partita prima di loro. Ma Robertina non c’è e un terribile sospetto li assale. Un incidente, forse? I coniugi, preoccupati, iniziano subito le ricerche. Dopo poche ore, ecco lo scooter di Roberta. E’ in fondo a una scarpata, ma è intatto e non presenta segni di avaria. Di Robertina, però, nessuna traccia. Dov’è la loro bambina, che cosa le è successo? Dio, se soltanto non l’avessero persa di vista, se solo non si fossero attardati per strada per quel maledetto cocomero: i Lanzino sono divorati dall’angoscia di quel che potrebbe essere capitato alla figlia in quei pochi, fatali km. E se fosse stata rapita per ottenere un riscatto, come accade di frequente in quegli anni? Non importa. Ciò che conta è che Robertina sia viva, pagheranno qualsiasi cifra pur di riaverla.
Il giorno successivo, finalmente, Roberta viene ritrovata. Ma, infrangendo per sempre le speranze di Franco e Matilde, si tratta soltanto del suo corpo senza vita.  Un corpo seminudo, violato e lacerato, con ferite al volto e sugli arti, l’imbottitura delle spalline conficcata in gola e uno squarcio sul collo. Il medico legale, successivamente, dirà che Roberta è stata stuprata e uccisa con una violenza feroce, disumana. Quello che non saprà dire, quello che molti non sapranno dire negli anni, è chi abbia potuto perpetrare un delitto tanto atroce su una giovane ragazza benvoluta da tutti, che non aveva mai fatto del male a nessuno.
Proprio per questo, le indagini si concentrano solo sulla pista del delitto occasionale. I primi ad essere accusati sono i cugini Frangella, pastori della zona: il contadino a cui la ragazza aveva chiesto indicazioni e i suoi due cugini Luigi e Rosario. Tutti e tre poco istruiti, uno di loro con alle spalle ricoveri psichiatrici, sembrano il colpevole ideale. E invece, durante il primo processo, vengono scagionati dagli esami del DNA sul liquido seminale, condotti peraltro in modo approssimativo. I campioni biologici sono stati lasciati degradare, i vestiti della vittima sono stati persi o addirittura buttati, telefonate anonime accusano i figli della Cosenza bene. E così, tra errori giudiziari e depistaggi, sulla storia di Roberta scende il silenzio.
A permettere la riapertura del caso, a quasi venti anni dal delitto, è solo la confessione di un pentito di ‘Ndrangheta. Nel 2007, infatti, l’ex boss Franco Pino rivela di aver ricevuto informazioni in carcere sui nomi dei due uomini a bordo della “Fiat 131” trovata poco distante dal corpo della ragazza. Si tratterebbe dell’allevatore Luigi Carbone e di Franco Sansone, personaggio legato alla ‘Ndrangheta.
A riferirlo al boss, i criminali Marcello e Romeo Calvano, per vendetta verso Sansone, reo di aver ucciso il loro amico Luigi. Sansone è già in carcere, condannato a 30 anni per aver strangolato e gettato in un pozzo l’ex fidanzata Rosaria Genovese; Luigi Carbone, scomparso nel 1989 per “lupara bianca”, sarebbe dunque stato ucciso dal suo stesso complice. Nuovi dettagli collegano una serie di omicidi degli anni Novanta al delitto Lanzino: oltre alla Genovese e a Carbone, il maresciallo della Polizia Penitenziaria Alfredo Sansone e i pastori Libero Sansone e Pietro Calabria, tutti a conoscenza di dettagli scomodi sulla vicenda e per questo messi a tacere.
Sullo sfondo dell’omicidio di Robertina, dunque, cala anche l’ombra della ‘Ndrangheta, in una spirale di violenza e omertà. Il processo riprende, ma le udienze procedono a rilento. I cugini Frangella sono chiamati a testimoniare, ma hanno troppa paura di parlare. Riemergono persino del materiale biologico e alcuni effetti personali della ragazza. Ma il test del DNA, che rivela le tracce di più assassini sul corpo di Roberta, non coincide con quello degli imputati Sansone e Carbone, che dopo nove anni di processo, nel 2017, vengono infine assolti.
A trent’anni da quel lontano luglio 1988, l’omicidio di Roberta Lanzino non ha ancora un colpevole. O meglio, non ha un colpevole in carne ed ossa. Perché anche se restano ignoti i nomi e i volti dei suoi assassini, ad uccidere Robertina è stata prima di tutto quella mentalità retrograda e malata che vede nella donna solo un corpo da possedere. Visione, del resto, da sempre condivisa dalla criminalità organizzata: se non si può parlare di omicidio di ‘ndrangheta, è chiaro che si tratta in ogni caso di un delitto ad essa strettamente collegato.
Roberta è morta per strada, violentata con ferocia e sgozzata come un agnello da qualcuno che riteneva di avere tutto il diritto di farlo. La sua storia è quella di molte altre donne, raccolte dagli stessi coniugi Lanzino, che dopo la sua morte hanno aperto una Fondazione per aiutare altre vittime di violenza. Altre donne che vivono la paura di girare sole, di notte o in strade secondarie, quando sono più vulnerabili e non possono difendersi. Proprio come Roberta, che ha pagato con la vita la colpa di essere nata donna.

 

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