Reggio, la ‘Ndrangheta e le “sue” donne

Sembra l’incipit di una tragedia greca, se non che al posto di sondare le profondità dell’inconscio, ci restituisce riflessa soltanto l’immagine di quella “legge d’onore” che imperversa tra i ranghi mafiosi: pulire nel sangue, persino con quello dei propri familiari, i torti subiti.
Fedeli al repertorio e alle massime come “bisogna pulire i panni sporchi a casa propria”, sono sempre stati gli uomini del clan Logiudice, discendenti di quel boss Giuseppe, un pezzo grosso nel panorama ‘ndranghetista e protagonista della guerra di mafia di Reggio Calabria negli anni ‘80 e ‘90.
Barbara Corvi sparisce il 27 ottobre del 2009. Ha 35 anni e due figli, Salvatore e Giuseppe, di 19 e 15 anni. Si era innamorata del marito Roberto appena quindicenne, coronando l’unione con un matrimonio appena qualche anno dopo. Avevano una grande casa a Montecampano e gestivano ad Amelia, piccolo paese umbro, due negozi di prodotti per l’agricoltura. Non possiamo sapere se tra i fumi dell’innamoramento fossero mai balenati nella mente di Barbara i segni di un pentimento per l’essersi legata a una delle più importanti famiglie del panorama mafioso: Roberto infatti appariva sganciato dai giri malavitosi dei suoi fratelli e questo almeno superficialmente sembrava rincuorare Barbara. Ma qualcosa dentro di lei con il tempo si era spezzato, i suoi sentimenti nei confronti del marito si erano affievoliti. E aveva cominciato una relazione extra-coniugale pensando di poter ricominciare con un’altra persona. Non ne avrà il tempo: le bugie erano forse diventate per lei un fardello troppo pesante e aveva vuotato il sacco con Roberto sulla nuova frequentazione; questo secondo la ricostruzione degli eventi le sarà fatale. Quella mattina di fine ottobre aveva accompagnato Roberto in banca ed era rincasata come ogni giorno.
Quindi la sparizione: alle 18 rientrano i figli Salvatore e Giuseppe e trovano la borsa, il cellulare e i documenti della madre. Di Barbara nessuna traccia. Qualcuno che lei conosceva evidentemente così bene da seguire, lasciando dietro di sé i propri beni personali, potrebbe quel giorno aver deciso di lavare “il panno sporco”? Potrebbe aver voluto sottolineare davanti al proprio pubblico di malavitosi, che una donna non possiede lo statuto di essere umano dotato di bisogni mutevoli, ma piuttosto è, a stregua di un oggetto, proprietà esclusiva del proprio uomo? Non lo sappiamo con certezza.
Quel che è certo è che a oggi Barbara Corvi risulta ancora scomparsa. Un comitato porta il suo nome, la sorella provata dalla stanchezza ma forte e tenace invoca ancora giustizia: «Siamo sempre pronti ad ascoltare chiunque possa aiutarci ad arrivare alla verità sulla scomparsa di mia sorella», sottolinea come a ricordarlo a se stessa a mo’ di promessa e monito, Irene Corvi.
Poi ci sono le altre donne; e una è molto vicina a lei: si chiama Angela Costantino. Come in tutte le strutture dove il male si costituisce a sistema, Barbara potrebbe essere soltanto un anello di una lunga catena di morte. Un filo rosso la lega infatti alla cognata Angela, assassinata il 26 marzo del 1994.
Angela di figli ne aveva ben quattro e di anni appena 25. Anche i sentimenti di Angela nei confronti del marito, Pietro Logiudice, erano mutati con il tempo e mentre questi era in carcere aveva anch’essa intrapreso una relazione extraconiugale.
Nelle carte processuali troviamo scritto: «Una donna che appartiene a un clan come quello dei Logiudice non poteva permettersi di gettare disonore e fango su tutta la famiglia: unica sanzione possibile, pertanto è la morte».
Ma in cosa era consistito il “disonore” di cui parlano le carte? Angela non solo aveva avuto una relazione extraconiugale, ma avrebbe potuto essere incinta. E tanto bastò per eliminarla: la condizione ipotetica. «Non è dunque l’eventuale stato di gravidanza della Costantino, quanto, piuttosto, il sospetto fondato da parte dei familiari del marito della stessa che la donna fosse incinta, condizione che rendeva, comunque, inaccettabile la condotta di vita della ragazza poi scomparsa».
Angela sognava una vita libera. Ma «la libertà che la donna cercava, anche attraverso una nuova relazione sentimentale, era assolutamente incompatibile con i canoni di vita che dovevano essere propri di una donna appartenente ad una famiglia ‘ndranghetistica».
«Ecco dunque le limitazioni della libertà della donna – Angela che usciva scortata dalle cognate, i pedinamenti – a opera di una Y10 di colore scuro con a bordo alcuni ragazzi giovani fra i quali […] Fortunato Pennestrì; l’imposizione a cambiare luogo di residenza al fine di poter essere meglio controllata abitando nella nuova casa, sita nello stesso stabile ove vivevano i Logiudice, e dopo le minacce, le percosse continue».
«Percosse per reprimere i moti di ribellione», scrivono i giudici, «psicofarmaci per sedare le continue crisi di pianto e per creare un alone di malattia psichiatrica, addotta quel genesi del suicidio». Ma Angela è stata uccisa «in attuazione di un programma saldo e predeterminato, avente ad oggetto la punizione della donna fedifraga, che aveva leso l’onorabilità del marito, mentre questi era detenuto, il quale rispetto alla sua onorabilità, era stato tenuto all’oscuro di tutto»; «perché si è sentita sempre più soffocare dentro i panni di moglie di un esponente di nota cosca della ‘Ndrangheta, panni che troppo giovane aveva scelto senza consapevolezza e verso i quali non riusciva più a portare quel “rispetto” dovuto, rectius preteso, da tutta la famiglia Logiudice; perché ha tradito il marito e, in tal modo e soprattutto, la famiglia di ‘Ndrangheta tutta, le sue regole efferate, violente, distruttive, orrende ed inaccettabili all’interno della società civile. […] La Costantino si stava affrancando da quel contesto di sub-cultura, violenza, regole alterate, condotte intimidatorie, vita delinquenziale e questo avrebbe messo a rischio l’esistenza stessa della cosca».
Verità, questa, rimasta sepolta per ben diciotto anni.
I collaboratori di giustizia, anch’essi membri della famiglia Logiudice, permetteranno la ricostruzione del delitto. Nell’ambito dell’operazione contro l’omonima cosca, nel 2012, ecco le accuse avanzate dalla magistratura inquirente: associazione mafiosa, intestazione fittizia di beni, omicidio e occultamento di cadavere. I provvedimenti: 12 arresti, beni sequestrati per 5 milioni. E tra questi arresti finalmente gli assassini di Angela: il cognato Bruno Stilo (51 anni), mandante dell’omicidio, e il nipote Fortunato Pennestrì (38 anni), esecutore del delitto, all’epoca da poco maggiorenne.
Si legge nelle carte processuali: «La responsabilità per il gravissimo efferato delitto non può che essere di coloro che dirigevano il clan mentre gli altri componenti erano in libertà ed ossia Bruno Stilo che dava ordini e Fortunato Pennestrì estremamente attivo per conto della cosca, sotto le direttive degli esponenti di vertice non detenuti come lo Stilo, avendo ereditato la gestione in concreto della relativa attività criminosa forzosamente abbandonata dagli esponenti detenuti». Entrambi sono stati condannati definitivamente a 30 anni di carcere nel 2016.
Verità che non basterà a scongiurare il ripetersi della storia, l’aggiungersi di altri anelli. Al nome di Barbara o a quello di Angela potrebbe essere infatti sostituito quello di altrettante vittime con una storia simile. Donne la cui unica colpa è stata quella di amare un altro, di desiderare una vita diversa; lontana dalle faide mafiose, dalla violenza, da quel cieco impero della forza e da quell’ottuso apparato di “leggi d’onore” che esulano da qualsiasi criterio di vera umanità.
A margine di questa stessa storia, il filo rosso dirama e tende a un’altra: nel 2017 Maria Rita Logiudice, figlia di Giovanni, in carcere perché ritenuto elemento di spicco della cosca, si suicida all’età di 25 anni, dopo aver conseguito la laurea col massimo dei voti. Si suicida senza lasciare alcun biglietto. Si suicida, riportano alcuni giornali, forse, per quel cognome ingombrante e “pesante”. Forse. A oggi l’indagine sulla vicenda, senza alcun elemento certo, è stata archiviata.

 

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