Il latifondo e una fucilata contro Giuditta

Calabricata, 1946. Terra bella e amara ad una manciata di chilometri dallo Ionio: distese di colture da una parte, il blu sconfinato dall’altra, separati da distese di sabbia e ciottoli. A sud, scogli di granito inattaccabile, refrattario. Come la gente di Calabria. Indurita dalla fatica e dagli strascichi della guerra.
Una tra loro è più irriducibile degli altri: Giuditta Levato, una tenace contadina che chiede di lavorare. Lo fa a gran voce, incurante delle minacce dei baroni locali che da secoli dettano legge sui latifondi. Lei impugna un’altra legge, quella dello Stato, per sé, per la sua comunità, per i suoi figli, quelli che la accompagnano ogni giorno nei campi, e quello che porta in grembo, cui ha promesso un avvenire dignitoso.
Ma il 28 Novembre il tempo si ferma, un colpo di fucile risuona nell’aria secca autunnale, la speranza si spegne.
Giuditta, in ebraico “lodata”; eppure la sua storia, senz’altro degna di lodi, è rimasta nell’oblio per decenni, il suo gesto anonimo, prima di ricevere il giusto riconoscimento.
L’inizio della vicenda risale al 1944, anno in cui entrano in vigore i decreti Gullo per l’assegnazione dei latifondi ai contadini, che vi lavorano tra privazioni e stenti.
I provvedimenti, primo tentativo di garantire l’uguaglianza in un territorio che non conosce diritti, vengono accolti con fervore dai braccianti, ma incontrano prontamente le resistenze dei signori del latifondo. Giuditta abbraccia appieno la causa, si iscrive al Partito Comunista Italiano, e ne fa aprire una sezione nel suo paese dimenticato. Ingaggia una lotta contro i Baracco, i Gallucci, i Gaetani e contro tutti gli altri nomi senza un volto che, trincerati nelle loro proprietà inavvicinabili, speculano sulla vita miserabile dei contadini con sdegnoso distacco. Fino a quella mattina di Novembre.
Gli agrari conducono il bestiame nei campi coltivati, ennesima sfida al lavoro e ai sacrifici dei contadini: Giuditta non ci sta, ha inizio lo scontro. Combatte con la forza delle sue parole, sostenuta dai suoi ideali di equità e giustizia, e si spegne nell’unico modo in cui sarebbe stato mai possibile metterla a tacere, ammazzata.
Un manovale del barone mira al ventre, cadono in due.
Neppure al capezzale abbassa la testa. Affronta la morte con serenità stoica, ma con freddezza da eroina, consapevole di essersi immolata per una causa più grande, di aver privato i figli di una madre, il marito dell’amore di una vita, ma di aver contribuito a donare loro la libertà di chi è onesto, la dignità di chi fatica quotidianamente per guadagnarsi un tozzo di pane e una manciata di diritti.
«Sono morta per tutti»: le ultime parole, lapidarie, che la giovane lottatrice lascia in eredità alla sua gente. Fuori, un agro macchiato di rosso, una tomba per due.
Dopo decenni di silenzio, la riscoperta, l’orgoglio, il ricordo.
Nel 2018, la sua storia, insieme a quella di altre guerriere coraggiose, è stata portata alla luce da un libro scritto a sei mani, con un titolo dal forte potere evocativo: “L’ape furibonda – Undici donne di carattere in Calabria”. Evidente il richiamo alla maestra della parola Alda Merini, che si definì, in uno dei suoi testi più emblematici, una “piccola ape furibonda”, sempre dalla parte degli emarginati, dei disadattati.
La giovane di Calabricata, pur con la stessa attenzione agli ultimi, si è appellata non ai versi, ma alla legalità. Il suo non è stato l’esito di uno slancio passionale, o dell’incoscienza momentanea dettata dalla concitazione del conflitto, bensì un lucido atto di coraggio premeditato.
Giuditta Levato si è fatta portavoce di istanze collettive represse col sangue, secondo una modalità che non può, non deve assumere nella memoria i connotati di una rappresaglia personale.
La lotta al latifondo nel Mezzogiorno annovera tanti martiri, accomunati dal tentativo, attraverso l’applicazione delle leggi, di smembrare quella rete di controllo sul territorio esercitato con l’omertà e la violenza. Laddove vengono a mancare le istituzioni, si infiltrano criminalità organizzata e malaffare, e Giuditta, insieme a quanti hanno seguito il suo esempio, aveva inteso con lungimiranza il ruolo fondamentale dello Stato nel debellare le mafie.
Lei, ape furibonda, ha raccolto le grida afone di braccianti senza nome e ne ha ricavato un’unica voce tonante che, prima di soccombere ad un proiettile infame, ha esclamato con coraggio “Signor no”.

 

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