Vincenzo e la strage sul fiume Platani

Un’immagine spesso parla più di quanto una frase molto pensata possa comunicare.
Allo stesso tempo però, un secondo di vita congelato su carta potrebbe risultare assai limitante data una troppa superficialità in un osservatore disarmato.
Un qualunque essere vivente dotato di vista chiamato a descrivere la fotografia sovrastante, probabilmente porterebbe le lancette dell’orologio in un tempo parecchio remoto data l’assenza di colori, contrapposta alla presenza in primo piano di un trattore che giustificherebbe la sua collocazione in un plausibile campo. Un osservatore più attento, poi, noterebbe la macchina agricola in una posizione non conforme alla sua natura, in quanto leggermente inclinata rispetto all’orizzonte.
Un incidente. Quello stesso incidente che i carabinieri, avvertiti da una telefonata anonima, pensavano fosse accaduto mentre si dirigevano verso quella strage di mafia che oggi viene chiamata “Strage del Platani”.
Il 9 febbraio 1981, infatti, lungo il fiume Platani, tra Cianciana e Alessandria della Rocca a nord di Agrigento, lupare inizialmente ignote spararono colpi mortali che portarono via la vita a Vincenzo Mule, Domenico Francavilla e Mariano Virone rispettivamente di 15, 32 e 47 anni, tutti incensurati.
Totò Riina fu il mandante della strage, colui che da Corleone mandò i killer Salvatore Madonia e Giovanni Brusca a seminare morte, con l’obiettivo di uccidere l’allora boss di Cattolica Eraclea Liborio Terrasi, entrato in conflitto con il capo mafia di Ribera, Carmelo Colletti, ucciso successivamente il 30 luglio 1983 in un agguato all’interno della concessionaria FIAT che gestiva. Racconta al processo Brusca: “Erano in tre, quattro le persone sul trattore e li abbiamo eliminati tutti senza, però, che sapessimo chi erano, chi non erano. Non sapevamo nulla. Dopodiché il trattore si è fermato, si è messo su una scarpata, si è messo un po’ di traverso, che si spaventavano pure che si stava ribaltando, c’erano queste persone. Poi io ho sparato con il fucile, altri con la pistola. Abbiamo completato l’operazione e ce ne siamo tornati a San Giuseppe Jato”.
Andy Warhol diceva che la cosa migliore di una fotografia è che non cambia mai, anche quando le persone in essa lo fanno.
Vincenzo Mulè era di Cattolica Eraclea e non si trovava lì per caso. Era un pastorello e lavorava per aiutare la famiglia, tra quelle infinite distese di campi coltivati a fave e grano. Quel giorno, però, “per caso” chiese ai tre uomini un passaggio sul trattore per attraversare il fiume. Ma quel trattore, invece di trasportare il piccolo Vincenzo nel posto desiderato, l’ha condotto verso la morte.
Quella foto che senza adeguata descrizione potrebbe essere confusa come un incidente, si è trasformata lentamente in sigillo certo ed immodificabile: Vincenzo è una giovanissima vittima innocente di mafia. Una morte “casuale”, accidentale. E la sua tragica fine va ricordata.

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