Nunzio e la camorra del rione sanità

l 18 Maggio 1990 è un giorno di festa, nel Rione Sanità di Napoli.
Gennaro Pandolfi, giovane autista di Luigi Giuliano, boss di Forcella, finalmente torna a casa. Dopo tanti mesi passati in ospedale, costretto da un incidente, può tirare un sospiro di sollievo e abbracciare tutti per il pericolo scampato.
Non è l’unico a far festa, però.
Quel giorno, il piccolo Nunzio non vede Gennaro Pandolfi, il sottoposto di un boss mafioso, ma solo il suo papà. Non conosce ancora la mafia.
Spensierato nei suoi due anni, non sa che suo padre fa parte dei cattivi o che lui stesso è forse destinato ad essere uno di loro, solo perché figlio suo. Non conosce ancora i clan di Napoli e le loro rivalità, Forcella e Secondigliano sono solo parole innocenti e Nunzio, in quel momento, è contento così.
Quel venerdì, per lui, c’è solo suo padre.
Seduto in braccio a lui, però, Nunzio impara la sua prima lezione di vita, nel modo più duro possibile. Quel giorno, scopre che la vita può essere crudele senza alcun motivo.
Scopre anche che, a volte, ti trovi dalla parte sbagliata del mondo, o di Napoli, senza che tu possa farci nulla. Puoi anche essere solo il figlio di un autista e non sapere nulla di tuo padre o del suo boss, ma poco importa. In momenti del genere, non esiste la distinzione fra giusto e sbagliato, ma solo quella tra l’obiettivo e le persone coinvolte per sbaglio.
In un mondo come quello, “posto sbagliato” e “momento sbagliato” non sono semplici parole, ma motivazioni valide, scusanti comuni, cose che capitano.
Per Nunzio, le braccia di Gennaro sono “il posto sbagliato” all’arrivo dei due sicari, che cercano di ammazzare suo padre.
Forse Gennaro sperava che un bambino avrebbe fermato quell’esecuzione, risvegliando nei killer l’umanità necessaria per fermarsi. Forse ci aveva sperato per davvero ma, come sempre, non importa.
I due uomini, volto coperto e armi alla mano, entrano all’improvviso, sparando all’impazzata nell’appartamento. Non li ferma niente e nessuno, nemmeno un bambino di due anni appena.
11 proiettili colpiscono e uccidono Gennaro, il loro obiettivo, per vendicare un omicidio nel clan Contini. Un paio feriscono dei familiari lì presenti, altre vittime innocenti, e un proiettile solo si separa dagli altri, raggiungendo dritto il cuore del piccolo Nunzio.
Per qualche minuto, quindi, i due restano così: un bambino fra le braccia del padre e il sangue dell’uno misto a quello dell’altro.
Quella lezione di vita è così cruda e dolorosa da terminare su un letto d’ospedale, quando tutto diventa buio e la vita di Nunzio si spegne, prima ancora di iniziare sul serio.
Il giorno seguente, la città sembra gridare allo scandalo.
Il popolo italiano, ancora una volta, piange un figlio tra i più giovani ed è stanco della mafia e delle sue lotte. Il dolore dei napoletani è vivo come non mai, il loro cuore scottato nella parte più sensibile fra tutte, perché, quando la mafia uccide ‘e criature, è diverso.
Quando si toccano i bambini come Nunzio non c’è scusante o lotta tra boss che regga.
Quando vedi il corpo morto di una persona che non sapeva nemmeno di doversi difendere, qualcosa dentro di te si risveglia ed urla. L’indignazione per la brutalità di quel singolo proiettile nel cuore divampa sempre più forte, fino a non lasciare spazio per altro.
Fino a far urlare a Don Franco Rapullino, durante l’omelia per Nunzio, «Fujetevenne ‘a Napule».
Poco importa, ormai, degli esecutori e dei mandanti, condannati e assolti vent’anni dopo.
La sua tomba, ormai, è lì, con le due date fin troppo vicine fra loro e Gennaro accanto a lui.
Chi lo dice, alla madre di Nunzio, che suo figlio ha pagato le conseguenze maggiori per le scelte di vita sbagliate del padre? Che la mafia non riguarda solo te, ma si estende a macchia d’olio a tutte le persone che ti circondano?
Come si spiega, che pochi minuti sono sufficienti per distruggere due vite?
Intanto, il nome di Nunzio Pandolfi si aggiunge a quello degli altri bambini travolti dalla furia che solo la mafia è capace di creare, come Andrea Savoca, ucciso nel 1991, a quattro anni, durante un agguato nei confronti del padre; come Domenico Petruzzelli, figlio di un pregiudicato ucciso, ammazzato a sua volta a neanche tre anni compiuti, nel 2014 in Puglia, in un agguato nei confronti del “patrigno”, anche lui pregiudicato; come il dodicenne Filippo Scotti, ammazzato nel 1982 nel napoletano da un proiettile indirizzato al padre; come Pasqualino Perri, anche lui dodicenne, colpito a morte nel 1978 in Calabria al posto del padre.
Come il sangue di Nunzio e di suo padre, anche quello di tutti questi bambini si mescola.
Ad unirli indissolubilmente non è solo la loro morte o le lacrime versate dai loro genitori, ma è qualcosa di più forte. È un sentimento che supera il tempo e lo spazio, che si affaccia prepotentemente con la stessa forza ad ogni nuova vittima.
È l’innocenza, quella che urla.
Come una mamma con i propri figli, l’innocenza sente una parte di sé bruciare e scivolare via, quando uno di loro cade.
Lei non fa differenze fra nord e sud, fra gli anni ’80 o i ’90. Al contrario, è la sua sola presenza ad imporsi su tutti noi italiani e a farci urlare insieme a lei, come un’unica grande famiglia in lutto.
Piangiamo i nostri bambini, quelli che conosciamo e quelli che si sono perduti nelle trame fitte ed oscure della mafia. Chiediamo giustizia per i più famosi e cerchiamo i più sconosciuti, perché si tratta dei nostri figli. Era nostro figlio Pasqualino Perri, anche se è stato ucciso nel ’78, lo era Domenico Petruzzelli, morto anni fa, e lo era Nunzio Pandolfi.
Il legame che unisce loro a noi non ha niente a che fare con il tempo. È un sentimento materno più profondo, più intimo, che fa risvegliare la rabbia e l’indignazione per la forza e la noncuranza con cui sono stati strappati ai loro sogni e al loro futuro.
È un sentimento italiano.
Dopo molti anni, quel momento tragico ha preso il nome di “omicidio Pandolfi”, unendo padre e figlio.
Chi lo ricorda, però, cova ancora la rabbia, il rancore o la tristezza per un’altra vita strappata, un’altra voce da aggiungere all’elenco infinito delle vittime innocenti.
Cos’è più importante, alla fine?
Indignarci per le poche storie che già conosciamo, quelle di cui parlano al telegiornale, o fare in modo che tutte le altre vengano alla luce?
Ci siamo mai chiesti sul serio perché sappiamo così poco della storia di Nunzio o di quella di decine e decine di altre vittime, sepolte in attesa che qualcuno urli non solo il loro nome ma che racconti anche la loro storia a voce alta?
Non dimentichiamo, Nunzio Pandolfi era un bambino di due anni, le cui uniche “colpe” nella vita sono state essere figlio della persona sbagliata al momento sbagliato e stare tra le braccia di suo padre.
Quindi, dopo aver scritto di lui, mi chiedo: sono davvero queste ragioni sufficienti per uccidere?
No, mi rispondo. Non lo sono, e non lo saranno mai.

Fonte mafie blog autore repubblica