Peppino Basile, fra silenzi e mezze verità

“Il sogno, un mio sogno. Veder questa terra crescere. Sarei pronto al sacrificio della mia vita, purché questa terra cresca. Per il domani dei nostri figli.”
Giuseppe Basile, detto “Peppino”, quel sogno lo difendeva sempre. Nelle sale del Consiglio comunale, seduta dopo seduta. Nelle piazze. Tra le campagne e i viali della sua città, la salentina Ugento arsa dal sole, tra luoghi splendidi e abbandonati, dove ecomostri e discariche di rifiuti tossici spuntavano come funghi.
Peppino Basile era uno che non sapeva starsene fermo e zitto. Un “guerriero”, lo definiva in un’intervista l’antico compagno di scuola Stefano Carluccio. Carluccio soffriva di problemi di motricità fin dalla nascita. Peppino lo prendeva in braccio, insieme a un altro amichetto, e lo accompagnava da casa a scuola e viceversa. Tutti i giorni, facendolo “crepare di risate”, tra battute e scherzi ai passanti. Con quelle gesta, si era guadagnato persino un premio scolastico.
Dopo gli anni della scuola, Peppino aveva preso in mano il suo futuro, dapprima perseguendo una carriera nell’ambito delle costruzioni edili. Le sue antiche passioni, tuttavia, non avevano tardato a riaccendersi. Lo avevano condotto fatalmente verso una strada da lui fino a quel momento poco battuta, quella della politica: Peppino aveva trovato nell’adesione al partito l’Italia dei Valori, di Antonio Di Pietro, la chiave d’accesso per un mondo oscuro ed elettrizzante. A 61 anni, Peppino era ormai consigliere comunale a Ugento e alla provincia di Lecce.
Nel tempo, Peppino era rimasto lo stesso ragazzino che non sapeva starsene zitto e fermo. Alle sette del mattino era già al bar del municipio a ordinare “Caffè per tutti”; e poi via, con le critiche all’amministrazione. I suoi avversari politici lo avevano inquadrato fin dal primo momento: non poteva essere altrimenti. Gli davano del “predicatore”, del “Masaniello di Ugento”.  Apposizioni che non sembravano dispiacergli troppo. Come proclamava lui stesso a gran voce, in Consiglio, il 25 febbraio 2008: “Io sono un predicatore che posso predicare anche un pensiero non condiviso da te, ma che sono convinto di ciò che predico, essendo che sono quel predicatore basato su legalità, su diritti dei cittadini e sulla trasparenza delle amministrazioni. Questo è il mio predicare (…) allora continuo a predicare.”  “Voglio rimanere quella voce isolata nel deserto, ma continuo a predicare”, aveva concluso, poco prima che un altro Consigliere lo stroncasse con una battuta raggelante: “Volevo dire al consigliere Basile: il profeta, il predicatore nel deserto, poi Giovanni Battista finì con la testa mozzata. A volte può anche essere pericoloso, scomodo, avere questo ruolo”.
Nella stessa arena politica, quella del Comune di Ugento, dove aveva esordito per la prima volta come candidato nel Novembre del 1998, Peppino faceva spesso i conti in tasca al Consiglio. E non esitava a farsi sentire, quando quei conti non tornavano. Era puntiglioso, faceva domande, soprattutto sulla gestione dei soldi pubblici. Gli uffici della Polizia municipale avevano richiesto due nuove Punto: “se fossero soldi tuoi, li spenderesti 20.500 euro per una Punto, Francesco?”. E ancora, incalzava affinché non fosse approvato quel “mostro di piano regolatore”; s’infuriava nel leggere le carte di un bilancio che era la fotocopia di quello dell’anno prima. Denunciava con spavalda ostinazione i troppi debiti fuori bilancio del Comune. Peppino era pressante; gli altri consiglieri, per metterlo a tacere, spesso lo umiliavano, gli dicevano che non capiva le leggi. Credevano forse di colpirlo nell’orgoglio, ricordandogli che non era all’altezza: per non aver proseguito gli studi, per non essersi guadagnato nessun “quadro di Picasso”, come chiamava lui i diplomi di laurea. Ma Peppino tirava avanti senza vergogna. Si autodefiniva il “re degli ignoranti”, brandendo l’arma dell’ironia, e affermava che, anche se non era un gran dottore, lui le carte le leggeva fino in fondo e le leggeva tutte, fino a capirci qualcosa. Spessissimo s’infiammava: allora usciva platealmente dall’aula per protesta. “I vostri pastrocchi e imbrattamenti approvateveli da voi”.
Peppino Basile era, infine, un “rompicoglioni”.  Così lo ricorda anche Marilù Mastrogiovanni, direttrice del Tacco D’Italia, celebre per le sue inchieste sulla criminalità organizzata pugliese. Marilù non perde mai l’occasione per raccontare le più grandi battaglie di Peppino. Quella contro un grosso parco eolico che avrebbe deturpato il paesaggio. Quella, più difficile, contro l’edificazione di una struttura ricettiva, resa possibile da una perizia falsa su un terreno dichiarato “seminativo” ma interessato, in realtà, da protezione ambientale. Una battaglia, questa, che purtroppo Peppino aveva perso. L’ecomostro era stato costruito, il progetto approvato in Regione senza un’opportuna valutazione dell’impatto ambientale.
Infine, la battaglia contro lo sversamento di rifiuti tossici in una regolare discarica che serviva tutto il basso Salento: una manovra dietro a cui si celava, a detta di Marilù Mastrogiovanni, la mano lunga della Sacra Corona Unita. Quello della discarica “Burgesi” è un nodo considerato fondamentale per la comprensione degli ultimi passi politici di Peppino Basile, così come per gli eventi che vi seguirono.
Amico leale, politico per passione, whistleblower del Tacco, cittadino in prima linea. Peppino pareva instancabile. Lo conoscevano tutti molto bene, a Ugento, in Consiglio, nel Partito. Nel bene e nel male. Peppino sembrava essere consapevole dei sentimenti che suscitava: come alcuni suoi conoscenti riferirono alla magistratura, soleva dire “Mi fermerà sulu lu chiumbu…” (“mi fermerà solo il piombo”). In effetti, c’erano state delle minacce. L’ex magistrato ed esponente dell’Italia dei Valori Carlo Madaro aveva successivamente riferito di un’intimidazione ai danni di Peppino. Egli aveva, nel 2008, rinvenuto una testa di cavallo mozzata davanti all’uscio di casa propria. Per di più, nello stesso anno, alcuni ignoti avevano tappezzato i muri di Ugento di scritte minatorie: “Peppino sei nulla, Peppino devi morire”.
Il 14 giugno quei tetri auspicii sembrano concretizzarsi. È circa l’una meno un quarto: Peppino è di ritorno dalla vicina località di Torre Pali in compagnia di Silvio Fersini. I due amici hanno fatto serata; Peppino ha incontrato la signora Quintina Greco, sua nuova fiamma, e ha ballato a lungo con lei. Silvio è di Gemini, e Peppino lo riaccompagna a casa: durante il tragitto, ricorda Fersini, i due quasi tamponano un’opel corsa di colore grigio. Prima di giungere a Gemini, Peppino mostra a Fersini un impianto di stoccaggio di rifiuti: “presto farò scoppiare una bomba”, annuncia, mantenendosi sul vago. L’amico coglie il riferimento a una nuova denuncia politica.
Dopo aver acquistato delle sigarette da un distributore automatico, Peppino si dirige, da solo, verso casa propria. Fersini non è più con lui. A quel punto la vicenda è ricostruita grazie al racconto di diversi testimoni: una ragazza che abita nella strada parallela riferisce di aver udito la voce di Peppino esclamare “uei”, come un cenno di saluto. Poi, vari rumori, un calpestio: infine, le urla. “Aiuto, aiuto. Cummara Tetta, compare, aiutatemi”. È l’una e trentacinque. Il corpo di Peppino viene ritrovato dai vicini, riverso al suolo, esanime, in una pozza di sangue. Le coltellate lo hanno quasi sventrato. Quando arrivano i soccorsi è già troppo tardi. Quel rompicoglioni, quel predicatore di Peppino Basile non c’è più, e lascia attorno a sé solo l’arsura di una placida serata d’estate di un quartiere residenziale di Ugento.
“Ad Ugento c’è il “sistema”, lo confermo in quest’aula”: tuonava così Peppino solo qualche mese prima, il 15 Febbraio dello stesso anno. Lui con quel “sistema” era ossessionato. Forse era questo che lo spingeva a recitare la parte del pazzo, in Consiglio, mentre i suoi colleghi sogghignavano e asserivano di non sopportare il suo tono di voce, sempre sopra le righe. Ma quella del “sistema”, la pista politica, è solo una delle tante opzioni passate al vaglio dagli inquirenti. A suffragarla ci sarebbero le rivelazioni del pentito collaboratore di giustizia Vaccaro, che accusa l’imprenditore Bove di essere il mandante dell’omicidio, eseguito materialmente da due extracomunitari assoldati appositamente per commettere il delitto. Il movente? L’ennesimo malaffare edilizio scoperto da Peppino. Nonostante la verosimiglianza della testimonianza, Vaccaro viene ritenuto inattendibile da inquirenti a magistratura. L’assenza di ulteriori prove fa sì che l’ipotesi di omicidio a stampo mafioso sia presto abbandonata.
Si diffondono quindi ipotesi alternative. Tra queste, aleggia quella del “delitto passionale”, costruita avallando l’immagine di un Peppino “sciupafemmine” che, a sessant’anni, se ne andava ancora in giro, a detta di alcuni, a sedurre e abbandonare. Ma la svolta giunge a pochi mesi dalle indagini, quando inizia a prendere forma la pista del “delitto d’impeto” a opera dei vicini di casa: i Colitti, la famiglia a cui appartengono quel “compare Vittorio e cummara Tetta” che quella sera la testimone sente chiamare a gran voce da Peppino stesso. Ed è, sorprendentemente, proprio questa la pista più battuta dagli inquirenti. “Volevano chiudere”. Così riporta Vittorio Colitti junior, nipote dell’anziano “compare” e vicino di casa Vittorio Colitti. Sono proprio loro, nonno e nipote, a finire nel mirino delle indagini. A incastrarli è soprattutto la testimonianza di una bambina di soli cinque anni, la piccola Valentina, svegliata dal rumore della colluttazione mentre dorme a casa di sua nonna, collocata di fronte all’abitazione dei Colitti, con vista diretta sulla scena del delitto.
La bambina, interrogata una prima volta in presenza della madre e di un assistente sociale, riferisce di aver assistito con sua nonna, dalla finestra, a un pestaggio. Alla richiesta di identificare gli autori, la piccola parla di un uomo basso e anziano e di un ragazzo più alto e giovane e li associa a “il nonno e il fratello di Luca”, suo compagno di giochi, anch’esso nipote di Vittorio e Antonia “Tetta” Colitti. Quest’unica testimonianza fa scattare l’arresto di nonno e nipote; quest’ultimo, un ragazzone dagli occhi gentili, all’epoca dei fatti è ancora minorenne. Secondo la linea della difesa, la bambina sarebbe stata manipolata in sede d’interrogatorio.
Valentina viene sentita nuovamente nel 2009 e nel 2010: la testimonianza resta praticamente invariata, fatta eccezione per il riconoscimento dei Colitti quali autori materiali del delitto. In particolare, è vivo nella bambina il ricordo dell’intimazione della nonna alla piccola di non fare parola con nessuno di quanto aveva visto. La mancanza di coerenza nella testimonianza della bambina fa sì che nonno e nipote, dopo aver affrontato rispettivamente il primo e il primo e secondo grado di giudizio, siano assolti per non aver commesso il fatto.
Esclusa questa testimonianza, emersa solo in un secondo momento, l’impianto accusatorio contro i Colitti appare evanescente. Le quasi trecento persone ascoltate riferiscono che i rapporti tra Peppino e i Colitti erano ottimi, fatta eccezione per una testimone, la quale dichiara che Peppino le avrebbe parlato di frequenti alterchi e pettegolezzi tra vicini: si tratta di illazioni che, da sole, difficilmente spiegherebbero un’azione così estrema. Ancora, la casa dei Colitti, analizzata dalla scientifica nell’immediatezza delle ore seguenti il delitto, non presenta alcuna traccia ematica riconducibile a Basile; le tempistiche non combaciano; non si capisce perché Peppino avrebbe invocato il nome degli stessi vicini che lo stavano ammazzando chiedendo aiuto; infine, è lo stesso Stefano Colitti, figlio di compare Vittorio, a rinvenire per primo il cadavere e a chiamare i soccorsi. La pista dell’“omicidio d’impeto” si rivela un vicolo cieco. Con un unico lascito: una famiglia Colitti distrutta e chiusa in un doppio dolore, quello degli anni rubati, tra carceri, tribunali e riformatori, a un anziano e a un ragazzino; ma anche quello, sempre profondo, della perdita di Peppino.
Oggi, Vittorio Colitti junior non riesce ancora a parlare di lui senza trattenere le lacrime. In una recente intervista televisiva, afferma: “Noi con Basile avevamo rapporti familiari. Era una persona di tutto rispetto, amico, compare. Basile mi ha cresciuto. Lui lavorava all’epoca, mi trattava come un figlio. Io lo rispettavo come un genitore”. E subito aggiunge, l’espressione segnata dalla vergogna: “mi sento un po’ in colpa perché non ho fatto niente per aiutarlo”.
Le vicissitudini dei Colitti sono solo una delle storie dai contorni opachi che portano Ugento al centro delle cronache regionali. A meno di un anno dalla morte di Peppino, il 14 gennaio 2009, il Quotidiano di Puglia titola: “Rifiuti cancerogeni ritrovati a Ugento. La bonifica della discarica abusiva: estratti 260 quintali di rifiuti tossici”. Ha così inizio una stagione velenosa per il clima politico della piccola località salentina. Il partito di Peppino, l’Italia dei Valori, parte all’attacco contro l’amministrazione comunale. Eugenio Ozza, allora primo cittadino di Ugento, minimizza. Da lì, è tutto un susseguirsi di accuse pubbliche, minacce, querele. Ma il fondo non è ancora stato toccato. Il 25 febbraio, una bottiglia incendiaria non esplosa viene ritrovata sotto l’auto del sindaco Ozza. Il 12 marzo un masso di 17 chili viene scagliato contro la vettura del giovane geometra e tesserato nell’Italia dei Valori Simone Colitti. Il 13 marzo una bomba carta appicca il fuoco nella residenza estiva di un altro Colitti, Bruno, imprenditore che aveva denunciato la presenza di rifiuti tossici nella discarica Burgesi. E ancora, a marzo, si susseguono raid nelle sedi di alcuni partiti politici. Nello stesso periodo, l’auto di un consigliere comunale, Angelo Minenna, viene presa a sprangate.
Nonostante l’atteggiamento difensivo del sindaco, i media attribuiscono a Ugento un’atmosfera omertosa: nessuno può più ignorare l’escalation di attentati a breve distanza dall’omicidio di Peppino. I fatti del 14 giugno s’intrecciano con vicende ancora più oscure, legate al ruolo di altri personaggi. Tra queste, spicca quella del parroco del paese, don Stefano Rocca. Fin dall’assassinio di Peppino, don Rocca si fa portavoce di istanze di verità. Nelle sue omelie, don Stefano incalza sul movente politico per l’omicidio di Peppino, attaccando il clima omertoso del paesino; riprende in mano le invettive di Peppino contro “il sistema”. Don Stefano finisce sotto il riflettore mediatico anche grazie ai suoi plateali attriti col sindaco Ozza: il primo cittadino di “mafia” non ne vuol sentir parlare, e attacca il parroco per le sue velleità politiche. Come se non bastasse, Don Stefano dichiara ai giornali di aver raccolto una confessione su Basile nel segreto della sacrestia.
Inaspettatamente, nel 2010, Don Stefano Rocca finisce al centro di uno scandalo di ben altra natura. Una serie di lettere anonime fa piombare il parroco al centro di un vortice di accuse. La più grave, quella di pedofilia. Don Rocca confessa i rapporti, ma dichiara che si trattava di incontri consenzienti tra maggiorenni. Le accuse saranno archiviate nel 2011. Anche in questo caso, la verità fatica a emergere: dopo due anni dai fatti del 14 giugno, nel 2010, Don Stefano si reca a Perugia in ritiro spirituale. Il portavoce dell’ufficio diocesano di Ugento, Luigi Russo, afferma che l’allontanamento non è frutto di alcun provvedimento, ma soltanto della scelta libera e volontaria di don Stefano.
Forse Ugento non è ancora salva. La messa a norma della discarica Burgesi non è sufficiente a colmare le falle di anni di depistaggi, menzogne, non detti. E pesa ancora su Ugento quel bollino di città “omertosa”, quell’omertà che don Stefano Rocca diceva di voler abbattere dall’alto del suo pulpito, la stessa parola che ripugnava al sindaco Ozza, vittima anch’esso di feroci intimidazioni. Mastrogiovanni non ha mai esitato a usare il termine “omertà” in riferimento ai fatti di Ugento. Tuttavia, ogni considerazione sul muro di silenzio che circondò l’assassinio di Peppino Basile non può esulare da una riflessione sulle sue cause profonde. Nelle parole di Michele Abbaticchio, vice presidente di Avviso Pubblico: “Valutare il cittadino in base al coraggio nella denuncia è un fatto anche superficiale, perché la denuncia prescinde dal coraggio; la denuncia è direttamente proporzionale alla fiducia che il cittadino ha nei confronti delle istituzioni”, spiega ai microfoni di “Indago – Le cronache oltre la nera”. Ma l’uso del termine omertà implica anche qualcos’altro. Lega l’omicidio di Peppino Basile con un filo indissolubile alla volontà della criminalità organizzata.
Come si è visto, l’ipotesi della pista mafiosa è stata tra le prime a essere scartate dagli inquirenti, nonostante le rivelazioni del pentito Vaccaro, e nonostante alcune lettera inviate da Bove (accusato da Vaccaro di essere il vero mandante del delitto) prima e dopo la morte di Peppino. La prima lettera, da Bove a Vaccaro, recita: “Amico e fratello mio non ho fatto in tempo a risponderti alla lettera che mi è arrivata subito l’altra. Comunque stai tranquillo che a quell’infame ci penso io, però l’indirizzo che mi hai mandato è sbagliato e ho dovuto sbattere un po’ per vedere dove è che abita questo cornuto, ma ora lo so e quindi è solo questione di tempo, giusto il tempo per organizzare una bella festa. Non appena gli farò la cresima ti farò subito sapere”. In un’altra lettera, mandata sempre a Vaccaro ormai dopo l’omicidio, Bove si dice soddisfatto dell’arresto dei Colitti: “Allora per quanto riguarda il “Libro di Ugento” ho visto in tv che hanno arrestato nonno e nipote… contenti loro, contenti tutti, compresi noi… ah ah ah ah. Comunque mo vedo di informarmi a che sezione stanno perché qui da me non ci sono…”. Ma a inquietare ancor di più è una terza lettera, spedita da Bove a Massimo Donadei, all’epoca tra i capi della criminalità organizzata salentina, oggi collaboratore di giustizia. Un passo recita: “Mazinga perché se quando lo vedo io non gli farò avere pace e farà la fine degli albanesi di Basile!!…Mangime per i pesci”. Gli “albanesi di Basile” sarebbero stati, a detta di Vaccaro, gli assassini materiali del consigliere ugentino, poi eliminati da Bove stesso. Tuttavia, lo stesso Donadei si preoccupa di smentire l’ipotesi che Bove fosse il vero mandante dell’omicidio di Peppino; un fatto che, tra gli altri, contribuisce a far abbandonare agli inquirenti l’ipotesi dell’assassinio mafioso, ma che non basta a spiegare l’atteggiamento di Bove e le numerose intimidazioni subite da Peppino nei mesi che lo separano dalla sua scomparsa.
Nel frattempo, la scomparsa di Peppino si allontana nel tempo e la memoria si assottiglia, s’affievolisce ogni spinta verso la verità. Una verità intorbidita da fatti inspiegabili, vicende, scandali e voci di corridoio che si sovrappongono e si mescolano nella eco del tempo. C’è, tuttavia, chi non dimentica e non vuole, non può dimenticare. Non possono dimenticare i giornalisti del Tacco d’Italia, debitori a Peppino dei frutti di numerose inchieste, ripercorse nel libro “Il Sistema” a cura di Marilù Mastrogiovanni. Non dimenticano gli amici ugentini del Comitato “Pro Basile”. Non dimenticano alcune associazioni antimafia, che negli ultimi anni hanno deciso di annoverare Peppino tra le “vittime innocenti di mafia”, nonostante gli interrogativi che ancora aleggiano attorno alla sua scomparsa, e attorno ai fatti che stravolsero Ugento in quegli anni roventi tra il 2008 e il 2011.
Peppino di morire non aveva paura. “A forza di fare denunce politiche finisce che prima o poi qualcuno mi ammazza” era una delle frasi più consuete.  Dell’ignavia, sì, di quella aveva paura: anzi, lo riempiva di rabbia e di tristezza. Come quella volta che quasi scoppiò a piangere in aula, contrariato per la decisione della Giunta di approvare la costruzione di un villaggio turistico di cui aveva a lungo contestato l’irregolarità. Era, Peppino, nelle sue battaglie, sempre solo contro tutti. “Solo da morire”, titolava l’edizione speciale del Tacco d’Italia a lui dedicata.
Se c’è qualcosa che Ugento, la sua terra, la Regione Puglia e il Mezzogiorno d’Italia devono al “predicatore nel deserto” è cercare, per quanto possibile, di portare avanti il suo sogno. Un sogno che parla di crescita, di futuro, di un Sud Italia che non si lascia abbruttire dal malaffare. Un sogno che lui dedicava alle generazioni future; un sogno che forse oggi spetta a loro rincorrere. Perché tutte le volte che qualcuno rincorre il suo sogno, Peppino non è più solo.

 

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