Bruciato per la paranoia di Totó Rina

Era un pomeriggio di marzo, l’anno il 1995. A Palermo Giammatteo stava rientrando a casa da lavoro, quando due uomini in divisa si avvicinano a lui e lo rapiscono, uccidendolo poco dopo. Dei due finti poliziotti si conosce un nome: Gaspare Spatuzza, oggi collaboratore di giustizia, al tempo uno degli uomini di Totò Riina.
Fu suo l’ordine di rapire Giammatteo e ucciderlo: il ragazzo frequentava Villa Tasca, punto di incontro di giovani della stessa età, tra cui Marcello Grado, figlio del boss Gaetano Grado e vicino alla sorella di Giammatteo.
Girava voce, in quei giorni, che si stesse pianificando il rapimento dei figli di Riina e che proprio i Grado fossero parte di quel progetto. L’obiettivo del rapimento era estorcere la verità a Giammatteo: una verità di cui lui era completamente estraneo e per la quale ha perso la vita per mano di Leolouca Bagarella,(mandante e organizzatore), Antonino Mangano, Lo Nigro Cosimo, Gaspare Spatuzza, Nicolò Di Trapani, Giuseppe Guastella e Giusto Di Natale, tutti condannati dalla Corte di assise di Palermo con sentenza n. 1/99. Giammatteo fu ritrovato carbonizzato: di lui rimasero solo la fibbia dei pantaloni e l’orologio.
Una sera eravamo in ascensore, io e Giammatteo. Stavamo portando le pizze a casa quando, all’improvviso, tutto si blocca e noi rimaniamo chiusi: sono passate circa un paio d’ore prima che qualcuno riuscisse a farci uscire e per allora le pizze si erano trasformate in briciole!
Questo è uno dei momenti più belli che condivido con lui. Con Giammatteo condividevo tutto: avevamo gli stessi amici, giocavamo con gli stessi giocattoli. Non eravamo gemelli, ma era come se lo fossimo. Quando è stato ucciso, io avevo 21 anni e lui 23.
Giammatteo era un geometra e lavorava presso uno studio professionale di progettazione e realizzazione di opere pubbliche: attento e dedito al lavoro, avrebbe dovuto viaggiare e visitare cantieri al di là del Mediterraneo. Ma mio fratello, soprattutto, era un ragazzo buono: non perché fosse mio fratello, ma perché così era. La sua era una vita semplice, che ruotava attorno alla sua famiglia: viveva in funzione delle piccole cose e accudiva con amore i nostri genitori, sempre. E’ sempre stato il primo a offrirsi di fare qualcosa per nostra madre e nostro padre.
Quando racconto la storia di mio fratello, sottolineo sempre una cosa: Villa Tasca, il luogo che ha causato la tragedia che ha sconvolto la mia famiglia, era frequentato più da me e mia sorella. Anche mio fratello, certo, la frequentava, ma era, eravamo e siamo sempre stati ben lontani da quel mondo della criminalità organizzata.
Dopo l’uccisione di Giammatteo abbiamo trascorso un anno e mezzo sotto scorta ferrata. Parlavamo tanto con i ragazzi della scorta, per noi veri angeli custodi. Quando si è sotto scorta non si esce o si cerca di uscire il meno possibile: il vero 41 bis è morale e lo vivono i familiari. Ci confrontavamo con loro e più la squadra mobile, la DIA e la polizia indagavano, più era chiaro che la nostra fosse una famiglia pulita, lontana dal mondo della malavita organizzata.
Vivevamo nell’incubo di dover cambiare le nostre identità, giravamo sempre con tre macchine a protezione e poi, dopo un anno, abbiamo rinunciato alla scorta. C’è stato un momento in cui non si riusciva a capire su cosa indagare, ma i dati di fatto parlavano chiaro: 12 furono gli omicidi tutti di stampo mafioso in quel periodo, eseguiti con le stesse modalità con cui è stato ucciso Giammatteo. Si trattava sempre di rapimento, di uccisione dalle spalle. Un cliché mafioso.
Giammatteo mi è stato portato via 25 anni fa, il 22 marzo. Io ho perso un fratello, i miei genitori hanno perso un figlio. Ora che sono padre, guardo li guardo e li ammiro per la forza e il coraggio che hanno avuto nel riuscire a rialzarsi. Soprattutto mia mamma: ancora oggi, tutto ciò che Giammatteo ha lasciato è rigorosamente e gelosamente conservato. A un certo punto abbiamo dovuto togliere di mezzo tutto ciò che era suo. Ho vissuto il lutto di mio fratello osservando i miei genitori e il loro dolore. Quello di mia mamma, soprattutto: non si dava per vinta: non si può descrivere il dolore di una madre che perde un figlio. Voleva tenerlo a sé, voleva che il suo odore non la lasciasse e allora apriva l’armadio di Giammatteo cercando di sentirne la presenza accanto a lei. Il PC, l’ultima cosa che mio fratello ha toccato.
Per i primi anni ho sofferto di una grave depressione. Non mi rassegnavo: come può una vita finire così? Di lui è stato fatto il riconoscimento dalla fibbia dell’orologio e dai bottoni del jeans, un paio di pantaloni che erano miei. Non lo abbiamo nemmeno visto quando è morto: è stato ritrovato carbonizzato. Avevamo una giacca, io e Giammatteo, che condividevamo: era rossa, la ricordo bene. È ancora insieme ai suoi abiti, nella sua camera. La cosa che mi manca di più sono le nostre pescate: passavamo le notti intere a pescare, poi accendevamo il fuoco e preparavamo qualcosa da mangiare e passavamo la giornata a giocare e ridere con amici del calcio. Io e mio fratello condividevamo molto, tutto e insieme a mia sorella perfino le feste di compleanno, siamo nati tutti a pochi giorni di distanza!
Dall’omicidio di Giammatteo non ci sono state più feste: niente Natale, nessuna Pasqua. Eravamo abituati a grandi pranzi, cene con tutta la famiglia allargata e poi basta, senza mio fratello era tutto diverso. Le cose sono iniziate a cambiare con l’arrivo dei nipoti: mio figlio Riccardo è la fotocopia di Giammatteo. Ho bene in mente l’immagine di mia madre che lo prende in braccio, lo guarda e torna a sorridere.
Ma la memoria ha un ruolo fondamentale nella mia vita e in quella di chi come me porta avanti il ricordo di un familiare ucciso. Ogni volta che posso, parlo con i ragazzi e racconto, racconto la vita di Giammatteo e tengo viva la sua storia. Per 20 anni ho preferito rimanere in silenzio, poi ho iniziato l’attività nelle scuole, sempre gratuitamente: solo la conoscenza e la cultura gli unici strumenti far crescere le nuove generazioni. Quando penso ai miei figli mi chiedo: cosa sto lasciando a questi ragazzi? Ecco perché combatto ogni giorno e continuo a testimoniare. Grazie alla testimonianza sento la presenza viva di Giammatteo.
Sento Giammatteo quando sono nella casa in cui siamo cresciuti, che è la casa dei miei genitori. La casa dove siamo nati, il quartiere in cui siamo diventati ragazzi. Parlo e parlerò sempre di Giammatteo: lo sento vicino, lo sento con me. Giammatteo vive nelle parole di chi lo ricorda.

Fonte mafie blog autore repubblica