Coronavirus, domiciliari a carceriere del piccolo Di Matteo, il bimbo sciolto nell’acido

L’ergastolano Cataldo Franco, originario di Gangi (Palermo) e condannato per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha ottenuto la detenzione domiciliare per il rischio Covid-19. L’uomo, che tenne segregato il figlio del pentito Santino Di Matteo nell’estate del 1994, per un periodo di circa due mesi, è anziano e malato ed è tornato nella sua casa di Geraci Siculo (Palermo) per il pericolo che potesse contrarre in carcere il Coronavirus. Questo in applicazione delle norme tendenti a ridurre il numero delle persone detenute nell’attuale periodo di emergenza.

Cataldo Franco, oggi 85 anni, custodì per alcuni mesi l’ostaggio nella sua masseria di Gangi tra l’estate e l’ottobre del 1994; in seguito il ragazzino subì diversi spostamenti prima di essere ucciso. Cataldo Franco aveva restituito il prigioniero con una laconica motivazione: siccome si avvicinava la stagione della raccolta delle olive, gli serviva il capanno che faceva da cella del ragazzino. L’ergastolano è fuori dal carcere dal 28 aprile scorso ed era detenuto nel penitenziario di Opera (Milano): il suo nome fa parte dell’elenco di oltre 370 detenuti che in seguito al decreto sul coronavirus hanno beneficiato della scarcerazione per motivi di salute. L’istanza di domiciliari era stata presentata dalla direzione carceraria.

Nelle ultime settimane diversi esponenti di spicco della criminalità organizzata avevano potuto lasciare la cella per motivi di salute e per non accrescere il rischio di contagio. Tra di loro anche il boss dei Casalesi Pasquale Zagaria, che si trovava detenuto in regime di 41-bis a Sassari ma che da tempo è malato terminale di tumore.

Giuseppe Di Matteo fu rapito il 23 novembre del 1993, poco prima del suo tredicesimo compleanno. Il sequestro fu deciso dai Corleonesi capeggiati da Totò Riina e dai fratelli Giovanni ed Enzo Brusca per punire il padre del ragazzino che era diventato collaboratore di giustizia. Giuseppe Di Matteo venne prelevato da quattro mafiosi travestiti da agenti di polizia, tenuto prigioniero per 26 mesi e quindi strangolato e sciolto nell’acido. La sua orrenda fine fu raccontata ai magistrati da Giovanni Brusca, a sua volta divenuto pentito dopo la cattura. Nel luglio del 2018 il tribunale civile di Palermo aveva riconosciuto alla mamma della vittima un risarcimento di 2,2 milioni di euro, addebitati ai principali boss della mafia siciliana.

corriere.it