Il ritorno di Keynes per salvare il capitalismo (e il mondo) da se stesso

Nelle sue Considerazioni finali, il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha citato un solo grande economista. E questo economista è John Maynard Keynes. Lo ha fatto per indicare la strada alla politica verso un piano che possa sconfiggere la crisi economica causata da Covid così come il New Deal rooseveltiano portò fuori l’America dalla Grande Depressione negli anni ’30 del secolo scorso. E cioè tenendo assieme tutti i pregi di un sistema capitalista basato su libero scambio e concorrenza, affiancati però dall’obiettivo di fare riforme profonde per “ridurre le disuguaglianze” ispirandosi a “uno spirito di giustizia sociale”. Visco non a caso ha lanciato l’idea, condivisa dal capo degli industriali Carlo Bonomi, di un nuovo “contratto sociale” tra governo, imprese, finanza, istituzioni e società civile per tirare fuori l’Italia dalla palude. Un patto che riconosca intrinsecamente il ruolo della politica come principale depositaria del bene comune e come tale in dovere di correggere le storture che si sono stratificate negli ultimi 40 anni nel nostro paese. E cosa meglio delle idee di Keynes s’attagliano a una missione così ardua? L’economista britannico del resto è già riuscito un paio di volte – negli anni Trenta e nell’immediato Dopoguerra – a salvare il capitalismo (e il mondo da se stesso).

Per capire il ritorno in auge del pensiero keynesiano dopo un quarantennio di dominio pressoché incontrastato del paradigma liberismo-globalizzazione, bisogna partire dallo sfatare due luoghi comuni duri a morire. Il primo: Keynes non è mai stato socialista, con buona pace della sinistra massimalista che spesso ne ha tessuto le lodi. Il secondo: non è mai stato fautore della spesa pubblica, almeno quella di parte corrente. Iniziamo dal primo. L’economista britannico nei suoi scritti non ha mai messo in discussione il capitalismo, ne ha anzi sempre riconosciuto la capacità di far conseguire al numero più alto di persone il maggior grado di benessere economico. C’è un però. Lasciato a se stesso – è la convinzione keynesiana – il mercato non riesce ad auto-correggere i propri difetti e i propri eccessi, fallendo l’obiettivo di coniugare efficienza economica, libertà individuale e giustizia sociale. Proprio per questo, in alcuni momenti storici, soprattutto quelli di crisi, è necessario che lo Stato intervenga. Ecco il cuore del ragionamento di Keynes: contemperare due principi-cardine del pensiero liberare (efficienza economica e libertà individuale) con l’esigenza di assicurare giustizia sociale. “Del resto Keynes è stato iscritto per tutta la vita al partito liberale inglese, per certi versi era conservatore, strenuamente contrario all’utopia comunista e marxista”, ci racconta Giorgio La Malfa, politico repubblicano ma soprattutto grande studioso dell’economista inglese. “In una lettera a Roosevelt del 1933 spiega bene la sua idea di cambiamento nella continuità: bisogna combattere l’illusione che il mercato possa risolvere tutto da solo ma nel contempo bisogna intervenire con prudenza. Riformatore sì, rivoluzionario proprio no”. 

Il secondo luogo comune di cui è vittima riguarda il celebre paradosso delle buche da scavare e poi ricoprire. Per far capire come sarebbe stato necessario mettere soldi in tasca ai cittadini per far ripartire la domanda e la crescita in una fase di crisi nera, Keynes sosteneva che sarebbe stato finanche utile assumere lavoratori incaricati di scavare delle buche per poi tapparle invece che tenerli disoccupati e senza soldi. Una evidente provocazione, che purtroppo nella vulgata lo ha fatto passare come quello della spesa pubblica folle. “In realtà pochi lo sanno ma Keynes non proponeva affatto di scialacquare denaro. Anzi sosteneva l’obbligo per legge del pareggio di bilancio di parte corrente. Lo Stato in altri termini doveva intervenire nell’economia per stimolare quello che da solo il mercato non riesce a fare ossia soprattutto investimenti pubblici”, precisa La Malfa. Semplificando: Keynes non sarebbe stato assolutamente d’accordo con gli ultimi tre grandi interventi di spesa pubblica in Italia: né con gli 80 euro di Renzi, né con quota 100 di Salvini né con il reddito di cittadinanza di Di Maio. Invece sicuramente avrebbe avallato la spinta di Bonomi e Visco verso un grande piano di riforme e investimenti pubblici per proteggere l’Italia dal rischio di saltare in aria per le conseguenze economiche del lockdown. Come si vede, la lezione del “vero” Keynes è più che altro attuale. 

“E c’è anche un’altra intuizione che possiamo utilizzare oggi – aggiunge La Malfa -. La considerazione che una globalizzazione senza freni avrebbe favorito l’ascesa di regimi populisti, sovranisti e tendenzialmente totalitari”. Lo scrisse in “L’autosufficienza nazionale”, un saggio preparato per la Yale Review nel 1933 e che riguardandolo oggi sembra quanto mai tristemente premonitore. Anche in questo caso Keynes evidenzia come il capitalismo internazionale lasciato a se stesso può portare a motivi di frizione e di scontro fra nazioni, che invece di prosperare e aprirsi alla fine preferiscono imporre dazi e isolarsi. Insomma, quello, ad esempio, che sta accadendo adesso, nel 2020, fra Cina e Stati Uniti. Ottantasette anni dopo, rileggere Keynes – ma soprattutto capirlo – ne vale la pena.

Fonte uffhosting