Firenze , la strage dei Georgofili e quel processo del 96 che svelò molti misteri su Messina Denaro, i corleonesi e i poteri occulti

Prima e dopo la strage dei Georgofili .Palermo, Capaci e poi gli attentati a Roma e Milano

Messina Denaro , Bagarella, Provenzano , Sinacori e il movimento politico ” Sicilia LIbera”.

IN quel processo viene fuori l’interesse dei boss a tutelarsi dentro le istituzioni, dopo la fine della prima Repubblica , tramite un gruppo politico autonomo. Erano saltati i collegamenti con i partiti di potere che fino al 92 avevano comandato in Sicilia e a Roma. I boss, è evidente, si sentirono traditi da qualcuno con giacca e cravatta che dentro le istituzioni li aiutava. Questo passaggio processuale, dimostra ancora una volta, il cordone ombelicale che è sempre esistito tra pezzi della politica e dello Stato e la mafia.

I boss, dopo la fine del sistema costruito dopo il 1943 ,si sentirono smarriti e stavano cercando di trovare la soluzione per proteggersi dentro lo stesso Stato. Non si resero subito conto che la caduta del muro di Berlino stava cambiando molti equilibri.

Nel processo viene fuori anche il disaccordo ,sull’azione stragista , all’interno della commissione mafiosa. Matteo Messina Denaro seguiva la linea di Riina e di Provenzano . Si oppose ad un possibile attentato a Selinunte. I boss ipotizzarono pure l’uso di siringhe infette del virus dell’AIDS nei supermercati

Il Processo di Firenze

ll pool di magistrati fiorentini che lavorò alle inchieste sulla stragi del 1993 era composto da Gabriele Chelazzi, Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, sotto la guida dell’allora procuratore capo della Repubblica Pier Luigi Vigna, coadiuvato dal procuratore aggiunto Francesco Fleury. I responsabili materiali della strage vengono individuati velocemente. Resta ancora aperta la ricerca degli eventuali mandanti “occulti”, che Chelazzi aveva avviato e per cui l’associazione “Tra i familiari delle vittime” ha chiesto la riapertura delle indagini. Il pool fece un ottimo lavoro. Peccato che parti di quel processo non siano state utilizzate per le indagini sulle stragi

Il processo sulla strage dei Georgofili si apre il 12 novembre 1996. La sentenza di primo grado arriva il 6 giugno 1998, con 14 ergastoli e varie condanne. Nel 2000 c’è la sentenza stralcio relativa a Riina, Graviano e altri, con due ergastoli. Nel 2002 la Cassazione conferma 15 ergastoli. Tra i condannati c’è Bernardo Provenzano (all’epoca latitante, fu arrestato nel 2006) e Matteo Messina Denaro considerato, dopo l’arresto di Provenzano, il capo di Cosa nostra, è tutt’ora latitante).

Nel 2009 nuovi elementi d’accusa inducono la procura della Repubblica di Firenze, guidata da Giuseppe Quattrocchi, a chiedere la riapertura della vecchia inchiesta, archiviata, sui mandanti “occulti” delle stragi del 1993 e che vede imputato Francesco Tagliavia accusato di essere uno dei responsabili degli attentati del 92/93. I pm Quattrocchi, Nicolosi e Crini hanno motivato la richiesta di riapertura dell’inchiesta con l’esigenza di nuove indagini che prendono spunto dalle rivelazioni dei collaboratori di giustizia, uno dei quali, Spatuzza, direttamente coinvolto nell’esecuzione dell’attentato di via dei Georgofili.

Al processo si costituiscono trenta parti civili con Regione, Comune e Stato. Alti esponenti delle istituzioni come Mancino e Conso sono chiamati a testimoniare sulla presunta “trattativa” che sarebbe intercorsa con Cosa nostra per l’eliminazione del 41 bis, quale movente mafioso per le stragi del 1993. Il 5 ottobre 2011 boss mafioso Francesco Tagliavia viene condannato all’ergastolo per tutte le stragi del ’93 di Roma, Firenze e Milano. La sentenza è la prima che riconosce la piena attendibilità del pentito Gaspare Spatuzza, l’ex reggente del mandamento di Brancaccio.

Dai verbali delle udienze del processo

25 settembre 1997: continua il walzer dei “pentiti”. Vincenzo Sinacori parla di una quasi spaccatura al vertice di Cosa Nostra, diviso tra boss che volevano proseguire con le stragi ed altri che preferivano “un po’ di calma”. A dare il via agli attentati dei mesi successivi fu
una decisione di Bernardo Provenzano, che accettò di continuare con le stragi, ma a condizione che avvenissero solo sul continente.

Sinacori, pentito ritenuto molto attendibile, colloca nell’estate del 1992 l’inizio della strategia che prevedeva l’attacco ai monumenti: la prima ipotesi che fu fatta in quel periodo fu di far saltare la Torre di Pisa.
Sinacori, arrestato nel luglio 1996, è in libertà dal 25 agosto: appena un anno di carcere, nonostante si sia autoaccusato di numerosi delitti.
Il “pentito” racconta anche che “si parlava di un nostro movimento politico, l’idea era di mandare un certo numero di persone a Roma, alla Camera e al Senato, che avrebbero fatto i nostri interessi. L’idea di un movimento politico era di Bagarella,
dei Graviano e di Messina Denaro.

Il movimento si sarebbe dovuto chiamare” Sicilia libera”.

22 dicembre 1997depone di nuove il “pentito” Salvatore Grigoli.
13 gennaio 1998: “Non mi sento responsabile neanche di una virgola di quello che è avvenuto: il programma che si era discusso, era un altro”: Il “pentito” Giovanni Brusca comincia con una presa di distanza dall’uso delle autobombe la sua deposizione al processo che riprende dopo la pausa natalizia.

“Il programma che io conoscevo per il 1993 – spiega – era quello di compiere gesti
dimostrativi: si parlava di spargere siringhe infette dall’Aids sulle spiagge di Rimini
o infettare brioches nei supermercati. Un pò i metodi che usavano i giapponesi.
Volevamo mettere in ginocchio il turismo, ma senza fare danni, poi tutto è stato
stravolto”, facendo capire che la responsabilità principale di ciò che è poi avvenuto è di
Leoluca Bagharella.
Brusca ricostruisce poi le premesse del primo attentato del ’93, quello fallito contro
Maurizio Costanzo: “Costanzo, in una trasmissione, aveva augurato un tumore al
boss Francesco Madonia: è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Poi
spiega che chiese a Riina di poter uccidere il presentatore, ma gli fu risposto “ci stanno
già pensando”.
Secondo il “dichiarante”, due gruppi portarono avanti contemporaneamente il progetto di
uccidere Costanzo: i catanesi volevano farlo con armi tradizionali, i palermitani
preparavano l’autobomba.

“Qualche particolare sulle stragi – sostiene Brusca – l’ho appreso in seguito da Matteo Messina Denaro, che partecipò a quegli attentati. Mi disse che gli obiettivi erano stato individuati sui depliant turistici. In Sicilia era stato ipotizzato anche un
attentato ai templi di Selinunte, ma poi andarono avanti solo gli attentati sul continente”.

Dai verbali processuali
Tornando sui progetti di infettare le spiagge e le merendine nei supermercati, Brusca precisa che in ogni caso “avremmo avvertito telefonicamente prima, non volevamo vittime, doveva essere solo un avvertimento”. Il piano relativo alle siringhe infette
all’inizio del 1993 era già in una fase operativa: “Stavamo già cercando il sangue infetto”.

Brusca passa poi a spiegare il significato degli attentati del ’93. Riina gli disse: “Si sono fatti sotto, gli ho presentato un ‘papello’ di richieste lungo così e ora aspetto una
risposta”. In questo modo il capo di Cosa nostra gli avrebbe descritto, nell’estate del 1992, i contatti avviati con misteriosi rappresentanti dello Stato. Brusca aveva già
accennato in passato al “papello” (in dialetto siciliano, un conto da pagare), ma al processo aggiunge nuovi particolari.

Punto focale del “papello” sarebbero state una serie di richieste per alleggerire la situazione giudiziaria e carceraria di Cosa Nostra. “Non so chi c’era dall’altro lato del
tavolo, Riina non me l’ha detto – afferma Brusca – non so se si tratti di magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni. Conoscendo chi gravitava intorno a Riina, posso dire però che la persona che può aver stilato il papello potrebbe essere il dottor
Antonino Cinà, forse con Ciancimino o altri”.
Cinà era il medico personale di Riina e fu arrestato un mese dopo il boss, nel 1993.

“Dopo le stragi di Falcone e Borsellino – dice ancora Brusca – Riina mi disse che si erano ‘fatti sotto’ ed aggiunse: ‘Si sono mossi perfino i servizi segreti per la mia cattura’. Ci impose di stare fermi con i progetti di attentati, in attesa di risposte. Ad un certo punto però, sempre nell’estate del 1992, venne da me Salvatore Biondino e
mi disse: ‘C’è bisogno di un’altro colpetto, un’altra spinta alla trattativa’. Così
pensammo di uccidere il giudice Pietro Grasso. Preparai io l’attentato, dovevamo farlo a Monreale, dove sta sua suocera, ma poi si fermò tutto”.
La trattativa, secondo Brusca, proseguì anche nei mesi successivi, durante i quali Cosa Nostra mantenne un atteggiamento di attesa. “Il 15 gennaio, quando fu arrestato Riina
era in programma una riunione dei capi ed ho motivo di ritenere che fosse stata fissata proprio per riprendere tutta l’attività. Ma l’arresto fece saltare tutto”.

6 giugno 1997: l’ipotesi di uccidere il magistrato Pietro Grasso e l’ex giudice Antonino Caponnetto, un attentato alla Torre di Pisa, il progetto di disseminare la riviera romagnola di siringhe infette per danneggiare il turismo italiano, l’assassinio di alcuni agenti di
custodia di Pianosa: nel periodo tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, anche dopo l’arresto di Totò Riina, Cosa Nostra aveva in programma un ampio ventaglio di iniziative per colpire lo Stato. A raccontarle nell’aula bunker di Firenze un altro “collaboratore di giustizia”, Gioacchino La Barbera.
Con La Barbera, il pm Gabriele Chelazzi comincia a scandagliare quel “periodo oscuro” che va dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio all’inizio degli attentati sul continente
(maggio 1993, via Fauro a Roma). Un arco di tempo nel quale si sarebbero verificati molteplici contatti tra Cosa Nostra e rappresentanti delle istituzioni. La mafia – secondo la
tesi della procura di Firenze – cercava di ottenere modifiche al regime carcerario duro e questo fu uno dei motivi che portarono alla strategia delle autobombe.
Di uno di questi contatti, dai contorni ancora poco chiari, parla La Barbera: una trattativa

tra il mafioso Antonino Gioè e l’estremista di destra Paolo Bellini.
Bellini, secondo La Barbera, contattò Gioe’ (morto suicida in carcere) per chiedergli se
Cosa Nostra era disponibile a far ritrovare allo Stato alcune opere d’arte rubate. Gioè gli
portò la risposta di Giovanni Brusca: possiamo trattare, ma solo in cambio di interventi
sui detenuti. Bellini, che sosteneva di poter contare sull’appoggio di un generale dei
carabinieri, offrì la concessione degli arresti ospedalieri per Bernardo Brusca in una
struttura militare a Pisa, ma Giovanni Brusca rifiutò e la trattativa si arenò.

1 luglio 1997: per alcune delle stragi del 1993 con le autobombe Cosa Nostra avrebbe usato telecomandi identici a quello usato l’anno precedente per uccidere il giudice Paolo
Borsellino in via D’ Amelio. E’ quanto emerge dalla deposizione del “collaboratore di giustizia” Giovan Battista Ferrante.

Il “collaboratore” racconta vari episodi legati all’utilizzo di cinque “coppie” (un trasmettitore
e un ricevitore) di telecomandi artigianali realizzati a Palermo per conto di Cosa Nostra,modificando le apparecchiature per azionare i cancelli elettrici. I telecomandi erano stati
consegnati a Ferrante da Salvatore Biondo, detto “u curtu”, imputato per la strage di Capaci, tra il marzo ed il maggio 1992. Una di queste “coppie” di apparecchi fu usata per
attivare l’ordigno della strage di via D’Amelio. Secondo il racconto del “pentito”, due di questi telecomandi furono consegnati da Ferrante nel settembre-ottobre 1992 al boss
latitante Matteo Messina Denaro e ad uno dei suoi uomini di fiducia, Francesco Geraci,oggi anche lui “pentito”.
Ferrante affidò in quell’occasione a Geraci anche una decina di detonatori elettrici.
Messina Denaro, secondo l’inchiesta fiorentina, avrebbe poi fatto arrivare a Roma il materiale, che sarebbe stato utilizzato per gli attentati sul continente.
Il ricorso ad un telecomando per innescare gli ordigni avvenne solo per l’attentato di via
Fauro (funzionò male) e per il fallito attentato allo stadio Olimpico alla fine del 1993 (non
funzionò).

Il telecomando doveva essere usato anche per l’attentato a Totuccio Contorno, fallito per
la scoperta “casuale” dell’ordigno. Le stragi di Firenze, Milano e Roma (Velabro e
Vicariato) furono invece eseguite ricorrendo a micce per gli inneschi.