IL CASO ANTOCI: UN’IMPOSTURA DI STATO TRA DEPISTAGGI, MORTI E PERICOLOSI VELINARI

IL CASO ANTOCI E LE VITTIME: I POLIZIOTTI GRANATA E TODARO.
Fu davvero mafia? Inchiesta sul misterioso attentato senza esecutori, senza mandanti e senza verità nella Sicilia di Crocetta e Montante.
Vacche e spie pascolano allo stato brado fra i boschi e le cime più alte dei Nebrodi. Sono le montagne della provincia di Messina, pericoloso incrocio dove c’è mafia in bassa quota e c’è mafia in alta quota ma dove soprattutto c’è sempre qualcosa che non si capisce mai. È per questo che proviamo a raccontare la complicata storia di Giuseppe Antoci, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi che quattro anni fa è rimasto vittima di un attentato di cui oggi conosciamo quasi tutto e quasi niente. Abbiamo una verità ufficiale che al momento non ci consegna una verità, abbiamo un’inchiesta giudiziaria incompiuta, abbiamo gli allevatori ribaldi della montagna “sicuri colpevoli” ma mai mandati a giudizio. Nessun esecutore e nessun mandante. Siamo ancora al mistero profondo. La narrazione che però ne è stata fatta di questo “caso Antoci”, e sin dall’inizio, è da manuale. La vittima giusta. Il movente giusto. I mancati assassini giusti. Al copione, a un certo punto, è stata aggiunta anche po’ di enfasi per irretire il grande pubblico: “È uno degli attentati più efferati dopo le stragi del 1992″, richiamo alle uccisioni di Falcone e Borsellino, accostamento insolente solo al pensiero delle indagini – proprio quelle sull'”efferato attentato” – affidate ai poliziotti del piccolo commissariato di Sant’Agata di Militello, gli stessi poi che sono stati anche testimoni oculari e parti offese nell’agguato. Un’inchiesta tutta fatta in casa.

È l’anteprima inaspettata intorno a un delitto molto imperfetto avvenuto nella notte fra il 17 e il 18 maggio del 2016. La scena del crimine è nel buio dei faggi e delle querce che svettano sopra i mille metri, una tortuosa strada che dal comune di Cesarò precipita nel mar Tirreno.

Parco dei Nebrodi, area naturale protetta istituita il 4 agosto 1993, si estende nelle province di Messina, Catania ed Enna

Una Sicilia inedita e scivolosa
Prima di iniziare questa lunga cronaca che a qualcuno potrebbe sembrare addirittura sgarbata, una piccola avvertenza sulle cose di Sicilia. Quelle che non si possono dire sino in fondo ormai sono veramente poche. E di certo non hanno a che fare con la mafia, almeno quella tradizionalmente intesa, la Cosa Nostra sbaragliata dopo le stragi e ancora alla disperata ricerca di sé stessa. Di quella mafia si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto è carne morta.

Piuttosto scivoloso è diventato invece parlare o scrivere di vicende che si perdono malamente nei labirinti giudiziari, che sfiorano impicci di Stato, che nello stesso recipiente frullano convenienze politiche e scorribande sbirresche. L’affaire Antoci affonda in sabbie mobili dove apparenza e realtà si confondono, un gioco degli specchi che riflette una Sicilia deforme che non è più quella che abbiamo descritto nel passato dove i buoni sono tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra. È un inedito impasto.

Con morti improvvise e sospette di poliziotti, anonimi calunniosi, leste archiviazioni, con una traballante ricostruzione dell’agguato, controinchieste parlamentari, divisioni istituzionali, sofisticate pratiche di disinformazione, molta omertà. In questo susseguirsi di avvenimenti e innesto di dubbi, crediamo che sia quantomeno opportuno – e oggi ancora più di quattro anni fa – ascoltare più di una versione dei fatti.

Il racconto lo possiamo cominciare da lui, da Giuseppe Antoci, che per fortuna è vivo e che per noi resta sempre e comunque la vittima nonostante l’ambiguo contesto nel quale l’hanno trascinato. E possiamo cominciare dalla dinamica dell’attentato, dal movente più scontato, dagli allevatori malacarne dei Nebrodi descritti – ma senza uno straccio di prova – come i membri di una cosca d’ispirazione stragista in stile corleonese pronta a dare un nuovo assalto allo Stato.

Antoci e il suo protocollo
Fino a qualche anno faceva il bancario e non lo conosceva nessuno. Nato a Santo Stefano di Camastra nel gennaio del 1968, sposato, tre figlie, una famiglia come tante. Qualche mese dopo l’attentato, su Wikipedia diventa “un politico italiano”. È nel 2013 che Rosario Crocetta – il governatore della Sicilia invischiato nelle scorrerie del vicepresidente nazionale di Confindustria Antonello Montante – lo nomina ai vertici del Parco dei Nebrodi, un’area protetta di 85 mila ettari di superficie dentro i quali ricadono 24 comuni che si spingono a sud anche verso la provincia di Catania e all’interno verso quella di Enna.

Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi dal 17 ottobre 2013 al 13 febbraio 2018
Vale la pena di ricordare che Calogero Antonio Montante, detto ‘Antonello’, che per lungo tempo è stato padrone dell’isola, nel 2018 è finito in carcere, condannato a 14 anni di reclusione per associazione a delinquere semplice e intercettazioni illegali insieme a colonnelli dei servizi segreti, poliziotti, imprenditori.

Al castello Gallego di Sant’Agata di Militello, il giorno dell’insediamento di Antoci, stendono il tappeto rosso e la banda municipale lo saluta mentre sfila davanti a quaranta sindaci fasciati nel tricolore. È una parata. Al suo fianco c’è Mariella Lo Bello, un’ex sindacalista della Cgil che nel governo Crocetta è stata assessore al Territorio, vicepresidente della Regione e infine assessore alle Attività Produttive. È una di quelle che fa parte della nomenklatura di un regime siciliano che non si vedeva dai tempi di Lima e Ciancimino.

Un anno dopo la pomposa cerimonia Giuseppe Antoci introduce un protocollo per l’assegno degli affitti dei terreni che prevede la presentazione del certificato antimafia anche per i bandi inferiori a importi di 150 mila euro, un danno per i truffatori che spremono milioni di euro alla Comunità Europea. Diventa più difficile far lievitare artificiosamente il numero dei tori o delle giumente per incassare contributi, la mafia rurale dei Nebrodi è costretta a ricorrere ai prestanome e ai favori di amministratori complici.

Il castello Gallego di Sant’Agata di Militello e  la cerimonia di insediamento di Antoci alla presidenza del Parco dei Nebrodi, con la vicepresidente della Regione Siciliana Mariella Lo Bello
Il protocollo Antoci viene esteso in tutta la Sicilia, recepito dal nuovo codice antimafia e applicato in tutta Italia. Giuseppe Antoci comincia a ricevere premi e riconoscimenti. Lo scrittore Andrea Camilleri lo descrive come “un eroe”, il Presidente Sergio Mattarella gli concede l’onorificenza di “Ufficiale al Merito della Repubblica italiana”. Ospite fisso nei talk show del pomeriggio, è la nuova stella mediatica dell’Antimafia dopo la rovinosa caduta della Confindustria rapace che aveva conquistato la Sicilia.

Si comincia a parlare di una sua candidatura politica alla Regione, poi a Roma e poi anche alle Europee. Dal 2017 al 2019 Antoci è il responsabile nazionale della Legalità del Pd. Molto taciturno, non dirà mai una sola parola in quei due anni sugli affari scabrosi di Palermo e mai una sola parola sulla “mafia trasparente” di Montante. Il crimine per lui c’è solo sui Nebrodi, i boss sono solo quelli acquartierati fra il bosco della Miraglia e le fiumare. Tutto il resto è noia.

Giuseppe Antoci riceve dal capo dello Stato Sergio Mattarella l’onorificenza al Merito della Repubblica, il 2 febbraio 2017.
Dopo la sua nomina a presidente del Parco e dopo una prima lettera di minacce che gli recapitano (“Ne avete per poco, tu e Crocetta morirete scannati”), c’è l’agguato. Giuseppe Antoci è già sotto scorta, si muove da mesi su un’auto blindata. Per quel che può valere, una testimonianza personale, diciassette giorni prima dell’attentato sui Nebrodi.

È il 30 aprile del 2016, sono al teatro Biondo di Palermo nel trentaquattresimo anniversario dell’uccisione di Pio La Torre. Sul palco ci sono la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi, il sindaco Leoluca Orlando, il procuratore Francesco Lo Voi. Esco per fumarmi una sigaretta, nel foyer del Biondo mi ferma il senatore Giuseppe Lumia, il regista politico che ha portato Crocetta presidente alla Regione e Confindustria Sicilia nel governo isolano. Mi dice Lumia: “Sono molto preoccupato per una persona che ti voglio fare incontrare, ho paura che gli possa succedere qualcosa di brutto da un momento all’altro…”. E mi presenta Giuseppe Antoci. Diciassette giorni dopo leggo su Repubblica.it: “Agguato a fucilate al presidente del Parco dei Nebrodi”.

La lettera anonima di minacce inviata a Giuseppe Antoci

L’agguato nel buio della montagna
È la sera del 17 maggio e Antoci partecipa a una riunione, nel comune di Cesarò, con il sindaco Salvatore Calì e alcuni assessori della sua giunta. Poi insieme vanno in trattoria, dai “Fratelli Mazzurco”. Con Antoci e il sindaco c’è anche Daniele Manganaro, il dirigente del commissariato di Pubblica Sicurezza di Sant’Agata di Militello. Dopo cena tornano tutti negli uffici del comune di Cesarò, passa un’ora e Antoci e i due poliziotti della sua scorta salgono su una Lancia Thesis blindata. Comincia il viaggio di ritorno verso Santo Stefano di Camastra, il paese dove Antoci abita. Il vicequestore Manganaro si ferma ancora per qualche minuto in municipio con il sindaco Calì.

È l’1,55, ormai è il 18 maggio. La Lancia Thesis è sulla statale 289, fra Cesarò e San Fratello. All’improvviso, in contrada Volpe, rallenta la marcia e poi si ferma. Sulla strada ci sono alcune pietre. A guidare l’auto è l’assistente capo Sebastiano Proto, il caposcorta è Giuseppe Santostefano.

Affidiamo la ricostruzione dell’agguato alle parole del giudice delle indagini preliminari di Messina Eugenio Fiorentino: “… Quasi contestualmente esso (il veicolo ndr) veniva raggiunto – sulla fiancata sinistra, lato posteriore – da diversi colpi di arma da fuoco, sparati da almeno due soggetti travisati (indossavano entrambi una giacca mimetica) che si erano appostati sul lato sinistro della carreggiata…”.

Qualche istante dopo in contrada Volpe arriva anche un’altra auto, una Suzuki Vitara, a bordo ci sono il vicequestore Manganaro e il suo autista, l’assistente capo Tiziano Granata, “i quali resisi immediatamente conto di ciò che stava accadendo, rispondevano tempestivamente al fuoco costringendo alla fuga i malviventi senza che alcuno rimanesse ferito”.

Di quegli spaventosi istanti c’è anche la testimonianza di Giuseppe Antoci: “Una volta in macchina mi sono appisolato. Ad un certo momento, ho udito le voci dei due poliziotti che dicevano che vi erano delle pietre sulla strada… Immediatamente ho udito dei colpi molto forti alla macchina… Ho sentito l’arrivo di un’altra macchina che ha frenato rumorosamente e ho cominciato a sentire numerosi colpi e ho capito che stavano sparando… Ho sentito distintamente le urla del dottor Manganaro…”.

È ancora Antoci che ricorda: “Poco dopo, viene aperto lo sportello posteriore destro e qualcuno, che riconosco subito nel dottor Manganaro, mi tira fuori dall’autovettura, per farmi salire su un’altra vettura per allontanarci a velocità. Ricordo che nel preciso momento in cui si è aperto lo sportello ho detto “No, no” perché pensavo che volessero sequestrarmi, ma il dottor Manganaro si è fatto immediatamente riconoscere. Quindi ci dirigiamo, con l’altra autovettura presso il rifugio del Parco “Casello Muto” che è vigilato da personale del Corpo di Vigilanza del Parco…”.

Quello che resta sul luogo dell’agguato: due bottiglie molotov colme di benzina, alcune cicche di sigarette, “numerosissimi bossoli espulsi dalle armi in dotazione al personale di scorta e polizia”.

Il giorno dopo sul portale web di Rai News un investigatore coinvolto nelle indagini – la sua identità non viene rivelata – parla di “un attacco da guerriglia civile”, di scene “di terrorismo mafioso”, di “un agguato che non può che essere deciso ad alti livelli” ma “il commando non ha fatto i conti con la reazione del vicequestore Maganaro e degli altri poliziotti”. L’anonimo investigatore aggiunge che gli attentatori “sarebbero almeno tre” ma “che è difficile dirlo con precisione” perché “i poliziotti hanno visto il lampo procurato da ogni esplosione ma non le persone che hanno sparato”.

Due giorni dopo cominciano a circolare le prime voci – anche in ambienti investigativi molto qualificati a Roma, a Palermo, a Messina – su un attentato che sembra una messinscena. Nessuno mette in dubbio la buona fede di Giuseppe Antoci, tutti però manifestano “perplessità” sulla dinamica dell’imboscata. Sono rumors che crescono e che si diffondono settimana dopo settimana e mese dopo mese. Cominciano a circolare anche anonimi. Su Antoci e sui poliziotti che quella notte erano nel bosco. Calunnie? Depistaggi? Mezze verità condite da menzogne?

Tre giorni dopo l’agguato il sindaco di Cesarò Salvatore Calì – lo stesso che la sera del 17 maggio aveva cenato con Antoci e il vicequestore Manganaro – dichiara alla stampa che l’attentato “è da attribuire alla delinquenza locale e non certo alla mafia vera e propria”. Passa qualche ora e cambia idea con una dolorosa contorsione mentale e linguistica: “È stato un mero errore il mio, per il forte zelo di difendere tutti i cesaresi laboriosi mi sono scordato il vile gesto che hanno fatto al presidente Antoci e condanno fermamente il gesto allo stato mafioso così come è stato fatto”.

Interrogato dai pubblici ministeri sulla clamorosa marcia indietro, il sindaco racconta che dopo quella sua prima dichiarazione era scoppiato un putiferio. L’aveva chiamato Antoci per fargli smentire la prima versione. Poi l’aveva chiamato anche il senatore Giuseppe Lumia, che gli aveva suggerito come rimediare: “L’attentato c’è stato… devi dire che c’è la mafia”.

I protagonisti

Un’indagine fatta in casa
Parte l’inchiesta sull’attentato. Il procuratore capo della repubblica di Messina Guido Lo Forte affida il caso al sostituto Angelo Vittorio Cavallo, lo stesso magistrato che come procuratore capo di Patti quattro anni dopo dirigerà, e fra non poche polemiche sui ritardi e le incertezze sui soccorsi, le investigazioni a Caronia sulle misteriose morti di Viviana Parisi e del piccolo Gioele.

La delega d’indagine viene co/assegnata alla squadra mobile messinese e al commissariato di Sant’Agata di Militello (che in realtà sarà il motore delle investigazioni), lo stesso dove sono in servizio anche i poliziotti che si sono ritrovati nell’agguato sulla montagna. C’è il vicequestore Daniele Manganaro, che è il dirigente. Ci sono gli assistenti capo Tiziano Granata, Giuseppe Santostefano e Sebastiano Proto.

L’apparato antimafia giudiziario-poliziesco di Messina si ritrova davanti a un “attacco” come quelli dell’estate del 1992 ma per le indagini non viene investito, come da routine, nemmeno lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia di Stato specializzato in investigazioni di livello sulla criminalità organizzata. Lo Sco interverrà successivamente e solo per un frammento dell’indagine, l’analisi del traffico telefonico nella zona dell’agguato.

Chiedono al questore Giuseppe Cucchiara: “Ma non è inconsueto che a investigare siano state proprio le vittime dell’attentato?”. Risponde: “Sono in difficoltà con questa domanda”. Insistono: “A lei è capitato in altri casi?”. Risponde il questore: “Raramente, forse mai”. L’inchiesta sancisce fin dal principio “come gli attentatori avessero agito non al fine di compiere un semplice atto intimidatorio e/o dimostrativo, ma al deliberato scopo di uccidere”.

I massi per far rallentare l’auto blindata, le fucilate alla gomma per bloccarne la corsa, le bottiglie molotov per incendiare l’auto e costringere i poliziotti e Antoci a scendere dalla Lancia Thesis per poi giustiziarli. Un massacro, sventato solo per il provvidenziale arrivo del vicequestore Manganaro e dell’assistente capo Tiziano Granata. Sul movente poliziotti e magistrati hanno una certezza: è stata la “mafia dei pascoli”, quella danneggiata dal protocollo voluto dal nuovo presidente del Parco dei Nebrodi. E’ l’unica pista che seguono.
Sotto osservazione finiscono decine di personaggi legati alla mafia di Tortorici, ma anche a quella del versante catanese dei Nebrodi e dei territori che confinano con Enna.

Il cerchio si stringe su 14 uomini, cinque di loro erano seduti ai tavoli della trattoria dei “Fratelli Mazzurco” quando Antoci era là a cena con il sindaco e con il vicequestore Manganaro. Sono loro i principali sospettati e tutti rotolano nell’inchiesta. Quando ancora non lo sanno, gli indagati parlano e straparlano sotto intercettazione: “Questi sono convinti che questa cosa era la nostra”, “Ma tu con chi parli parli dice: questo attentato se lo sono fatti loro”, “A noialtri mai potrebbe venire questa idea, mai ci potremmo arrivare… noialtri dobbiamo vendere il porcello”.

Poi vengono sottoposti al test del Dna per scoprire se fra di loro, la notte del 17 maggio 2016, c’era uno di quei “fumatori” che aveva lasciato cicche di sigarette – tre Rothmans, una Camel e una B&H – nel bosco. Nessuno. Poi ancora controllano le celle delle loro utenze telefoniche. Nessuno di loro era presente sul luogo dell’attentato. Uno dopo l’altro i 14 escono dall’indagine. L’inchiesta va comunque avanti e sempre nella stessa direzione: la mafia dei pascoli. C’è una vittima vera – Antoci – c’è il movente chiaro – il protocollo di legalità – ma non si trova chi ha sparato e chi ha ordinato di sparare.

Passano due anni dall’attentato e nel maggio del 2018 il procuratore Cavallo firma (insieme a Vito Di Giorgio e Fabrizio Monaco e con il visto del nuovo procuratore capo di Messina Maurizio De Lucia), una richiesta di archiviazione. Nel luglio successivo il giudice delle indagini preliminari Eugenio Fiorentino l’accoglie: “L’avvenuta esplorazione di ogni possibile spunto investigativo, non consente di ravvisare ulteriori attività compiutamente idonee all’individuazione di alcuno degli autori dei delitti contestati”. Qualche riga prima lo stesso magistrato scrive pure che “non era possibile far luce sul movente e sui responsabili dell’attentato in oggetto”. Una piccola titubanza finale. Per due anni si è ipotizzato un solo movente, per due anni c’era solo la mafia dei pascoli. Ma ormai il “caso Antoci” è chiuso.

Vittorio Cavallo, attualmente capo procuratore di Patti. All’epoca dell’attentato era sostituto del procuratore capo di Messina, Guido lo Forte.

“È una babbarìa, è stata la politica”
Quello che non si sa ancora nel 2016 delle indagini – o meglio, di ciò che accade negli ambienti investigativi messinesi durante le indagini – si scopre dopo. Una vera e propria faida nella polizia di Messina: da una parte il vicequestore Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata di Militello e dall’altra il vicequestore Mario Ceraolo del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto, che è la storica capitale criminale del messinese. Mentre Manganaro indaga ufficialmente sull’attentato, nonostante sia parte in causa con la sua partecipazione alla sparatoria, Ceraolo indaga informalmente sull’imboscata – così almeno sostiene lui – dopo averne parlato con il procuratore Lo Forte e con il suo questore Giuseppe Cucchiara.

Il commissario Ceraolo attiva le sue fonti. E parte dalla Cosa Nostra di Barcellona, quella che controlla il crimine fra Palermo e Messina. Ceraolo riferisce che le sue fonti non sanno nulla dell’attentato contro Antoci. Il commissario si rivolge ad altre fonti che custodiscono i segreti delle cosche di Tortorici, di San Fratello, di Cesarò. Si tirano fuori, dicono che non è cosa loro. Mentono? Depistano? Il commissario crede alle sue “antenne”. Gli confidano un giorno: “La mafia non c’entra… esattamente mi dicono che è una ‘babbarìà quasi con il sorriso, è una ‘babbarìa’, questa è una cosa della politica, è stata la politica, è una cosa della politica”.

Incarico informale, nulla di scritto, nessuna delega. Ceraolo investiga anche al di fuori degli ambienti criminali, raccoglie umori anche “nell’ambiente delle Forze di polizia dove vi erano molte perplessità sull’attentato dal punto di vista proprio logico, di come si era verificato… Anche fuori della Sicilia, nell’ambiente delle Forze di polizia…”.

Poi riversa le sue informazioni al procuratore Cavallo e agli altri magistrati (“Tutti mi chiedevano continuamente quale era il mio parere… io ho percepito questo, loro avevano perplessità su diversi fatti….”. Il commissario racconta che questo “scambio di opinioni” era quotidiano a partire dal maggio del 2016.

Le affermazioni di Ceraolo vengono smentite dal procuratore Cavallo. Mai avuto colloqui con il commissario sull’inchiesta Antoci, mai chiesto pareri, mai ricevuto rivelazioni da Ceraolo. Due versioni contrastanti. Un altro mistero nel mistero. Ma non l’ultimo. Perché ventidue mesi dopo l’attentato contro Giuseppe Antoci i morti, in questa storia, ci sono davvero.

In 24 ore muoiono due poliziotti
È il primo giorno di marzo del 2018. E l’assistente capo Tiziano Granata, 40 anni, l’autista del commissario Manganaro che si ritrova in mezzo alla sparatoria sulla statale 289, muore per un arresto cardiocircolatorio. Lo stesso giorno viene ricoverato in ospedale per una leucemia fulminante Calogero “Rino” Todaro, 46 anni, sovrintendente, il capo della sezione di polizia giudiziaria del commissariato di Sant’Agata di Militello, uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’agguato nel bosco. Morirà il giorno dopo.

Tiziano Granata ; Calogero “Rino” Todaro . I due poliziotti presenti la notte dell’attentato sono morti nel giro di 24 ore

Todaro, per il suo ruolo di capo della polizia giudiziaria, è il motore delle indagini (insieme ai suoi colleghi della squadra mobile di Messina) sull’attentato. Tutti e due sono collaboratori fidatissimi del vicequestore Manganaro. Se ne sono andati a ventiquattro ore di distanza uno dall’altro per una straordinaria tragica coincidenza? O non sono morti naturali? Sono stati uccisi? E perché? E da chi? In pochi credono alla “tragica coincidenza”. Non ci crede Lorena Ricciardello, la compagna di Tiziano Granata.

La donna racconta che “non subito dopo l’attentato, ma qualche tempo dopo, Tiziano ha cominciato ad essere nervoso”. Si muoveva guardandosi sempre intorno, aveva tolto il suo nome dal campanello della casa di Lorena, temeva che potesse accadere qualcosa ai suoi familiari. A un certo punto la donna sospetta che sia stato avvelenato. Il 14 febbraio, due settimane prima di morire, festeggiano insieme il quarantesimo compleanno di Tiziano. E lui già allora sta male, non mangia più, continua ad andare in bagno.

Poi Lorena Ricciardello ricorda le ultime ore, quelle del 28 febbraio. Prova a chiamare Tiziano più volte – intorno alla 20.20 – qualcuno risponde ma lei non sente nessuna voce dall’altra parte. Tiziano Granata muore nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo. Al “decesso naturale” di Tiziano non crede nemmeno il vicequestore Manganaro. Sa che il poliziotto suo amico teme qualcosa, dice che il commissario Ceraolo “gli girava intorno”, c’era tensione. Naturalmente Ceraolo smentisce e parla invece di un “imbarazzo” che aveva Granata per quella notte sui Nebrodi.

Intanto nel commissariato di Sant’Agata di Militello, durante un’assemblea sindacale – secondo la versione di Manganaro – viene fuori la voce “di un terzo morto entro l’estate”. Dopo Granata e Todaro tocca a un altro poliziotto. Qualcuno dice a Manganaro: “Il terzo morto pensano tutti che sia lei”. Voci che si rincorrono, ormai non si distinguono più i confini delle verità e delle falsità. Il vicequestore Manganaro si mette a rapporto con il suo nuovo questore Mario Finocchiaro e, dopo qualche tempo, viene trasferito al commissariato di Tarquinia.

Di questo inferno che è diventato il commissariato di Sant’Agata il questore Finocchiaro non ne ha ricordo: “No, non c’erano ragioni di sicurezza. C’erano ragioni legate al fatto che, insomma, ormai era un bel po’ di tempo che stava a Sant’Agata. Certo, anche questa situazione di continue voci, anonimi… credo che anche lo stesso Manganaro si sia reso conto che forse era il caso di spostarsi e andare via da Sant’Agata. Col Ministero, col Dipartimento c’è stata un’interlocuzione per cui poi hanno concordato in qualche modo questo trasferimento…”. Altre versioni diverse. Ogni capitolo dell’affaire Antoci ha una faccia che non somiglia mai all’altra. Come si sono concluse le inchieste sulle morti di Tiziano Granata e di Rino Todaro? Con altre due archiviazioni.

La prima – quella di Todaro – è del giudice di Messina ed è del 26 settembre del 2018. La seconda – quella di Granata – è del giudice di Patti e porta la data del 26 novembre 2018. Ecco uno stralcio dell’archiviazione sulla morte di Granata: “Non si può che concludere ritenendo che la morte di Granata si sia verificata per causa naturale che nulla ha a che dipendere né dalla propria attività professionale né dall’opera di terze persone.

Infatti, i dubbi manifestati da Ricciardello Lorena e Manganaro Daniele non trovano riscontro negli accertamenti tecnici che escludevano avvelenamenti o cause esogene né le anomalie sopra indicata dalla prima (il cellulare lontano dal cadavere di Granata, la telefonata muta e l’ordine in casa) sembravano assumere rilievo causale o concausale con l’evento morte. Inoltre, giova precisare che dalla lettura delle relazioni autoptiche dei due agenti, Granata e Todaro, si evince che la contestualità temporale dei due decessi sia stata una mera tragica casualità atteso che le cause riscontrate, sebbene entrambi naturali, non possono dirsi riconducibili ad un’unica fonte.

Ciò posto, a fronte del quadro investigativo sopra delineato che ha escluso senza alcun margine di dubbio la presenza di elementi che possano fare pensare all’intervento di terzi nella morte di Granata Tiziano”. Altri due casi chiusi per sempre.

La controinchiesta parlamentare
La Sicilia dopo le stragi è prigioniera di una grande impostura. C’è un’Antimafia rappresentata da Confindustria che è già finita nelle indagini della procura e della squadra mobile di Caltanissetta, c’è un sistema di potere marcio alla Regione, ci sono interessi colossali per lo smaltimento dei rifiuti. Claudio Fava, neo presidente della commissione parlamentare siciliana, giornalista, scrittore, sceneggiatore, figlio di Pippo, il nostro collega ucciso a Catania nel gennaio del 1984, mette in calendario tre inchieste parlamentari che chiuderà in poco meno di due anni.

Una è su Antonello Montante e la sua banda alla Regione, un’altra è sugli affari della monnezza e su alcuni comuni sciolti per mafia soltanto perché i sindaci si opponevano alle discariche nei loro territori, la terza inchiesta è sull’agguato ad Antoci. Le tre vicende sono attraversate da un “filo” politico che ha il volto del senatore Giuseppe Lumia.

A Montecitorio e a Palazzo Madama ininterrottamente dal 1994 al 2018, ex presidente della commissione parlamentare antimafia, buone conoscenze negli apparati, Lumia è molto vicino al Cavaliere Montante (e anche ad alcuni magistrati che Montante l’hanno vezzeggiato pure quando era sotto indagine per concorso esterno), è legato al re del rifiuti Giuseppe Catanzaro, ha sponsorizzato con il presidente Crocetta la nomina di Antoci al Parco dei Nebrodi.

Come consulenti per decifrare il mistero dell’attentato Fava ne sceglie due. Uno è Agatino “Tuccio” Pappalardo, un superpoliziotto che è stato questore di Messina, questore di Palermo e direttore centrale della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia. L’altro è l’ex presidente del Tribunale di Catania Bruno Di Marco.

Per cinque mesi in commissione ascoltano magistrati, funzionari di polizia, ispettori, giornalisti, amministratori. L’obiettivo è verificare le tre ipotesi sull’agguato emerse dalle audizioni. La prima: “Un attenato mafioso fallito che intendeva eliminare Antoci”. La seconda: “Un atto dimostrativo destinato non ad uccidere ma ad avvertire la vittima o altri ambienti criminali locali sui quali far ricadere la responsabilità del fatto”. La terza: “Nessun attentato ma solo messinscena (che renderebbe Giuseppe Antoci doppiamente vittima, in quanto del tutto inconsapevole di tale simulazione)”. Claudio Fava sa dove sta mettendo i piedi e subito “blinda” Antoci, che considera vittima e poi anche “doppia vittima”.

Le conclusioni della commissione sono una bomba: “Alla luce del lavoro svolto corre l’obbligo di evidenziare che, delle tre ipotesi formulate, il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile. L’auspicio è che su questa vicenda si torni ad indagare (con mezzi certamente ben diversi da quelli di cui dispone questa Commissione) per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità”.

La prima reazione parte da Nicola Morra, il presidente della commissione antimafia di Palazzo San Macuto: “È stato svolto un lavoro attento e certosino… un lavoro non facile ed alla fine votato all’unanimità… i dubbi non sono soltanto miei, ma di tutti coloro che vogliono scoprire i responsabili di quanto successo a Giuseppe Antoci”. La seconda reazione è di Giuseppe Antoci, violentissima: “La relazione dell’attentato contro di me presta il fianco alla delegittimazione e al mascariamento”. Mascariare, sporcare.

Antoci è furioso, si scaglia contro la commissione di Fava e contro i “soggetti ascoltati durante le audizioni che non citano mai le loro fonti bensì il sentito dire o esposti anonimi”. Il riferimento è ai giornalisti come Paolo Mondani di Report, Francesco Viviano di Repubblica, Mario Barresi della Sicilia che nelle loro cronache avevano raccolto in ambienti investigativi tutti i dubbi sulla dinamica dell’agguato.

La replica di Fava è composta: “Siamo rimasti tutti abbastanza stupiti e un po’ delusi dalla reazione del signor Antoci. Ci saremmo aspettati parole di gratitudine e non una parola come ‘vergognosà riferita al lavoro della commissione, la cui relazione contiene anche apprezzamenti nei confronti del suo lavoro”. Ma la parte più hard dell’inchiesta parlamentare è quella “tecnica”, sulla dinamica dell’agguato secondo la versione fornita dagli uomini della scorta di Antoci e dagli altri poliziotti intervenuti durante la sparatoria.

Un’imboscata molto particolare
La controinchiesta – il consulente come abbiamo detto è l’ex direttore nazionale della Dia Tuccio Pappalardo – sostiene che durante quell’agguato, per come è stato ricostruito dai testimoni, sono stati infranti tutti i protocolli di attacco da parte degli attentatori e tutti i protocolli di difesa da parte dei poliziotti.

“Non è plausibile che quasi tutte le procedure operative per l’equipaggio di una scorta di terzo livello siano state violate…”. L’auto blindata abbandonata, la personalità scortata esposta al rischio del fuoco nemico, la fuga su un’auto non blindata.

“Non è plausibile” che gli attentatori, almeno tre a giudicare dalle tre marche di sigarette riscontrate sui mozziconi, “presumibilmente tutti armati (non v’è traccia nelle cronache di agguati di stampo mafioso a cui partecipino sicari non armati)”, non aprano il fuoco sui due poliziotti sopraggiunti al momento dell’attentato.

“Non è plausibile” che sui trentacinque chilometri di statale tra Cesarò e San Fratello, “il presunto commando mafioso scelga di organizzare l’attentato proprio a due chilometri dal rifugio della forestale”, presidiato anche di notte da personale armato.

“Non è comprensibile la ragione per cui non sia stato disposto dai questori pro tempore di Messina e dai pm incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari di polizia, Manganaro e Ceraolo”, che hanno continuato ad offrire ricostruzioni opposte.

“È per lo meno inusuale che di fronte ad un attentato ritenuto mafioso, con finalità stragista, la delega per le indagini venga ristretta alla squadra mobile di Messina e al commissariato di provenienza dei quattro poliziotti protagonisti del fatto…”.

“Non si comprende la ragione per cui al gabinetto della polizia scientifica di Roma, tra i vari quesiti sottoposti, non sia stato chiesto di valutare se la Thesis blindata di Antoci avrebbe potuto o meno superare il “blocco” delle pietre poste sulla carreggiata…”.

“È impensabile che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa Nostra interessate al territorio nebroideo”, cioè quelle di Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici e Catania.

“È insolito, infine, che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti…”.

Gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono fuggiti nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci è stato messo in salvo? Le “contestazioni” continuano una dopo l’altra: “Difficilmente si sarebbe potuti arrivare ad esiti investigativi diversi dall’archiviazione d’un fatto tuttora attribuito ad ignoti, ma certamente indagini più estese e soprattutto più coinvolgenti rispetto ad altri apparati di forze dell’ordine avrebbero potuto contribuire a fornire alcune risposte che mancano”.

Si scopre pure che i poliziotti di scorta ad Antoci quella notte – Proto e Santostefano – saranno ascoltati con comodo, solo un anno dopo l’agguato. La commissione parlamentare smonta pezzo dopo pezzo l’inchiesta del procuratore Angelo Cavallo.

Le domande senza risposta

Lo scontro fra Procura e Antimafia
I magistrati non la prendono bene. E comincia una “guerra” a colpi di dichiarazioni che ha come bersaglio permanente Claudio Fava. C’è anche una virulenza informativa, notizie che portano confusione, cortine fumogene.

Per esempio, all’inizio di quest’anno, nel gennaio 2020, la magistratura messinese ordina la cattura di 94 personaggi coinvolti nelle truffe Ue dei terreni. Un altro colpo alla mafia dei pascoli. Nei giorni precedenti al blitz qualcuno fa circolare l’indiscrezione che, fra gli arrestati, ci sono anche i mandanti dell’attentato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi. Qualcun altro abbocca.

Nell’ordinanza di custodia cautelare del giudice Salvatore Mastroeni – 2 mila pagine – però il nome di Antoci è citato solo 6 volte. Sul collegamento fra l’operazione e l’imboscata del bosco della Miraglia scrive il giudice: “L’indagine trova chiavi di lettura di quell’attentato, pur restando quel fatto esterno e al momento neanche disvelato”. Poi ricorda che Antoci “si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia” ma aggiunge subito dopo che “si può rilevare anche come in atti risulti che i mafiosi ridano, in sostanza, del procollo di legalità, e hanno dimostrato la capacità di aggirarlo con sapienza e raffinatezza”. Fatta la legge, trovato l’inganno.

La Procura della Repubblica di Messina
Il procuratore capo della Repubblica di Messina Maurizio De Lucia subito dopo la maxi retata difende e rilancia l’inchiesta del suo ufficio: “Abbiamo una documentatissima indagine che non ha portato ai responsabili, ma certo non ha mai messo in dubbio che l’attentato vi sia stato…”. Il procuratore generale Vincenzo Barbaro, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, va oltre: “In mancanza di ulteriori, specifici e diversi elementi di prova, la ricostruzione operata in sede giurisdizionale deve ritenersi, al momento, l’unica in grado di assumere la dignità di verità storica, dovendo essere confinate nell’alveo delle mere congetture non meritevoli di apprezzamento contrastanti e alternative ricostruzioni dei fatti”. Una verità, solo una verità senza colpevoli. Ma, da gennaio ad oggi, è accaduto molto altro intorno al caso Antoci.

Il verbale secretato e un’altra archiviazione
È il mese di febbraio 2020, qualche giorno prima del lockdown. E Annamaria Ricciardi, la compagna di Rino Todaro, uno dei due poliziotti del commissariato di Sant’Agata di Militello morti all’improvviso, chiede di parlare con Claudio Fava. Prima lo incontra in privato, poi in aula ripete quasi tutto. Ecco alcuni passaggi della sua audizione.

Dice che non è mai stata ascoltata dall’autorità giudiziaria, che il suo compagno temeva di avere microspie piazzate nell’auto, che era terrorizzato che gli potesse accadere qualcosa di brutto da un momento all’altro. Quando lo ricoverano per una leucemia fulminante le dice: “Mi vogliono ammazzare”. E chiede ad Annamaria di portargli in ospedale la pistola d’ordinanza. Secondo alcune indiscrezioni molto attendibili, in quei giorni sarebbe anche scomparso il computer di Todaro. La Ricciardi lo cerca e non lo trova, qualcuno dice che è stato portato via “da personale del commissariato di San’Agata”. Circostanza mai chiarita.

Il presidente della commissione Claudio Fava invia le conclusioni dell’inchiesta parlamentare – con il verbale secretato della Ricciardi – alla Procura della Repubblica di Messina. Dopo qualche mese la richiesta di archiviazione del sostituto procuratore Fabrizio Monaco (uno dei magistrati che aveva firmato anche la prima chiusura dell’inchiesta) e poi il decreto del gip Simona Finocchiaro.

Sedici pagine di “approfondimento” in tutto fra richiesta e decreto di archiviazione, con la gip che si lascia andare ad apprezzamenti francamente un po’ spinti per un giudice definendo le conclusioni della commissione “pure elucubrazioni mentali non corroborate da alcun dato probatorio”.

I magistrati messinesi praticamente non svolgono nuove indagini. Sulle dimensioni dei massi sulla strada, sulle regole d’ingaggio degli uomini della scorta di Antoci, sulle versioni inconciliabili fra il vicequestore Manganaro e il procuratore Cavallo e ancora fra Manganaro e il commissario Ceraolo. Si accontentano di quello che hanno. Di poco.

Claudio Fava e i nomi dei magistrati
Un’ultima scena dello scontro istituzionale in atto sul caso Antoci ha come palcoscenico Palazzo San Macuto: il 21 luglio scorso Claudio Fava viene ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia nazionale. E alcuni suoi colleghi provano a massacrarlo, in particolare quel pittoresco personaggio che è il senatore Mario Giarrusso e il senatore Franco Mirabelli del Pd che l’accusa “di non avere riconosciuto il valore delle sentenze” e “di denigrare la magistratura”. Fava è isolato.

Antoci ne chiede subito le dimissioni e minaccia anche querele per i testi ascoltati nella sua commissione. Dopo alcuni giorni dall’audizione a San Macuto il presidente Fava esce però allo scoperto: “Su questa vicenda abbiamo avuto conferma che non si è trattato di un atto di mafia da fonti giudiziarie assolutamente attendibili attraverso conferme dirette o indirette di magistrati… tutti quelli che avrebbero potuto offrire qualche elemento in più sono stati lasciati fuori dall’indagine… sono pronto per essere ascoltato”. Nessuno lo chiamerà mai. Chi sono quei magistrati? Nomi ne circolano. E se alcuni di quei nomi dovessero essere ufficialmente confermati, un pezzo dell’indagine finirebbe probabilmente in un distretto giudiziario diverso da quello di Messina.

Claudio Fava, politico, giornalista e scrittore. Nel 2018 diventa presidente della Commissione Antimafia siciliana
L’intera faccenda intorno ai misteri dell’attentato a Giuseppe Antoci da qualche settimana sembra comunque in sonno. Solo gli osservatori più maliziosi, in piena estate, rilanciano sulle loro bacheche facebook la notizia di un dibattitto a Gioia del Colle dove si sono ritrovati insieme Giuseppe Antoci, l’inviato delle “Iene” Gaetano Pecoraro (che aveva dedicato una lunga puntata all’agguato nel bosco prendendosi pure una querela “per aggressione” da parte di Fava) e il procuratore capo della Repubblica di Messina Maurizio De Lucia. Fra gli invitati – ma darà forfait all’ultimo momento – anche il giornalista Paolo Borrometi, che dalla commissione di Fava è stato denunciato per un articolo retrodatato sullo spinosissimo tema del racket dei rifiuti.

Nel frattempo, per avere evitato la carneficina, il vicequestore Manganaro viene premiato dal ministero dell’Interno – con un incomprensibile ritardo di quattro anni – e trasferito dal commissariato di Tarquinia a quello di Carrara. E nel frattempo un miserabile insulta in pizzeria una delle figlie di Antoci, che ormai non è più il presidente del Parco dei Nebrodi perché il nuovo governatore della Sicilia Nello Musumeci non gli ha confermato l’incarico.

La “centrale” delle intimidazioni
Non sappiamo come andrà a finire tutta questa storia su Antoci e intorno ad Antoci. Ci auguriamo che i magistrati trovino gli autori dell’attentato e magari grazie alla loro ostinazione anche le prove per inchiodare – se davvero sono stati loro – i boss della montagna. Forse uno sguardo investigativo più aperto avrebbe già potuto aiutarli a scoprire chi e perché, in una notte di primavera, voleva fare tanto rumore sulle montagne messinesi.

Qualcuno sostiene che l’imboscata possa rientrare in un “piano”, dentro quella strategia della tensione che in un recentissimo passato ha alternato attentati veri e falsi contro personaggi politici che erano alla corte di Crocetta e del senatore Lumia. In particolare nel 2016 – prima e dopo l’agguato contro Antoci – che è stato realmente devastante per lui – molti gli episodi indecifrabili. Con una “centrale” specializzata nel diffondere paura, una sorta di “coda” del sistema Montante, miscuglio di attività segrete illegali e affari sconci.

Sarà difficile che la Procura della Repubblica di Messina s’inoltri su questo fronte ma non si sa mai. Intanto, sentito l’odore e acquisita una modesta esperienza nella Sicilia dei “pezzi mancanti” nelle indagini e degli ignoti eccellenti, siamo costretti a chiudere questo articolo come l’avevamo iniziato. Vacche e spie pascolano allo stato brado fra i boschi e le cime più alte dei Nebrodi.
ATTILIO BOLZONI (TESTO)