Nicolò Azoti ucciso anche dal silenzio

di Valentina Nicole Savino con la collaborazione di Antonina Azoti
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Antonina Azoti per tutta la vita ha provato a rintracciare se stessa bambina, rimasta orfana di padre a soli quattro anni, tentando di fissarla in un’immagine da cui potesse attingere sempre per parlarle, consolarla e difenderla. Difenderla da quel mondo di adulti che incapace di fronteggiare il potere mafioso si rifugiava in un’omertà atta a colpevolizzare le vittime e a considerare i soprusi alla stregua di fatalità da sopportare rassegnatamente. Da quello Stato e da quella Chiesa allora entrambi in connivenza con il potere mafioso, e infine da quel silenzio fitto e pervasivo che Antonina ha avuto la forza di squarciare. Antonina Azoti ha oggi 77 anni e suo padre si chiamava Nicolò. Nicolò Azoti era un uomo eclettico e pieno di passioni, dalla musica alla caccia. Faceva l’ebanista ed era un militante: era segretario della Camera di Lavoro del paese di Baucina ed era un esponente del Partito Comunista, di cui rappresentava la sezione locale. Come altri sindacalisti aveva fondato anche una cooperativa, la cooperativa San Marco, e con loro lottava quotidianamente per la difesa dei diritti dei contadini. Nel 1944 il ministro dell’agricoltura Fausto Gullo aveva infatti emanato i cosiddetti “decreti Gullo” che prescrivevano l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate dei feudi ai contadini riuniti in cooperativa, assestando il primo duro colpo alla mafia che ancora spadroneggiava sulle terre.
“Ma se la realizzazione di questi decreti avrebbe rappresentato per i contadini la libertà e la dignità, attraverso il lavoro, per la mafia i decreti rappresentavano una minaccia, non tanto economica – perché le terre che sarebbero state assegnate erano le peggiori – ma un mettere in pericolo il loro potere sul territorio: cosa che la mafia non poteva assolutamente permettersi.” ci spiega Antonina. Decreti, tuttavia, che sarebbero stati destinati a rimanere silenti perché emessi in seno a una Sicilia martoriata dall’analfabetismo e dall’arretratezza, se i sindacalisti non avessero restituito alla carta una voce vivida, tangibile: “Il 70 percento della forza-lavoro in Sicilia era analfabeta e inconscia dei propri diritti, i braccianti e i contadini erano schiavi. E questi sindacalisti avevano deciso per il cambiamento, non volevano che noi figli vivessimo nelle stesse condizioni. I sindacalisti erano degli avanguardisti; in un popolo di analfabeti loro erano quelli che avevano la quinta elementare, che sapevano dare notizie sulle nuove leggi; erano quelli che potevano stendere una domanda sugli assegni familiari, erano quelli che potevano discutere i nuovi diritti. Già parlare di diritti, mettere i contadini al corrente dei decreti Gullo, era qualcosa di grande”. In una Sicilia dove braccianti e contadini lavoravano “da sole a sole”, per sedici ore, per portare a casa una pagnotta, i sindacalisti con la forza dei loro strumenti erano gli unici in grado di poterli aiutare. E nessuno di loro pensò, nemmeno per un momento, di sottrarsi all’imperativo morale: tennero la schiena dritta e lo sguardo fiero, e per questo vennero prima minacciati, e poi freddati brutalmente.
Le minacce arrivarono velocemente anche a Nicolò: “Stai attento a quello che fai, perché la pagherai”, aveva ringhiato un gabellotto. E a quella minaccia che Nicolò decise di ignorare, deliberatamente, nella coscienza dolorosa ma netta che la lotta valesse il sacrificio, seguì veloce anche l’assassinio. Mentre stava tornando a casa dalla Camera del Lavoro la notte del 21 dicembre del 1946, la sua voce si spense stroncata da cinque colpi di pistola. Con la sua si sarebbero spente tante altre voci unite nel coro della stessa lotta, spezzate anche per azione del banditismo (tristemente famosa fu la banda Giuliano), in accordo con la mafia, e la cui voce venne occultata in fretta e furia dalle istituzioni. Testimonia Antonina: “Cercavano di spacciare questi delitti per vendette private, per regolamenti di conti: falsità! L’intento della mafia, d’accordo con anche la Chiesa, d’accordo con i magistrati che non celebravano i processi e non condannavano nessuno, d’accordo con gli agrari, era quello di bloccare l’avanzata delle forze di sinistra di cui il movimento contadino era la massima espressione e di arrestare ogni tentativo di nascita della democrazia nella nostra Isola. I sindacalisti vennero ammazzati per questo”.
Dopo le elezioni del 1948, la strage immediatamente riconducibile all’osteggiamento del Movimento contadino cessò (eclatante tra le altre, quella di Portella della Ginestra dove vennero uccise undici persone innocenti tra uomini, donne e bambini che avevano l’unica colpa di star festeggiando il primo maggio), ma non così l’inquinamento della memoria da parte dalle istituzioni: “alla morte di papà seguì un silenzio impressionante; era un silenzio che in qualche maniera annullava le battaglie per le quali mio padre era stato ucciso distruggendone la memoria. Era esattamente quello che la mafia voleva: che non si parlasse più delle vittime, che l’esecuzione fosse percepita con terrore come un esempio, un esempio per dire “non fate le stesse cose, perché finirete alla stessa maniera.” Silenzio che Antonina è stata costretta a introiettare e a portare dentro di sé per lunghi dolorosi anni, mentre cercava di ricostruire la memoria del padre attraverso i racconti pudici della madre e degli altri familiari, scorgendone a tastoni le tracce: “io ascoltavo sempre con molto interesse i racconti, le testimonianze degli amici, e cercavo tra i suoi oggetti affondando le mani perché volevo sentire il suo odore; la mamma infatti aveva conservato tutto in un cassetto, la licenza di caccia, il congedo, il porto d’armi, una bussola, le fotografie, gli occhiali…io affondavo le mani alla ricerca del mio papà che non avevo conosciuto”. Fino a che non ha trovato dentro di sé la forza per lacerare questo silenzio assordante, per liberarsene.
Dopo la Strage di Capaci del 1992, infatti, il fenomeno mafioso cadde finalmente sotto i riflettori delle istituzioni, e iniziarono a fiorire nuove iniziative e associazioni volte a contrastare la mafia, come il Comitato dei Lenzuoli e Palermo Anno Uno. Ma quella che era la memoria delle stragi precedenti era ancora silente, coperta e occultata dalla risonanza di quei nomi di vittime più famose. Così Antonina guarda dentro di sé, si affaccia sul silenzio che la abita da anni e decide che è arrivato il momento di scuoterlo per uscirne: sale su una pedana e prende la parola. “Era sì come se si prendesse coscienza del fenomeno, ma era anche come se il fenomeno mafioso si fosse rivelato soltanto con la Strage di Capaci. E io sapevo che così non era. Così quel giorno prendo parola su una pedana e dico: ascoltate, la mafia non ha ucciso solo i morti che piangiamo oggi, la mafia uccide da sempre e ha ucciso anche un giovane di trentasette anni che aveva due figli, una moglie e una vita tutta da vivere. E sapete perché? Perché lottava per i diritti dei contadini. Il suo nome è Nicolò Azoti, io sono la figlia e non l’ho conosciuto. Ed è da lì che la mia memoria taciuta è diventata memoria rivendicata, è da lì che è iniziato il mio percorso di riscatto”.
Da quel coraggioso giorno la voce di Antonina Azoti non si è più fermata, tanto che è riuscita a ritrovare la bambina che cercava, a parlarle, e a scrivere un libro grazie al dialogo doloroso ma necessario tra la se stessa bambina e la se stessa adulta. “Dovevo necessariamente andare indietro nella mia vita, perciò ho incontrato quella bambina di soli quattro anni e mezzo viaggiando tra presente e passato. Con lei abbiamo pianto insieme e ci siamo raccontate senza riserve tutto quello che c’era da raccontarci. Ho risposto alle sue domande e mi sono conquistata la sua fiducia. Ci siamo strette, coccolate, consolate per quella dimensione di figlia che non abbiamo vissuto. E entrambe ne siamo uscite più forti, gratificate e acquietate”.
Oggi questa testimonianza preziosa la lascia nelle nostre mani, come esempio di forza e coraggio a cui rivolgerci sempre per combattere le nostre lotte: “Per me scrivere è stato anche dare un messaggio di speranza, perché chi è morto per il cambiamento trasmette speranza: questi sindacalisti sono morti per aprire una finestra sul futuro, e raccontarne la storia significa permettere loro di sopravvivere, di non perdersi nell’oblio. Ed è importante combattere le ingiustizie di oggi grazie ai sentimenti di verità e giustizia che ci suscitano queste storie”.

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