Il sacrificio di Lenin Mancuso

di Carmine Mancuso

2 MANCUSO

Questa non è solo una storia di mafia. Non è solo il racconto di un duplice omicidio, è anche la narrazione di un’amicizia spezzata in una guerra non dichiarata.
Siamo a Palermo, nel 1979, l’anno che apre la stagione dei delitti eccellenti. Sono le 8.30 di mercoledì 25 settembre. La Fiat 131 guidata da Lenin Mancuso si ferma in via Rutelli, attende il magistrato Cesare Terranova da poco tornato a Palermo dopo l’esperienza parlamentare a Roma e in procinto di diventare il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione. Terranova e Mancuso si conoscono da tempo, li lega una profonda amicizia oltre ad una collaborazione professionale che dura da anni. Mancuso, infatti, è il maresciallo della squadra mobile assegnato alla scorta del magistrato. Non solo, già nel 1971, quando Terranova era procuratore di Marsala, i due hanno condotto assieme le indagini sul “Mostro di Marsala”, un caso di cronaca nera finito su tutti i giornali per il rapimento e l’omicidio di tre bambine. Il tempo e le esperienze condivise hanno cementato il loro rapporto. Tra i due c’è fiducia reciproca, stima e una sintonia che li porta a provare la stessa paura in una Palermo che giorno dopo giorno sta diventando un teatro di guerra. A raccontarci il legame speciale tra Terranova e Mancuso è il figlio di quest’ultimo, Carmine, poliziotto e politico: “Il rapporto tra i due è nato negli anni ’60 quando Terranova stava istruendo il processo di Catanzaro e col passare degli anni il legame è diventato sempre più forte. C’era una sintonia professionale e personale tra loro. Terranova lo considerava un amico prima ancora che un fidato collaboratore. Erano sempre insieme, avevano formato un binomio tanto forte che quando qualcuno incontrava solo uno dei due chiedeva dove fosse l’altro”.
Dopo aver varcato la soglia del portone, Terranova sale sulla Fiat 131 e siede al posto del conducente. Vuole guidare per i pochi chilometri che li separano dal Tribunale. In realtà percorre poche centinaia di metri. Appena imbocca via De Amicis un commando di killer formato da Leoluca Bagarella, Giuseppe Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino e Vincenzo Puccio blocca l’auto e scarica addosso alla Fiat una trentina di colpi d’arma da fuoco. Mancuso getta il suo corpo come uno scudo sopra quello del magistrato ma la raffica di colpi esplosi con un fucile Winchester e diverse pistole non lasciano scampo a Terranova. Mancuso è ancora vivo quando viene trasportato in ospedale dove morirà poco dopo. La fotografa Letizia Battaglia, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’omicidio, immortala un’immagine che diventa un simbolo dell’efferatezza mafiosa: il corpo esanime del magistrato ancora in posizione di guida con il capo piegato in avanti leggermente sul fianco; gli abiti intrisi di sangue e il braccio destro allungato con la mano poggiata sul sedile del passeggero, all’interno dell’auto con tutti e quattro i finestrini frantumati dalla raffica di proiettili.
Il duplice omicidio di Terranova e Mancuso allunga l’elenco degli omicidi eccellenti palermitani del 1979, l’anno in cui i corleonesi alzano il livello di tensione. Una striscia di sangue che inizia la sera del 26 gennaio, quando il giornalista del Giornale di Sicilia Mario Francese cade sotto i colpi di una calibro 38 davanti alla sua abitazione. Poco più di un mese dopo i “viddani” mettono a segno il loro primo omicidio politico. La vittima è il segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, Michele Reina. E’ il definitivo salto di qualità di Riina e soci. In piena estate è Boris Giuliano, il capo della squadra Mobile, a pagare il suo conto, freddato sulle scale di casa da una raffica di colpi esplosi da Leoluca Bagarella. “E’ in quel momento che mio padre ha capito di essere in pericolo – racconta Carmine Mancuso – Dopo la morte di Boris Giuliano il suo atteggiamento è cambiato, ha iniziato ad avere paura, ha preso coscienza che lui e Terranova erano in pericolo”. Sono i giorni in cui a Palermo si comincia a parlare di “mattanza”, mentre il mondo inizia a conoscere i corleonesi.
Sul movente del duplice omicidio si incrociano interessi del vecchio e nuovo gotha di Corleone. Luciano Leggio, la Primula Rossa, non si è mai dimenticato delle indagini che, a partire dal 1958, Terranova ha condotto contro i corleonesi e in particolare contro di lui. Indagini che sono sfociate nel processo di Catanzaro con 114 mafiosi imputati. Le ottime entrature di Leggio negli uffici giudiziari gli consentono di conseguire l’assoluzione sua e di tutti gli imputati per insufficienza di prove. Ma Terranova fa ricorso e alla fine le accuse nei confronti del boss vengono riconosciute e nel 1974 è condannato all’ergastolo. Anche Riina, che di Leggio ormai ha preso il posto al vertice della fazione dei “viddani”, teme che un magistrato preparato, onesto e intransigente come Terranova – il primo che affronta le indagini di mafia con una visione unitaria del fenomeno, addentrandosi anche nel contesto politico ed economico – una volta a capo dell’ufficio istruzione possa creargli seri problemi e quindi decide di eliminarlo.
Il duplice movente viene accertato anche in sede giudiziaria. Prima grazie alle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, uno degli uomini di fiducia di Bernardo Brusca, che accusa Luciano Leggio di essere il mandante e Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia e Leoluca Bagarella gli esecutori materiali. Tutti condannati. Successivamente, nel 1997, quando il procedimento viene riaperto contro altri sette mafiosi accusati di aver dato la loro approvazione all’eliminazione di Terranova: Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Michele Greco Francesco Madonia, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina. Anche per la cupola arriva la sentenza di condanna. “Per trovare il movente di questo duplice omicidio – spiega Carmine Mancuso con tono fermo – bisogna considerare anche altri due delitti avvenuti prima e dopo: quello di Boris Giuliano del luglio ’79 e quello di Gaetano Costa di un anno più tardi. Per diversi motivi Giuliano, Terranova e Costa rappresentavano un pericolo perché erano stati nominati in ruoli strategici nella lotta alla mafia e non erano sotto il controllo del potentato politico-mafioso siciliano di quel momento. Questo ha creato una forte preoccupazione non solo in Cosa nostra ma anche in tutti i centri di potere in affari con la mafia. Non è un caso, infatti, che siano stati eliminati uno dopo l’altro. Inoltre – continua Mancuso – non dimentichiamo il contesto politico di quel momento in Sicilia, con Piersanti Mattarella che, sulla scia del Compromesso Storico, per la prima volta apre le porte della politica regionale alla Sinistra, mettendo a repentaglio equilibri economici e politici consolidati. Anche lui pagherà con la vita”.
Quando Terranova e Mancuso vengono uccisi, a Palermo e in Sicilia ci sono ancora politici, cardinali e cittadini che sostengono che la mafia non esista. E’ un muro di omertà e di paura che si alza dopo ogni delitto, che trasuda di vigliaccheria e che nasconde dietro a una narrazione di comodo una città che sta lentamente scivolando negli inferi di una violenza mai vista prima. Una distorsione della realtà che porta a ignorare i morti, a non volersi legare in alcun modo a loro e nemmeno alla loro memoria. E’ ciò che accade anche qualche mese dopo il duplice omicidio di Terranova e Mancuso, quando i condomini del palazzo di fronte al quale è avvenuta la strage si rifiutano di consentire l’apposizione di una targa in loro memoria “Gli abitanti si erano opposti perché, a loro dire, non volevano imbrattare i muri dell’edificio – spiega Carmine Mancuso con un’espressione del volto ancora di incredulità – Quando ho appreso la notizia ho provato un profondo sgomento, anche in virtù del fatto che quel palazzo si trovava in un quartiere borghese e una reazione così al massimo me la sarei potuta aspettare in una borgata malfamata. Inoltre – ricorda Mancuso ripercorrendo con la memoria le tappe di quella assurda vicenda – ero venuto a conoscenza che in quel palazzo, tra le persone che si erano opposte all’apposizione della lapide, c’era anche un magistrato. Per fortuna anni dopo la lapide fu apposta sulle mura di una scuola media poco distante, ma quella coltellata morale inferta da alcuni cittadini palermitani non si è ancora del tutto rimarginata”.
A restituire definitivamente la memoria a Lenin Mancuso e Cesare Terranova è il Comune di Palermo, che qualche anno dopo dedica loro due vie nel quartiere Boccadifalco. Sono vie adiacenti, una scelta non casuale. Si tratta di un ultimo accorato gesto per rendere indissolubile il legame tra due uomini che hanno combattuto Cosa nostra fianco a fianco fino all’ultimo.

Fonte mafie blog autore repubblica