L’appello del Borsellino bis

Come si è già accennato nel capitolo sui processi, per una corretta comprensione di questa tormentata e sconcertante vicenda processuale è utile infine soffermare l’attenzione sulla sentenza di appello del processo cosiddetto Borsellino bis, pronunciata il 18 marzo 2002, precisamente quella poi travolta dalla revisione.

In precedenza, ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’appello nel giudizio Borsellino1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino.

Sentenze che, giova precisare, sebbene non utilizzabili nell’ambito del processo di secondo grado del Borsellino bis, costituivano, comunque, una sorte di significativo campanello d’allarme perché la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta valutasse con estrema cautela e prudenza l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello Scarantino, dell’Andriotta e del Candura.

Con la sentenza della Corte di Cassazione del 19 gennaio 2001 (che confermava la sentenza d’appello del Borsellino1 e ne sanciva l’irrevocabilità, suggellando come inattendibili le propalazioni accusatorie di Scarantino) l’allarme si trasformava in vero e proprio dato processuale utilizzabile, a norma dell’art. 238- bis c.p.p., nell’appello del Borsellino bis.

La sentenza del 18 marzo 2002, tuttavia, ha restituito piena credibilità all’intero racconto del picciotto della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni, anche in quelle parti del racconto che potevano apparire perfino inverosimili (per esempio la descrizione con particolari della riunione della cupola di Cosa Nostra presso la villa di Calascibetta).

Resta allora mestamente da interrogarsi, se la Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta nel processo Borsellino bis sia incorsa, suo malgrado, in un clamoroso errore giudiziario, ovvero sia stata fuorviata da una sorta di annebbiamento processuale.

In entrambi i casi, ha finito, inconsapevolmente, per stendere un velo e, sostanzialmente, sanare tutte le contraddizioni procedimentali, le inerzie e le omissioni investigative, le indagine deviate e soprattutto le eventuali violazioni di molte regole processuali, la più grave delle quali – come abbiamo visto – quella concernente l’omesso tempestivo deposito dei confronti tra lo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo in data 13 gennaio 1995. Non può sfuggire la circostanza che l’esito di questi confronti, rivelatosi radicalmente devastante per Scarantino, avrebbe determinato il crollo ed il dissolvimento della credibilità del collaboratore, facendo così venir meno il perno accusatorio.

Non aver portato a conoscenza dei difensori l’esito dei confronti ha impedito agli stessi di utilizzare i relativi verbali per chiedere nel dibattimento in corso di primo grado del Borsellino1 il confronto tra i quattro collaboratori che smentivano la credibilità della principale fonte d’accusa. Inoltre, il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dello scarsissimo spessore criminale e dell’inesistente affidabilità di Vincenzo Scarantino. E l’incredibile ed inquietante iter processuale della strage di via D’Amelio avrebbe avuto un esito radicalmente diverso per gli imputati condannati ingiustamente sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e solo successivamente assolti con formula piena in sede di giudizio di revisione.

Fonte mafie blog autore repubblica