Maria Vallone non si arrese mai

9 maria valloneChi non si rassegnò mai alla morte di Giuseppe Rumore fu la giovane moglie Maria Vallone, che a 28 anni rimase vedova con una figlia di appena 4 anni. Questa donna coraggiosa ha smentito ancora una volta il cliché della donna siciliana familiare di vittima di mafia, che si chiude in casa, piegata dal dolore.
Maria reagì molto energicamente all’assassinio del suo Giuseppe. Denunciò gli assassini, tenne comizi a Prizzi e nelle piazze della Sicilia, in particolare a Ragusa e a Vittoria, parlò nelle leghe socialiste. Protestò pubblicamente con gli inquirenti, accusati di non indagare adeguatamente. Disse: «Non mi hanno interrogato, quando io stessa ho parlato tutta la notte, e domando come mai non vogliono sapere nulla? Dopo 4 o 5 giorni di lutto venne in casa il capitano Menichetti, pensa di farmi una visita, a informarsi di ciò che io avevo detto la notte…».
La donna, infatti, aveva capito benissimo che non c’era nessuna volontà di far luce sull’assassinio del marito. Ma non volle arrendersi. Scrisse a mano una lunga lettera dove denunciò con dovizia di particolari il suo dramma, le nefandezze della mafia di Prizzi e le sue complicità con certa politica. Ecco il testo:
“Compagni non dimenticate che i signoroni che vogliono il voto lo hanno comprato non solo con la moneta ma anche con la polvere e con il sangue, avendomi assassinato il mio sposo e lasciandomi in mezzo a mille sciarre. Lor signori credevano che io mi avessi scoraggiato di tutto il suo buon operato, essendo sicuri che io dava qualche rimprovero al mio sposo perché lui era troppo preso di queste elezioni. Io certo volevo strapparlo di questa mano assassina, perché mentre io finceva di essere contraria, fu un problema sbagliato che i loro signori si hanno fatto, io nel mentre mi assicuravo che chi erano gli nemici di mio sposo, tanto che i loro signori della “onesta” borghesia, quando mi vedevano per le strade, allora essi strillavano a parlare e farmi sentire: ci sono i socialisti che vogliono fare il socialismo in casa altrui, ed io non li dava retta, ma andavo a trovare il mio sposo e le raccomandava tutto.
E lui mi confortava di non li ascoltare. Ma ora che non ho a chi raccontarlo non mi scoraggio, sono superba orgogliosa di avere perduto il mio tutto che sarà indimenticabile per me e per tutti. Anche per i sicari stessi che lo hanno assassinato. Diranno: quanto siamo stati miseri a levare quest’uomo senza nessuna ragione, solo per l’ideale che lui aveva. E noi che abbiamo l’idea di non lavorare, chissà come ci finirà. Già, lor signori ci hanno dato quella miseria di denaro e ora non li abbiamo più, allora -s’incoraggiano – e ne facciamo un altro.
Ma ora rispondo io: non lo vedete che il sangue innocente di Rumore grida vendetta, evviva la rivoluzione, e tu moglie mia non temere, svegliati e non piangere più nel bugigattolo della tua casa, smuoviti a fare ciò che è il tuo dovere verso di me, a fare ciò che la tua coscienza ti detta, racconta ai tuoi compagni che per il voto quanto sono capaci di fare. Ed io: che cosa devo raccontare? Vado a dormire. E lui un’altra volta mi sveglia: parla, non impaurirti che il mio spirito é sempre con te.
Io, svegliata da questo sogno, racconto ai compagni perché hanno prestato servizio a una lunga guerra e non ci sono stati che la borghesia e l’ultima parola che io sentii pronunciare dalla dolce bocca del mio Rumore la sera che lo hanno assassinato. E su di questo dico che ha di un dato tempo che i borghesi lavorano per il voto e poco c’è interessato se il popolo in tempo di guerra ha provato la fame e anche la sete.
Quando esisteva il sindaco Valenza, che cercava di interessarsi dei poveri, allora dissero: che facciamo l’uccidiamo? Ma siccome ci teneva una numerosa famiglia, tutti parenti fra di loro, e nella sua parentela c’erano delle persone di legge che potevano scoprire l’omicidio e farlo costare caro, dissero fra di loro: lo facciamo morire di crepacuore, ecco come quando lui mette qualche ordine noi e non glielo facciamo eseguire.
Si principia dello zucchero, che a me aveva affidato di rivenderlo, solo le mogli dei prigionieri c’era la tessera di un chilo al mese e poi venivano i signori con un sacchetto e ne volevano 8 e 10 chili. Io per le prime volte glielo davo, poi andavo dal sindaco a raccontarlo e lui mi rimproverava: “primo dovranno venire da me per la tessera”. Essi tornavano un’altra volta, noi abbiamo parlato con il sindaco, del resto Nenè è parente nostro e ci farà la tessera anche per 100 chili e nel mentre lo zucchero se lo dividevano fra loro e lo mandavano di qua e di la. E i poveri non dovevano averne perché avevano i legumi per mangiare, senza prendere rivoltella contro gli onorevoli. Poi veniva il petrolio.
Prima andavano i feudatari perché avevano le società di sette cappotto e ne volevano sei latte per la massaria, altre quattro per le sue famiglie, che sono figlie di Dio, mentre spundava un altro che era amico della maffia, non poteva dispiacersi, ne volle altre 10 latte. E il sindaco non aveva tempo di vedere a quanto usciva il prezzo, poi se ne andava al municipio e trovava un affollamento di popolo e ne concedeva le tessere secondo le condizione di famiglia. Questi si recavano dal rivenditore e già il petrolio era esaurito, che lo avevano uscito di parte nascoste e anche di notte. La bassa plebe ci toccava a tornare con le bottiglie vuote e andare a letto al buio. Se qualcuno andava da qualche consigliere della borghesia gli rispondeva: “ditegli al sindaco che con questa tessera se ne serve quando va alla latrina”, e il povero Sindaco taceva inchiottiva pinnnuli che la sua gola non poteva ricevere, e raccontava tutto a Rumore e tutti e due tacevano che aspettavano miglior tempo. Ma sono scomparsi e anno lasciato i compagni che compattono con la speranza di godere i suoi figli.
Io non o più cose da dire perché sono donna, ma mi limito a dirvi che la sedia che occupava mio sposo vado dalle leghe per occuparla io. Ora voglio dirvi che al sindaco Valenza giorni prima della sua malattia ci bruciarono una casa in campagna, che fu la cagione della sua morte, della rabbia che lui non meritava simili tratti. Di questa vittima sono contenti perché i popoli non avevano più una persona così degnitosa di essere ascoltata dai popoli.
Poi aveva rimasto il suo discepolo Rumore e siccome si sono fatti persuasi che stava per superare la sua indelligenza, ne credettero il bisognio di farlo assassinare due mesi fa con la certezza di farsi l’elezioni allegri e condendi come la vavalucia nel fuoco. Hanno ragione perché la giustizia non è andata mai con le vittime cadute, specialmente quando cade un socialista; se era un “cappello” allora si che i socialista fossero tutti mandati all’isola, sinanche le moglie, e appundo per questo la maffia va avanti, perché prima di uccidere il mio sposo cci sono stati delle persone che anno saputo qualche cosa e siccome tenevano panza della mafia fidata, non anno potuto salvare quella sera quest’uomo, che spero vendicarmi solo con la rivoluzione, perché non ce giustizia e dio non presto fiducia a nessuno, perché sono tutti fra di loro, anche il governo tiene paura di questa mafia e con gli omicidi alla scoperta non può fare il suo proprio dovere, tanto che tengono le carceri pieni di nocendi senza commettere nessuno reato, senza avere fatto male a nessuno, perora cci sta mio zio Giuseppe Marò, un vecchio socialista e martire di questo ideale, ci anno rubato dei vetture mentre i suoi tre figli prestavano servizio alla famosa guerra, poi per un nonnulla lo anno inzurtato nei suoi propri fondi e per domandarne i propri ragioni fu messo in carceri, e fu tutta opera di partito, nel mentre lui stava in carcere svenne un omicidio mancato nella stessa contrada, e ne diedero la carica a lui e lo dichiararono come mandatario, e per questo lo scesero nel carcere a Palermo, a scondare quello che a lui non ne compete e se non finiscono queste elezioni non si aprono le porte dell’Ucciardone di Palermo.
Perché certi signori della borghesia anno scancherato bene la penna sempre a carico suo, facendogli capire alla famiglia che si interessano di farlo uscire, mentre serrano le porte per non poter scappare, quando si farà la cauza di questo lo condanneranno sicuro, e per lomicidio di questo Socialista Rumore non piangono ne i sicari stessi ne i mandatari che furono alla scoperta la stessa notte, non mi anno interrogato, quando io stessa o parlato tutta la notte, e domando come mai non vogliono sapere nulla, dopo 4 o 5 giorni di lutti venne in casa il capitano Minichetti pensa di farmi una visita, a informarsi di ciò che io avevo detto la notte, questo signore certo non era sicuro di quel mormorio che sendiva per le strade e dové il processo che lui a costruito con quel pezzo di carta che teneva in mano e una matita inutilmende, poteva far da meno dopo tandi giorni recarsi in casa mia, cosa importa a me che lo anno mandato via, ma nulla ancora vedo spundare di ciò che il mio cuore desidera e ora mi sendo una voce allorecchio cosa vuoi con questo parlare dai fiato al vendo senza che tuo sposo può più tornare, io non o nulla da sperare da nessuno, solo mi resta a dirvi che quando vi noia il mio dire venite un’altra volta nella strata che certo sarà chiamata Giuseppe Rumore e vi vendicherete del mio parlare tando ed io sarò pronda a sfidarmi con voi perché io per mio tutto poteva aspettare in questo momendo e non sendire alla mia porta due colpi così feroci e lasciarmi vedova così presto e non darmi tempo di domandarci lultimo adio ne io ne la sua svendurata figlia di 4 anni che lui amava tando, fra di voi verrà un fulmine mandato da Dio che vi strapperanno dalle vostre famiglie se ne avete”.
Maria Vallone vedova Rumore
Novembre 1919
Nonostante fosse stata colpita da un altro grave lutto (il 16 luglio 1920 le era morta la piccola Caterina), continuò la sua attività di agitatrice socialista, raccontò il sacrificio del suo Giuseppe a tutta la Sicilia, denunciò senza paura la mafia e i suoi legami col potere politico. «Quando vi noia il mio dire – disse ai mafiosi assassini del marito – venite un’altra volta nella strata, che certo sarà chiamata Giuseppe Rumore, e vi vendicherete del mio parlare tanto ed io sarò pronta a sfidarmi con voi…».
Quella fra Maria Vallone e Giuseppe Rumore fu una grande storia d’amore, molto contrastata dalla madre di lei, Rosa Marò. Maria era stata costretta dalla sua famiglia a sposarsi giovanissima con un contadino, che morì per un incidente (fu colpito dal calcio di un mulo) una settimana dopo il matrimonio. Fu allora che giurò a sua madre che si sarebbe risposata, ma solo per amore. Maria conobbe Giuseppe e se ne innamorò perdutamente, ricambiato con la stessa intensità. «Non lo dico con le labbra, ma dal fondo del cuore, che sono stato e sarò sempre sincero, e con prove lo ho mostrato; della gente maligna ed infame me ne infischio», le scrisse Giuseppe in una appassionata e tenera lettera privata alla sua amata.
Ma la madre di lei si oppose al matrimonio, non considerando non buon partito per la figlia un sindacalista nel mirino della mafia. Racconta il nipote Michelangelo Salamone: «Per coronare il suo sogno, Maria aveva dovuto sopportare le ire della madre, che il giorno del matrimonio non si presentò in chiesa e fece suonare a lutto le campane del paese». Quando mamma Rosa rimase vedova e decise di emigrare in America con gli altri otto figli, in cerca di futuro, Maria rimase a Prizzi per amore del suo Giuseppe, insieme alla sorella Barbara.
Con Rumore Maria Vallone ebbe 7 figli, che però morivano tutti appena nati. Solo Caterina visse 5 anni. Qualche anno dopo l’assassinio del marito, anche lei avrebbe voluto andare negli Stati Uniti. Nel mentre incontrò Filippo Orlando, che volle sposarla e le promise l’America. Dopo le nozze, però, nacquero tanti figli e il sogno americano sfumò. Maria Vallone è morta a Palermo il 25 febbraio 1985, all’età di 94 anni. A metà degli anni ’70, venne intervistata dai giovani di “Radio Prizzi Alternativa”. Recentemente è stato ritrovato e restaurato il file audio con l’emozionante intervista, fatta ascoltare agli studenti dell’ITG di Prizzi in occasione del centenario dell’assassinio di Rumore. «Vennero a casa mia – raccontò Maria Vallone – quelli del partito di don Sisì Gristina (capomafia di Prizzi – nda). “Basta chi ti zitti, si vo’ terri, si vo’ grana…”, mi dissero. Io non ne ho voluti. Ci rissi ca iu a me maritu unu canciu, mortu stessu unu canciu pi dinari».
Il 2 marzo 2019, la Città di Palermo ha dedicato una strada a Maria Vallone, nell’ambito del “progetto memoria” promosso dalla Camera del lavoro di Palermo. Insieme alle autorità, erano presenti l’unica figlia ancora in vita, Rosa Orlando di 85 anni, e il nipote Michelangelo Salamone.

 

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