Scompare il computer con le indagini su Matteo Messina Denaro ma il reato non c’è

Quella del finanziere Calogero Pulici, della scomparsa del suo computer e delle pendrive contenenti anni di indagini su Matteo Messina Denaro, portati via da mani ignote dall’ufficio dell’allora pm della Dda Teresa Principato, sembra la storia uno di quei serial televisivi ricchi di colpi di scena destinati a durare decenni.

Pulici, da anni fidato collaboratore della Principato, venne allontanato verbalmente dalla Procura di Palermo nell’estate 2015, a seguito di una querela per molestie (finita archiviata) rimanendo coinvolto in più processi (almeno sette terminati con assoluzione) tra i quali uno per aver consegnato nell’ottobre 2015 all’allora capo della Procura di Trapani, Marcello Viola, una pendrive contenente i verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia coperti da segreto investigativo.

Anche i due magistrati, sia la Principato che Viola, vennero indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio, inizialmente con l’aggravante dell’articolo 7, per aver agevolato la mafia, ostacolando le indagini della Dda di Palermo.

Un lecito scambio di informazioni tra due magistrati trasformato in un’accusa che portò soltanto ad archiviazioni e assoluzioni.

L’11 dicembre 2015, Pulici,  recatosi nella stanza della dottoressa Principato per ritirare i suoi effetti personali faceva la scoperta, in presenza di testimoni, che era “scomparso” il suo pc e  due pendrive che contenevano tutti i file delle attività di indagini svolte dall’ufficio e coperte da segreto istruttorio. Pulici, lo stesso giorno, informava il suo comando provinciale, nella persona del suo comandante, di ciò che era successo.

Un fatto avvenuto in quella che avrebbe dovuto essere una delle stanze più blindate della Procura di Palermo, visto che la Principato conduceva indagini sulla latitanza di Matteo Messina Denaro.

A distanza di oltre quattro anni dai fatti, il finanziere, non avendo avuto più notizie in merito a quanto gli era stato sottratto, contattava a mezzo pec il Corpo della Guardia di Finanza per conoscere l’esito di eventuali attività d’indagine o dell’eventuale archiviazione di quanto denunciato, ottenendo in risposta che lo stesso 11 dicembre 2015, giorno in cui Pulici aveva denunciato la vicenda al suo Comando, gli atti erano stati trasmessi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

Il finanziere presentava dunque una nuova richiesta, mentre la vicenda, tornata di attualità grazie a più articoli stampa, induceva, nel mese di ottobre, Giuseppe Ciminnisi, responsabile dei famigliari delle vittime di mafia dell’associazione  “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, a scrivere una lettera aperta al Procuratore di Palermo dottor Francesco Lo Voi, ricordando come a distanza di cinque anni, non fosse dato sapere chi e perché si impadronì di quegli atti d’indagine che, a seguito di quanto emerso a Caltanissetta nel corso del processo nei confronti di Matteo Messina Denaro per essere stato tra i mandanti delle stragi del ’92, potrebbero oggi avere particolare rilevanza, visto che il processo ha aperto a nuove ipotesi investigative sulla genesi delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, sui depistaggi avvenuti prima e dopo gli attentati e sui possibili mandanti esterni.

Il mese scorso, finalmente Pulici veniva informato in merito all’esito della sua denuncia. Il pm Francesca Dessì, rispondendo alle richieste del legale del finanziere, ha comunicato che per la relazione dallo stesso presentata era stata disposta la trasmissione in archivio non essendo emersa alcuna ipotesi di reato. I

Per la Procura di Palermo, dunque, la scomparsa dall’ufficio di un magistrato di un computer e delle pendrive contenenti atti d’indagine coperti da segreto, non rappresenta reato. Neppure quello di semplice furto.

La notizia dell’archiviazione a mod 45 (non essendo emersa alcuna ipotesi di reato) ha suscitato non poche reazioni, tra le quali quella dell’ex pm Antonio Ingroia, ripresa sulla pagina Facebook di Sigfrido Ranucci, giornalista di Report, di recente al centro di polemiche a seguito della puntata sulla cosiddetta Trattativa mafia-Stato:

“Quest’archiviazione amministrativa, ‘senza alcuna ipotesi di reato’ mi lascia stupito. È estremamente anomalo che un fatto così delicato e certamente costituente reato, quantomeno come furto, sia stato iscritto tra quelli privi di reato con la conseguenza che è stato archiviato in via amministrativa, senza essere sottoposto al vaglio del gip, che avrebbe potuto rigettare la richiesta, disporre nuove indagini o una trasmissione degli atti a Caltanissetta per competenza funzionale, come è accaduto diverse volte quando ero in servizio a Palermo. Ritengo che tale episodio sia facilmente ricollegabile alla Trattativa e singolari entrature al palazzo di giustizia, perchè è preoccupante pensare che qualcuno sia entrato nella stanza di quel procuratore aggiunto, che coordinava la caccia al latitante, e abbia prelevato questi supporti sensibili”.

Stupirebbe, non poco, legare la scomparsa del computer di Pulici alla Trattativa, se a dirlo non fosse Ingroia che è tra i padri del procedimento in antitesi all’inchiesta mafia-appalti, indicata ormai da molti quali la vera ragione delle stragi del ’92; ma come non prendere atto di come inverosimile appaia l’archiviazione della relazione di Pulici perché non emergerebbero ipotesi di reato.

A seguito delle affermazioni di Ingroia, è sufficiente leggere i commenti al post di Ranucci, per rendersi conto di come l’archiviazione del furto del computer abbia suscitato non poco clamore, inducendo alcune persone a ipotizzare collusioni a ogni livello.

A prescindere dalle ipotesi, più o meno fantasiose, resta il fatto che in Italia l’unico posto dove si può rubare indisturbati – e magari sperare che non venga neppure ritenuto un reato – pare siano gli uffici dei tribunali.

C’è da sperare che non lo scoprano i ladri…

Gian J. Morici