Attendere concorsi che non si svolgono per completare la pianta organica (e nel frattempo, come ci è stato detto, riempirla con funzionari “comandati”, spesso solo per poter ottenere un trasferimento verso città più gradite) richiama precise responsabilità di governo (di tutti i governi!). Assumere la lotta alle mafie come priorità ma poi continuare a destinare all’Agenzia, che è il motore propulsivo di questa legge ed uno strumento fondamentale nella strategia di valorizzazione degli assets confiscati, pochi uomini, pochi mezzi, poche professionalità e poca attenzione è una scelta politica miope e incomprensibile. Ritenere che la guida dell’Agenzia debba essere sempre e solo demandata a un prefetto, rinunziando alla possibilità di trovare profili professionali più ritagliati sulle urgenze e gli obiettivi che la legge affida all’ANBSC, è una prassi politica inadeguata alle sfide in campo e peraltro contrasta con lo spirito della riforma del 2017 che ha innovato sul punto prevedendo la possibilità di nominare il Direttore anche tra magistrati o dirigenti dell’Agenzia del demanio. È miope e incomprensibile non aver lavorato, in questi anni, per costruire un autentico circuito della legalità, che è cosa assai diversi dai “protocolli” dell’era Montante. Quel circuito oggi vorrebbe dire sinergia di mezzi, progetti e finanziamenti fra esperienze aziendali e beni che sono figli dello stesso destino (liberati dai padroni mafiosi). Ed invece l’esperienza ci racconta di storie isolate,
somma di solitudini, lacci e lacciuoli burocratici che strangolano beni immobili ed aziende. È grave che non si siano trovate prassi e regole per far sì che attorno al destino di questi beni ci sia uno scatto di responsabilità da parte dei molti stakeholders chiamati a far la propria parte. Un esempio per tutti, ai limiti dell’indecenza: se ad un’azienda confiscata – che vuole tornare e restare sul mercato con le proprie gambe, accollandosi il costo della ritrovata legalità – il sistema bancario dà un rating di affidabilità bassissimo (mentre era generoso e compiacente quando quell’azienda apparteneva a un mafioso), il problema non sono le norme di legge ma lo spirito del sistema Paese che fatica a considerare il recupero dei beni tolti alle mafie come una sfida di civiltà di tutti. È umiliante che i lavoratori di aziende confiscate, quando decidono di rischiare in proprio per unirsi in cooperativa e chiedere in comodato quel bene, siano costretti ad attendere anni – spesso incomprensibilmente – affinché quel percorso trovi sbocco. È inconcepibile che ville e casali confiscati definitivamente da lustri siano ancora nella disponibilità dei mafiosi ai quali erano stati tolti, in un imbarazzante rimpallo di responsabilità fra Agenzia, amministratori giudiziari, forze dell’ordine, enti locali e prefetture per attivare le procedure di legge al fine di sgomberare quei beni. Abbiamo raccolto, nella denunzia di alcune volenterose associazioni, la storia di palazzine ed appartamenti confiscati e mai liberati da dieci o quindici anni! È desolante vedere aziende chiudere, terreni agricoli marcire, edifici ridursi in
macerie per un difetto di progetti, risorse, buon senso. Ogni bene confiscato e perduto è una vittoria per la mafia. Ma dircelo, o raccontarlo nei convegni, non è più sufficiente. Ci auguriamo che il lavoro prodotto da questa Commissione e l’ascolto che è stato dedicato – per centinaia di ore di audizione – a tutti coloro che avevano un’esperienza da portare, un suggerimento da offrire, una buona pratica da condividere, possa essere uno stimolo per darsi da fare. Con norme più efficaci, se occorre; ma soprattutto con scelte e prassi più responsabili.