Su Rai Uno per Savatteri è sempre la solita fiction, ‘Makari’ grazie a Montante, tra mafia ed antimafia

Le fiction televisive di questi giorni, dal titolo Makari, mandate in onda da RAI UNO, tratte da quattro racconti del figlio di mia cugina, Gaetano Savatteri, sono la continuazione delle solite sdolcinate messinscena, delle solite menate pseudoculturali  che conoscevamo già. La RAI, per fare audience, deve sempre e comunque dare spazio a dei personaggi che fanno parte di un accreditato sistema di potere. Il Savatteri infatti aveva dato il meglio di sé pubblicando, nel 2006, un libro panegirico dal titolo ‘La volata di Calò’, che consacrava le gesta imprenditoriali, totalmente inventate, di Antonello Montante, uno dei leader di Confindustria, pupillo di Emma Marcegaglia, attualmente condannato a 14 ani di reclusione per associazione a delinquere, corruzione e spionaggio. Si continua a finanziare, con il canone della RAI, e con ingenti finanziamenti pubblici, dei dubbi format televisivi, che pur essendo di enorme successo, sono la consacrazione del solito sistema di potere perverso. Se volete conoscere chi è il Savatteri, vi invito a leggere cosa ho scritto sul suo conto nel mio libro ‘il sistema Montante’, di cui riporto qualche piccolo stralcio…

Da giornalisti ad intellettuali

Solo nel 2009, per non rischiare ed a fari spenti, quando le lupare e le gole profonde avevano già dato, parafrasando maldestramente l’opera prima di Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra , spunta in libreria  I ragazzi di Regalpetra .

E fu così che il Savatteri ha inteso tributare l’onore delle armi ai suoi amici di un tempo, ossia i componenti delle due bande di mafiosi in lotta tra di loro, ai quali egli concede la ribalta mediatico-giudiziaria.

E’ come se a Jack lo squartatore gli dessimo la possibilità di riscrivere il Vangelo.

I ventriloqui del sistema di potere che aveva partorito le stragi di Stato e gli omicidi eccellenti, prima da cronisti e poi nella dubbia qualità di sedicenti esperti di mafia, hanno sempre offerto i loro servigi a chi li aveva raccomandati per entrare nelle redazioni di alcune prestigiose testate giornalistiche. Sono sempre stati  la cassa di risonanza dei mafiosi.

Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che dei delinquenti comuni vengono spacciati per mafiosi, come il già citato Vincenzo Scarantino, costretto ad autoaccusarsi ingiustamente di avere piazzato l’auto bomba che servì a fare saltare in aria, nel luglio del 1992, il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Errori del genere sono stati possibili grazie a degli strumentali depistaggi di qualche magistrato, con l’apporto degli immancabili 007 dei servizi segreti deviati e con il ‘concorso esterno’ dei soliti giornalisti velinari di riferimento.

E’ così che puntualmente, all’occorrenza, delle fake news ben confezionate diventano verità giudiziarie, con tanto di condanne e di pene all’ergastolo.

Approfittare di alcune particolari frequentazioni in ambiti istituzionali, serve a  far sproloquiare anche gli amici d’infanzia che, nel frattempo, sono diventati mafiosi, e che poi, folgorati sulla via di Damasco, ci confondono le idee quando, per vocazione, imboccano la via di un comodo pentimento.

Basta recitare la parte del finto tonto, del solito inconsapevole, trasognato, svagato ed ingenuo cronista ed impreziosire anche i racconti di fatti strazianti e truculenti, con una punta di melliflua ipocrisia per farci bere, tutta d’un fiato, la storiella bella ed infiocchettata dei boss racalmutesi combattuti tra delitto e castigo. Col soccorso della nostra cristiana pietas, l’umana commozione ha il sopravvento ed  affiora una certa bontà d’animo e di affetti. Siamo stati spinti così dal Savatteri,  ad instaurare persino una corrispondenza di amorosi sensi  con  “una squadretta di assassini di Cosa Nostra, pronta a intervenire al bisogno, quando c’è da ammazzare qualcuno. Con una sola avvertenza: non si uccide di venerdì, perché  è giorno di dolore”.

Ed allora meglio uccidere di sabato!

Infatti i  compagni di gioco di  Savatteri, quando scoppiò la guerra di mafia, agli inizi degli anni Novanta, uccidevano i  componenti della fazione avversa, denominata Stiddra,  ogni sabato,  giorno in cui era stato freddato il loro anziano capomafia, al quale erano tanto affezionati. Ogni fine settimana era puntualmente scandito dal loro macabro rituale di morte, la cui costante era la vendetta ed il sacrificio di almeno una vita umana, da offrire in memoria del loro padrino. 

E’ strano che chi per decenni aveva fatto il cronista di mafia presso Il Giornale di Sicilia,  non si sia mai accorto che tutti quei suoi vecchi amici erano mafiosi.

Solo a partire dal 2009 mette nero su bianco ciò che era stato peraltro scoperto tre anni prima,  quando i fratelli Di Gati, per lo meno suoi vecchi conoscenti, intraprendono la carriera di pentiti.

Attenzione, stiamo parlando della guerra di mafia tra due  cosche che solo a Racalmuto, in meno di 2 anni, hanno mietuto più di 20 morti ammazzati.

E dire che trent’anni prima  il Savatteri giocava a calcio assieme al capomafia Maurizio Di Gati, arrestato nel 2006 e che era il capitano proprio di quella che lui definisce una ‘squadretta di assassini’.

‘Anche lui è nato lì. Anche lui è cresciuto ascoltando le stesse canzoni, rincorrendo lo stesso pallone, frequentando gli stessi bar. Ma lui non ha mai sparato’.

Per la verità qualche fesseria, nel corso della sua sdolcinata narrazione sulla mafia racalmutese, gliela abbiamo visto sparare.

Crescendo il nostro ‘bravo’ cronista, assieme ad altri suoi compagni di merenda, si traveste da intellettuale. Sceglie altri giochi ed un’altra squadra per cui tifare, quella di Confindustria  Sicilia, capitanata da Antonello Montante, anche lui compare ed amico di noti mafiosi e verso il quale mostrò tutto il suo profondo affetto e la sua incommensurabile ammirazione e gratitudine, con  La volata di Calò. Un menzognero panegirico pubblicato per dimostrare che il buon sangue della famiglia Montante non mente. In esso le donne, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese dell’omonimo nonno di Calogero Antonello, diventano una saga leggendaria. Soprattutto quando il Camilleri parla di una sua folle corsa tra Serradifalco e Porto Empedocle, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, mentre sfidava una pioggia di bombe tedesche ed anglo americane, in sella ad una solidissima ed indistruttibile bicicletta Montante.

In realtà l’esistenza della fabbrica di biciclette del nonno di Montante è solo il frutto della fantasia mitologica di Camilleri e Savatteri. Come quando  gli scrittori latini decantavano, ad esempio, le origini divine di Giulio Cesare, facendolo diventare discendente di Iulo, figlio di  Enea che, a sua volta era figlio di Venere, dea della bellezza e dell’amore. Se Cesare segnò la fine del Senato, il tramonto della Repubblica romana e l’avvento del potere assoluto degli imperatori nell’antica Roma, Calogero Montante, detto Antonello, nipote di un inesistente costruttore di biciclette, dal 2007 sino al momento del suo arresto, diventa invece l’indiscusso ed indiscutibile imperatore di Sicilia.

In Italia bisogna sempre stare in bilico, dare un colpo alla botte ed una al cerchio per fare carriera e successo e, soprattutto sguazzare in mezzo a tante imposture.

Alla faccia di chi in passato, contrariamente alle odierne fiction all’acqua di rose, ci ha lasciato in eredità qualcosa di ben più consistente, basta pensare ad Elio Petri, Franco Rosi, Damiano Damiani, ad esempio.