Il Sud delle fiction: stereotipato, antimoderno, senza storia

Finito “Il commissario Montalbano”, ecco “Màkari”, ma è lo stesso. Così come, grosso modo, la stessa cosa paiono essere anche le varie Lolita Lobosco, Imma Tataranni e le altre fiction e molti film ambientati in un Sud che, visto in tv, è sempre uguale, ovunque ci si trovi, Matera come Ragusa, Bari come Trapani.

Le città paiono paesotti in cui tutti si conoscono, son tutti alla mano e feliciotti perché aiutati dal sole che non manca mai come anche le occasioni per stare a tavola, possibilmente all’aperto, meglio se accanto al mare. E però poi basta: non sembra esserci altro che valga la pena raccontare.

Persino i delitti, anche quelli più efferati, in questo radicale idillio mediterraneo quasi perdono di tragicità, riducendosi a semplice espediente incidentale attorno al quale far girare il racconto, quando non si caricano sino al melodrammatico poiché anche questo a volte chiede la prassi televisiva. Nulla di nuovo, in fondo: questo Mezzogiorno immaginario in cui si è felici di una felicità a volte un po’ stracciona, a volte spiccia o malinconica ma comunque semplice e senza troppi pensieri, recupera infatti uno stereotipo che è duro a morire.

Negli ultimi anni, però, su quel luogo comune si è andata innestando una fantasia che vuole il Sud sempre più un luogo dell’anima e della lentezza – per usare le parole vacue del marketing e della moda letteraria – ossia un luogo antimoderno nel quale si viene in cerca di momentanea redenzione dalla modernità o, comunque, da certe amarezze patite altrove.

Si tratta insomma della rappresentazione di un Sud come forse lo immagina chi ha bisogno di usarlo come semplice scenario ma non pare conoscerne davvero la storia e la cultura. E per questo sembra immaginarlo come una terra che pare buona perché ancora tutto sommato incorrotta dalla modernità. La Puglia e la Basilicata sembrano essere le vittime più frequentate da questa sorta di riscrittura antropologica, mentre alla Sicilia non viene negato un guizzo di consapevolezza di sé, ma senza esagerare.

Insomma, non siamo ancora fermi al mito del buon selvaggio ma pare intravvedersi un retaggio quasi coloniale nello sguardo di chi sembra immaginare che, per dire, la Sicilia sia nulla più che un eterno pranzo nella piazzetta di Marzamemi, o che la storia di Matera sia soltanto nella povertà estrema della vita comune di bestie e persone nelle grotte dei Sassi.

Manca la storia, come detto, ch’è ridotta a uno sfondo liscio sul quale è possibile appendere qualunque cosa, così che l’identità meridionale viene ridotta a pochi elementi, sempre gli stessi. E così alla fine diventa difficile distinguere, per dire, la Sicilia dalla Puglia. Non solo: questo racconto bidimensionale lascia tutto lo spazio che serve all’altro grande filone di questi anni, che è quello del racconto criminale. Quest’ultimo, però, per quanto abbia interessato anche Roma, è concentrato soprattutto su Napoli, della quale si offre spesso una rappresentazione espressionista se non addirittura caricaturale, quasi che quella città fosse una vittima da sacrificare affinché tutto il resto sia salvo.

Ora, queste fiction sono in genere davvero ben realizzate e si lasciano vedere. Ma, davvero, una rappresentazione del Sud che non conosca i colori di Verga o Pirandello, e che ignori del tutto persino Sciascia, non regge più. È arrivato il momento di restituire al Sud la propria complessità anche in questi prodotti così popolari, poiché questa idea un po’ paternalista e un po’ coloniale del Mezzogiorno lascia in bocca una certa amarezza e provoca uno sconcerto tale da mandare per aria persino quella sospensione dell’incredulità alla quale adesso, date le circostanze, avremmo bisogno di aggrapparci come mai prima d’ora.

 

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