La mafia di Castelvetrano e le strane distrazioni delle procure sui Messina Denaro
Sono tanti gli episodi che rimangono misteriosi sull’attività investigativa riguardante i Messina Denaro. Leggendo la storia vera e non quella depistata, molti dubbi affiorano. Loro, Don Ciccio Messina Denaro, e il figlio Matteo sono diventati forti non solo per la competizione vincente all’interno del sistema mafioso con l’appoggio dei corleonesi. Il loro potere si è rafforzato anche alle strane “distrazioni” investigative avvenute nel corso degli anni da parte di procure e poliziotti. Anche questo aspetto li ha resi più forti anche agli occhi degli stessi mafiosi e della gente locale. Già Don Ciccio Messina Denaro aveva goduto ampiamente di queste speciali concessioni giudiziarie. Don Ciccio viene inserito nelle pagine delle teche giudiziarie già nel 1957. L’accusa omicidio
Nel gennaio del 1990-come riporta l’AGI- Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. In quegli anni il vecchio boss girava tranquillamente per strade di Castelvetrano e incontrava con il figlio e il genero Filippo Guttadauro, politici, mafiosi e anche uomini d’affari. Il boss era pure diventato capo della mafia trapanese. Fu Lui a decidere chi doveva fare i lavori dell’area artigianale di Castelvetrano. Erano gli anni in cui ‘don Ciccio’ “usciva fuori dai radar giudiziari nonostante le condanne sul groppone e centinaia di pagine di informative. Aveva già previsto , dicendo di avere una brutta malattia, di mandare il figlio Matteo avanti , dopo aver eliminato un pericoloso concorrente al trono: Lillo Santangelo, ucciso qualche anno prima su suo preciso ordine. Il figlio Matteo doveva fare carriera e su sua delega, secondo quanto confermato da pentiti autorevoli e da sentenze , partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”. Una decisione che non va assolutamente sottovalutata. L’obiettivo era quello di diventare l’erede di Totò Riina. Diventare Re senza guerra e senza sangue non è possibile. Matteo doveva fare il grande passo. Le stragi erano un banco di prova importante Eppure, Don Ciccio ,era molto conosciuto sia dai mafiosi che dalle Forze dell’Ordine. Godeva pure di una specie di salvacondotto. Faceva quello che cazzo voleva e nessuno lo arrestava. Superficialità della magistratura del tempo o altro? Non lo sapremo mai. Tanto i magistrati non pagano mai per i loro errori e in Italia il depistaggio è eccellente. Si potrebbe aprire una scuola di formazione per esperti in depistaggio. Don Ciccio che aprì le porte ad Angelo Siino a Castelvetrano facendola diventare una capitale degli affari, nonostante tutto aveva dei principi che non si potevano toccare. A Castelvetrano niente pizzo e niente casino. Si oppose alle bombe al Parco di Selinunte. E’ chiaro il motivo: Selinunte non si doveva toccare perchè il traffico dei reperti archeologici per Lui, e per suoi amici era troppo interessante. Piccioli facili con i suoi amici che portavano le opere in giro per il mondo. Niente casino, perchè Don Ciccio , era una specie di sindaco parallelo. Se c’erano questioni di lottizzazioni edilizie o di gestione d’appalti di miliardi da dirimere , tutto finiva sul suo tavolo e le cose si sistemavano. E se qualcuno faceva lu spertu poteva finire ammazzato. Doveva proprio esagerare. Insomma ,per decenni ,Don Ciccio faceva e sfaceva e nessuno lo disturbava. Aveva amicizie in alto
Don Ciccio Messina Denaro aveva ucciso e rubato già dagli anni 50. In diversi articoli pubblicati dal 2018 sul nostro blog ne abbiamo parlato. Tra questi omicidi, anche l’eliminazione del Notaio Craparotta
Correva l’anno 1957 e a Castelvetrano viene ammazzato con la lupara un Notaio . Il Notaio Craparotta. Nell’agguato viene freddato anche un dipendente dello Stato. I Carabinieri arrestarono due medici e alcuni mafiosi. Don Ciccio venne ritenuto uno dei sicari del delitto Craparotta.
Nel 1962 fu protagonista del furto dell’Efebo dal comune di Castelvetrano. Da quella data Don Ciccio entra nel business dei reperti rubati. I Carabinieri del tempo , in molte relazioni investigative arenatesi nelle scrivanie dei tribunali , specificarono più volte ,la pericolosità del boss. I Messina Denaro e i loro complici hanno lucrato per decenni su Selinunte
Vincenzo Tusa fece trasferire molti reperti a Palermo per salvarli dalle mani mafiose della cosca di Castelvetrano e dai loro amici trafficanti d’arte
Angelo Siino lo spiega molto bene il ruolo di Don Ciccio
«Era Don Ciccio soprattutto che aveva questo hobby particolare, perché la sua carriera la iniziò proprio come tombarolo a Selinunte».
Così il collaboratore di giustizia Angelo Siino descriveva Francesco Messina Denaro, il padre del boss di Castelvetrano
LA CRESCITA DEL BOSS
«Il livello sociale dei Messina Denaro era infimo – spiegò ancora Siino ai magistrati durante una deposizione – in quanto suo padre (il nonno di Matteo Messina Denaro) era bidello, con tutto il rispetto per i signori bidelli, era un bidello particolare. Non è che era chissà che… Poi praticamente loro in una zona bellissima, che peraltro non era di loro proprietà, avevano trovato una serie di reperti archeologici. Questo posto era di proprietà dei D’Alì. C’era un firriato, una sorgente d’acqua calda e diverse grotte, dove mi dissero: “Qua quello che abbiamo trovato è stato veramente incredibile”».
Insomma tra i Messina Denaro e i reperti di Selinunte vi è sempre stata una “fortunata” relazione. E tale “truvutatura” culturale li avrebbe lanciati verso quelle relazioni che contano nei salotti buoni. La storia con le “bacareddi” inizia addirittura con il nonno di Matteo. Se magistrati del tempo e anche poliziotti , avessero seguito a pista dei reperti già da allora come pista mafiosa di rango, avrebbero evitato la crescita esponenziale dei Messina Denaro e del loro enorme potere Forse la loro lunga latitanza trovava la sua forza con questo genere d’affari. E’ strano che un uomo accusato e condannato di reati molto gravi non sia morto in galera. Invece Don Ciccio girava tranquillamente a Castelvetrano, almeno fino al 1993 quando diventa latitante, con molto ritardo, anche il figlio Matteo.
Un ruolo chiave , come già detto, Francesco Messina Denaro lo ha giocato anche nel furto dell’Efebo di Selinunte, la statuetta del V secolo a.C. ritrovata a fine ‘800 in una contrada di Castelvetrano, che per sei anni – tra il 1962 e il 1968 – sparì, prima di essere recuperata dalla polizia a Foligno dopo uno scontro a fuoco. «All’inizio della sua splendida carriera – racconta Siino – il Messina Denaro padre ebbe a trattare la questione del famoso Efebo selinuntino. E da quel momento in poi, loro capirono che il filone era redditizio, era molto importante, e da lì in poi si sono sempre occupati di reperti archeologici e di arte». Una passione trasmessa da padre in figlio e sublimata da Matteo Messina Denaro, grazie ai suoi contatti internazionali, «agganci romani e svizzeri», li chiama l’ex ministro degli Affari pubblici di Cosa Nostra. E non solo. Dei viaggi della primula rossa in Austria parlano i pentiti, a trovare «una bellissima ragazza austriaca», «ma ne aveva anche un paio di cecoslovacche – ricorda Siino -. Insomma, aveva un po’ di persone, andava spesso fuori Italia».
Anche Giovanni Brusca, braccio destro di Totò Riina e poi collaboratore di giustizia, parla dell’attenzione di Cosa Nostra per il mondo dell’archeologia nei primi anni ’90, anche come strumento di pressione sullo Stato italiano. «C’era la possibilità di potere fare uno scambio di materiale – ricostruisce Brusca ai magistrati – cioè dando queste opere d’arte in cambio di permessi, al ché io mi diedi aiuto per potere trovare di questo tipo di materiale. Mi rivolsi a Salvatore Riina e Matteo Messina Denaro. Io non ero competente in materia, mi affidavo a loro; in più Messina Denaro mi ha fatto incontrare una persona, credo che non sia uomo d’onore, però una persona molto vicina a lui».
È l’incontro che avviene nella gioielleria Geraci di Castelvetrano. A lungo gli inquirenti hanno ipotizzato che questo ospite – «uno che stava in Svizzera e aveva contatti con mezzo mondo» fosse amico stretto dei Messina Denaro . Sempre la stessa storia: reperti = potere. Un metodo che il vecchio boss aveva capito molto bene. La droga portava tanti soldi ma non il potere di avere relazioni con gente che conta . A gestire certi affari ci vogliono cristiani sperti e affidabili
Castelvetrano, secondo Siino, è stata una città dove è cresciuta la scuola di pensiero della “mafia raffinata e politicante” . Sempre secondo Siino a Castelvetrano, oltre ad essere una importante area per il traffico di reperti archeologici, che si snodava tra l’ltalia e la Svizzera era la sede dina specie di head quarter dove molti insospettabili venivano a contatto con la mafia dei piccioli attraverso le relazioni di Don Ciccio e successivamente del figlio. Con l’arrivo del boss Guttadauro questo contesto cresce. Una logica conseguenza della potenza dei Messina Denaro su quel territorio erano le conoscenze a tutto tondo : «Qualsiasi cosa c’era a Castelvetrano che potesse produrre un chicco di grano – chiosa Siino – loro ci mettevano subito le mani perche lo sapevano subito. Don Ciccio parlava con tanti ma si fidava di pochi. Aveva informatori dovunque». Siino si riferisce agli anni che portarono alle stragi e al periodo precedente al suo arresto. Quello che dice è molto importante per capire i Messina Denaro e il loro agire. L’errore fatto da certi inquirenti nel corso degli anni forse è stato proprio quello di paragonare la mafia dei Messina Denaro a quella dei corleonesi. Don Ciccio aveva capito che il potere vero non si ottiene con la lupara ma con l’arma del ricatto di chi ha potere dentro lo Stato. La lupara è roba antica.