La pista seguita da Borsellino su “mafia e Appalti” che passava dal sacco del Belice per un fiume di soldi e sangue

Il Sacco del Belice: storia di una ricostruzione gonfiata, costata molti miliardi e con tanti morti ammazzati nelle guerre tra mafiusi e pezzi delle istituzioni. 

Una storia quella del terremoto del Belice che annovera ancora tanti misteri e che ha costretto migliaia di cittadini a vivere nelle baracche per decenni mentre venivano bruciati miliardi delle vecchie lire in appalti ed espropri farlocchi

Foto tratta da “Belice c’è”

 

Nel gennaio del 1968 un forte terremoto sconvolge il Belice. Da quella data il Belice non fu più come prima. Una valle poco conosciuta anche dai giornalisti Rai, nel giro di pochi anni cambiò radicalmente la sua connotazione economica e sociale. Una popolazione dedita prevalentemente all’agricoltura e all’artigianato fu investita da una montagna di denaro pubblico che una classe dirigente , fortemente condizionata dalla mafia e dai potentati politici,  non seppe orientare verso una economia di mercato e futuribile. Appalti a go go e soldi facili, generarono l’arricchimento di pochi e l’illusione di tanti di poter diventare imprenditori. Una stagione economica che portò tanti morti e che fece crescere il malaffare in modo smisurato. Tante anche le vittime innocenti. Miliardi di lire che ficiru veniri la vista all’orvi

Una ricostruzione priva di senso e con fiumi di denaro spesi male e che hanno fatto arricchire politici, mafiosi , burocrati corrotti e tecnici compiacenti e che a distanza di anni non conosce i veri colpevoli di quel sacco pieno di soldi e di sangue. Tante inchieste e nessun condannato: Fu casuale che oltre 10 mila miliardi furono spesi , in 20 anni in un lembo sperduto d’Italia?  E’ ipotizzabile che sul Belice si intersecarono gli interessi di potentati economici,  di politici,  dei servizi segreti e della Mafia?  Di sicuro dopo tanti anni i veri colpevoli non sono tutti noti. Probabilmente non avremo mai la certezza matematica ma il sospetto rimane che molti depistaggi investigativi siano stati intuiti da Falcone e Borsellino quando cominciarono ad alzare la testa e a guardare quel ” terzo livello” di cui pure Buscetta aveva paura a parlare 

Tutto parte dal” Sacco del Belice” 

La ricostruzione  post terremoto parte fra ritardi e ingerenze mafiose. E nasce l’idea di fare di Gibellina una capitale dell’arte moderna. Peccato che, fra boulevard parigini e chiese in stile islamico, oggi  a Gibellina manca la cosa più importante : il lavoro. Stessa sorte per i comuni di Montevago, Poggioreale, Salaparuta e Santa Margherita. La ricostruzione di tanti comuni, l’autostrada, la diga Garcia, le infrastrutture primarie , c’era lavoro pure per i pensionati. Ovviamente in nero.

Il conto non tornava: una commissione parlamentare di inchiesta, fiumi di denunce, e alla fine 36 processi quasi tutti finiti tra amnistie, condoni e annullamenti della Cassazione; quasi sempre gli stessi pochi imputati, pochissime le condanne per falso, peculato, interesse privato. Quello che moltissimi giornalisti e osservatori internazionali hanno chiamato il “sacco del Belice” non ha responsabili politici, solo funzionari, tecnici o amministrativi imputati in quasi tutte le inchieste. Indagò anche Rocco Chinnici, il consigliere istruttore fatto saltare in aria dalla mafia, che volle vederci chiaro nella costruzione dell’asse dei Belice, una strada di collegamento tra il viadotto Rampinzeri di Partanna e l’autostrada.

Un’opera  che era costata una enormità, 6 miliardi di lire, più di un miliardo e 200 milioni a chilometro. Un’ inchiesta fu archiviata. Nel Belice il Governo aveva mandato, nei primi otto anni dopo il sisma, 350 miliardi di lire per ricostruire i comuni distrutti. Altri 30 furono affidati all’Ente di sviluppo agricolo. Nell’aprile 1976 aveva inoltre stanziato 3 10 miliardi per i centri terremotati. E il Cipe (il Comitato per la programmazione economica) poteva contare su 220 miliardi per realizzare industrie nella Sicilia occidentale. Il costruttore finito in prigione e i suoi compari erano accusati di aver lucrato alcune decine di miliardi. Dov’erano finiti gli altri soldi? Erano previste nei primi otto anni 14mila case: ne furono assegnate 300. Ne erano pronte altre che, però, o stavano crollando perché costruite su terreni franosi o erano invase dall’acqua.

La riedificazione della valle era guidata dal Ministero dei Lavori pubblici. Da febbraio a giugno 1968, in mezzo a mille difficoltà, il ministro in carica, il socialista Giacomo Mancini, mise in piedi l’apparato burocratico che doveva guidare la ricostruzione. A marzo nacque l’Ispettorato per le zone terremotate diretto dal socialista Aurelio Corona, al quale succedette Arrigo Fratelli reduce dal processo per la frana di Agrigento. Ex comunista, Fratelli si era poi iscritto al Psi. Siccome l’Ispettorato non funzionava, Mancini affidò tutto all’Ises. In una relazione della Corte dei conti dei 1969 si legge che l’istituto non poteva svolgere udattività propria di costruzione di alloggi, perché era un ente nato e costituito per progettare lavori da far eseguire agli altri. E l’ispettorato di Corona, con una convenzione, affidò all’Ises il compito di provvedere alla progettazione, all’appalto, alla direzione, all’assistenza e al collaudo dei lavori di ricostruzione. Mancini mise alla guida dell’istituto il socialista Baldo de Rossi. Un altro personaggio di primo piano dell’Ises era Dario Crocetta, democristiano, che fece parte del collegio dei revisori dei conti. Segretario di Emilio Colombo, Crocetta sarà coinvolto senza conseguenze in due grossi scandali: i fondi neri presso il Banco di Milano e i falsi danni di guerra. Dopo Baldo de Rossi, l’Ises fu affidato a Elio Capodaglio.

l’istituto era una vera e propria macchina da guerra. C’era un comitato di coordinamento per le indagini e gli studi sui centri terremotati; c’era un gruppo di consulenza degli studi, e ancora: un coordinamento operativo, una direzione degli studi, una direzione attività sociali, una direzione tecnica, un gruppo di collaboratori esterni. Per il piano territoriale di coordinamento funzionavano: un comitato di coordinamento, una segreteria e redazione dei piano, un ufficio analisi e progetti, un ufficio di coordinamento della progettazione dei singoli piani, sette gruppi di architetti e ingegneri che formavano i drappelli di progettazione delle opere infrastrutturali. E poi altri tecnici, almeno 300, per progetti, studi, interventi progettuali.

Con questo esercito l’Ises lavorò nel Belice fino al 1972, quando venne sciolto dopo le polemiche per le costruzioni selvagge di Agrigento. 1 progettisti dell’istituto si vantavano di aver fatto costruire le superstrade prima delle case. Ulses, con una dichiarazione, tentò di giustificare questa discutibile scelta: Ter la prima volta in Italia, la realizzazione di un piano globale ha consentito la costruzione in anticipo delle infrastrutture prima delle case, come negli esempi dei nuovi insediamenti inglesi e scandinavi”. Ma anche dopo tutto questo le case furono in parte costruite con grande ritardo.

Dopo Mancini arrivarono altri ministri: prima il socialista Salvatore Lauricella e poi i democristiani Mario Ferrari Aggradi, Lorenzo Natali e Antonio Gullotti. Dopo la chiusura dell’Ises, rimase l’Ispettorato. Le cose non andarono meglio.

A Gibellina le opere pubbliche per 3 miliardi furono affidate alla Saiseb. Il progetto non funzionava, la Saiseb chiedeva altri soldi e si arrivò a un costo di 7 miliardi. Le scuole, secondo un altro progetto, dovevano essere costruite in collina. Quando i lavori erano quasi finiti, qualcuno si accorse che l’acqua penetrava ovunque. Il sindaco Ludovico Corrao denunciò la ditta alla magistratura. Le scuole furono rifatte. Il terreno era un acquitrino nonostante fosse stato pagato un miliardo ai proprietari.

A Poggioreale l’impresa di Francesco Maniglia costruiva su un terreno franoso. Per tenere in piedi le opere furono necessari lavori di sostegno che costarono molti milioni. Un imprenditore, sparito dalla sua villa il giorno prima che i carabinieri lo andassero ad arrestare su mandato del sostituto procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone, si aggiudicò due appalti: uno di 5 miliardi iniziali portati a 10 e un altro a Sambuca di Sicilia per 2,2 miliardi saliti a 4. A Salemi furono spesi 23 miliardi per costruire alloggi sbancando una collina, quando invece era possibile costruirli tranquillamente su un terreno pianeggiante.

Sono soltanto alcuni dei tantissimi episodi che furono alla base dello scandalo del Belice. Dieci anni dopo il terremoto il tribunale di Palermo cominciò a riempirsi di gente. Il sostituto procuratore Francesco Scozzari apri una inchiesta su un fatto clamoroso: la falsificazione dei piani urbanistici dei quarto comprensorio della valle del Belice che comprendeva dieci comuni. Quando Scozzari sequestrò il piano redatto da cinque tecnici, si accorse che i documenti non erano quelli originali, bensi altri completamente falsificati. Dietro questo episodio la procura scoprì che si nascondeva una lotta accanita tra la Dc e il Psi e all’interno della stessa Dc, per impossessarsi del potere sull’intera regione. In un periodo in cui non si risparmiavano colpi micidiali, la falsificazione di importanti documenti sembrava un gioco da ragazzi quando c’erano in palio non soltanto lo scontro con un rivale ma anche una bella quantità di soldi.

Poi, o forse c’erano già prima, arrivarono i mafiosi. Al grido di “All’appalto! All’appalto!”, si buttarono a capofitto sui ricchi progetti di ricostruzione. Ne seguirono intrallazzi, ruberie e morti ammazzati.

Delitto misterioso fu quello che fece fuori, la mattina del 15 agosto 1980, Vito Lipari, sindaco democristiano di Castelvetrano. Secondo i suoi avversari, Lipari era al corrente della falsificazione del piano urbanistico del quarto comprensorio sul quale indagava Scozzari. Anzi, era l’unico che possedeva due copie del piano: quella vera e quella falsa. A quale scopo conservasse quei documenti nel cassetto chiuso a chiave della sua scrivania, è ancora un mistero. Le indagini sull’omicidio presero una svolta quando gli inquirenti dissero che ci poteva essere un collegamento tra l’agguato a Lipari e l’assassinio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, ucciso il 6 gennaio 1980. Era stato Mattarella, per primo, a decidere una revisione dei discussi piani di urbanizzazione

Il presidente Mattarella voleva scoprire chi aveva avuto interesse a falsificare i documenti. La magistratura accertò che il piano originale spari. e al suo posto circolava una versione rettificata che permetteva di costruire migliaia di alloggi laddove il piano aveva previsto verde a rispetto del parco archeologico e di alterare completamente i valori immobiliari dell’intero territorio sul quale stava scorrazzando la mafia degli appalti.

Nelle loro baracche i terremotati non si annoiavano. Ci rimasero per decenni. Assistettero a decine di omicidi, a centinaia di sparatorie, a migliaia di intimidazioni con lupara e tritolo. Fu coinvolto in questo sanguinoso raid mafioso attorno agli appalti anche un bambino di nove anni, il figlio di Rosario Napoli, proprietario di una cava a Roccamena. Per fare luce su questi episodi e sulla incredibile gestione della ricostruzione era stata istituita una commissione parlamentare d’inchiesta. Iniziò i lavori il 12 dicembre 1979 e dopo 41 sedute venne sciolta. La relazione conclusiva di 690 pagine fu consegnata ai presidenti di Camera e Senato. A leggerle, sembrava di sfogliare l’album dei misteri della valle del Belice. Gli interrogativi, posti appena due anni dopo il terremoto e riproposti anno dopo anno, restavano senza risposta.

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