La riforma della giustizia va avanti , fra ipocrisie, qualche timidezza e diversi mal di pancia

L’autore di questo articolo è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

La riforma della giustizia è sul tavolo del Governo e nei prossimi giorni dovrebbe conoscere il suo reale destino. Si tratta di una riforma essenziale non solo per l’erogazione dei fondi del PNRR, ma anche per la competitività e l’affidabilità del Paese.

Il testo della legge delega non è ancora disponibile, ma secondo le linee guida del PNRR la riforma dovrebbe snodarsi su cinque ambiti di intervento prioritari.

Il primo è l’ufficio del processo, che dovrebbe affiancare il giudice con un team qualificato per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio e nella redazione dei provvedimenti. Le sue modalità di attuazione dovrebbero consistere, essenzialmente, nel reclutamento temporaneo di personale qualificato. Non è chiaro che fine farà il personale quando saranno finiti i soldi del PNRR. In teoria i più meritevoli dovrebbero essere stabilizzati, sempre che ci siano i soldi per farlo.

Il secondo è la riforma del processo civile, che dovrebbe articolarsi sull’estensione degli strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie e sul miglioramento di efficienza del processo civile ordinario e delle procedure esecutive. Le misure indicate dal PNRR non sono rivoluzionarie, anzi escludono proprio “una modifica radicale dell’impianto del processo civile che provocherebbe, soprattutto nei primi anni, negative conseguenze per il necessario tempo di adattamento da parte degli operatori”. Quest’approccio è forse condivisibile, ma avrebbe potuto tenere conto del fatto che una delle ragioni principali della lentezza dei processi civili è l’interesse stesso degli operatori. Fra gli avvocati si usa dire scherzosamente “causa che pende, causa che rende” e i giudici hanno interesse ad assecondarli per alleggerire il proprio carico di lavoro.

Il terzo è la riforma della giustizia tributaria, che mira essenzialmente a ridurre il numero dei ricorsi in Cassazione e a farli decidere più speditamente. Speriamo che si voglia alludere alla necessità di migliorare la qualità dei giudizi delle commissioni tributarie, tenuto conto del fatto che le decisioni adottate dalla Corte di Cassazione comportano spesso l’annullamento di quanto è stato deciso nelle corti d’appello regionali.

Il quarto è la riforma del processo e del sistema sanzionatorio penale, in cui è indicata una serie di misure forse un po’ scontate o generiche. Fra queste ultime compaiono “eventuali iniziative concernenti la prescrizione del reato, inserite in una cornice razionalizzata e resa più efficiente, dove la prescrizione non rappresenti più l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente”. È evidente che questa formulazione è il frutto di un compromesso sul tema della prescrizione, sebbene l’eccessiva lunghezza dei processi sia dettata anche dall’interesse degli operatori ad avvalersene. C’è dunque un po’ di ipocrisia in chi la invoca per l’eccessiva durata dei processi, ben sapendo che è anche un suo effetto. Tant’è vero che, anche nella riforma del processo penale, come in quella del processo civile, non v’è traccia di misure volte a prevenire le tattiche dilatorie degli operatori, come se queste non fossero in alcun modo correlate con la prescrizione stessa.

Il quinto è la riforma dell’ordinamento giudiziario, finalizzata, da un lato, a migliorarne l’efficienza, d’altro lato, a “garantire un esercizio del governo autonomo della magistratura libero da condizionamenti esterni o da logiche non improntate al solo interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia”. Anche questo passaggio sembra dettato dalle recenti vicende del caso Palamara, che evidenziano la necessità di arginare l’influenza delle correnti e della politica, sia nella nomina dei dirigenti degli uffici, sia nell’elezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, sia nella politicizzazione di certe inchieste.

Gli interventi indicati dal PNRR sono generalmente condivisibili e di buon senso. Al tempo stesso non si può non notare l’assenza del grande “elefante in salotto” della giustizia, che è il problema da cui, a mio avviso, discendono tutti gli altri: l’incertezza del diritto che deriva dall’eccesso di discrezionalità nell’azione dei magistrati.

Statue of lady justice on bright background – Side view with cop

A dire il vero ci sarebbero un paio di misure che ne tengono conto.

La prima è la previsione di uno specifico dovere di disclosure negli arbitrati. Non è chiaro a quale tipo di diclosure si riferisca, ma se fosse quella dei processi angloamericani si tratterebbe di una vera svolta. In questo caso, infatti, le parti sarebbero tenute giocare a carte scoperte, diversamente da quanto prevedono le regole italiane. Si tratta di una differenza importante, che induce gli operatori a giocare più correttamente e, dunque, ad astenersi da liti strumentali o temerarie. Peccato che sia prevista solo per gli arbitrati, sempre che sia come la disclosure dei processi angloamericani. Nei processi italiani l’accesso alle informazioni continuerebbe invece a dipendere da un ordine del giudice, per giunta limitatamente a quelle specificamente indicate dalla parte che ha interesse ad accedervi.

La seconda è il rinvio pregiudiziale in Cassazione nei processi civili, che prevede il potere del giudice di merito di rivolgersi direttamente alla Corte di Cassazione per la risoluzione di una questione nuova di puro diritto e di particolare importanza, che presenti difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerose controversie. In questo caso la decisione del rinvio continuerebbe però a dipendere da una valutazione del giudice.

Si tratta comunque di tentativi timidi, che non sembrano cambiare l’impianto complessivo delle linee guida del PNRR, che prevedono espressamente che “il fattore tempo è al centro”. Tuttavia c’è una stretta correlazione fra lunghezza dei processi e le tattiche dilatorie degli operatori, che a loro volta sono alimentate da un sistema improntato all’incertezza e che favorisce il rinvio dei problemi, in attesa di un “saldo e stralcio”, di una prescrizione, di una “rottamazione” o dell’ennesimo condono.

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Qualcuno mi ha chiesto quali potrebbero essere i correttivi per rendere la riforma più funzionale alla prevedibilità delle decisioni, oltre che alla riduzione della durata dei processi (che peraltro, come si è detto, dipende anche dalla prevedibilità delle decisioni). La questione è ovviamente molto complessa e impone innanzitutto l’adozione di un modello capace di adattarsi in ragione dei risultati, tramite meccanismi d’interazione e iterazione fra la rilevazione degli errori e la correzione delle regole. Ne ho parlato nel mio libro sulla governance delle organizzazioni. Qualora si volesse trarne spunto occorrerebbe: (1) definire gli obiettivi della riforma, (2) sperimentare regole che appaiono idonee a realizzarli (3) eliminare le regole inutili, malfunzionanti o dannose, (4) correggere il tiro delle regole malfunzionanti ma potenzialmente utili, (5) ripetere il ciclo.

Quanto agli ambiti d’intervento, ci sarebbe da risolvere innanzitutto il problema delle cosiddette legal origins, cioè l’appartenenza del nostro Paese a un sistema di precedenti non vincolanti, come accade invece nei sistemi di common law. A volte la distinzione può essere formale, poiché anche nei sistemi di common law è consentito deviare dai precedenti attraverso la pratica del cosiddetto distinguishing. Tuttavia la vincolatività dei precedenti produce sempre due effetti positivi: il primo, di determinare un orientamento stabile per tutti i casi uguali, o comunque molto simili; il secondo, di rendere più urgente l’intervento del legislatore nei casi in cui il precedente è disfunzionale per la società e/o l’economia.

Forse il passaggio a un sistema di precedenti vincolanti in tutti i gradi di giudizio può sembrare velleitario, ma si potrebbe almeno farlo per le sentenze della Corte di Cassazione, che spesso si trova perfino costretta a dirimere i conflitti fra i suoi stessi precedenti. Nei gradi di giudizio più bassi si potrebbe poi consentire anche alle parti di accedere al rinvio pregiudiziale in Cassazione menzionato delle linee guide della riforma, soprattutto nei casi in cui non c’è un chiaro orientamento sulla materia del contendere.

Ci si potrebbe poi ispirare alle regole di procedura angloamericane funzionali alla maggiore trasparenza e correttezza degli operatori, fra cui non solo quelle sulla disclosure, ma anche quelle che consentono alle parti di raccogliere direttamente le deposizioni dei testi senza la partecipazione del giudice, fermo il rispetto del contraddittorio. Ma la trasparenza e la correttezza degli operatori si potrebbe rafforzare anche con la condanna a spese congrue – se non “punitive” – alla parte che abbia intentato o resistito a una causa in mala fede.

Un’ultima riflessione andrebbe poi fatta sulla responsabilità dei magistrati. Troppo spesso se ne discute invocando soluzioni di natura risarcitoria, che però rischiano di pregiudicarne l’autonomia di giudizio, soprattutto nelle vicende più rilevanti. Se un magistrato sbaglia, il problema non è solo il danno di chi ne subisce le conseguenze, ma anche e soprattutto il pregiudizio che si arreca all’affidabilità e alla credibilità della giustizia. Dunque, qualora ne risultasse compromessa l’imparzialità del giudice, più che discutere di soluzioni di natura risarcitoria ex post, occorrerebbe reagire in termini di prevenzione ex ante.

Sempre nell’ambito della magistratura occorrerebbe inoltre favorire il passaggio fra la professione di avvocato e quella di magistrato, e viceversa. Come peraltro avviene in molti altri ordinamenti. Il pregiudizio verso le cosiddette sliding doors fra il settore pubblico e quello privato è infatti negativo, perché non consente ai rappresentanti del settore pubblico di vivere i problemi dei privati, e viceversa. Sarebbe più utile condividere una cultura comune fra squadre diverse per favorire il risultato del gioco complessivo, che non può essere altro che il bene comune.