Come difendersi dal relativismo scientifico e da un Dio che gioca a dadi con l’universo

Come difendersi dal relativismo scientifico e da un Dio che gioca a
dadi con l’universo

di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile
osservatorio dati professioni e competenze Aidr

Dio non gioca a dadi con l’universo. Questa frase, scritta da Einstein
all’amico Niels Bohr, sintetizza molto bene la natura probabilistica
della meccanica quantistica, una teoria che mette in dubbio la natura
deterministica su cui si basa la fisica classica. La contrapposizione
tra le due teorie, nei primi anni del novecento, è stata molto forte.
Da una parte, a sostenere il principio della causa e dell’effetto,
c’erano nientepopodimeno che Galileo e Newton, dall’altra, a sostenere
il principio dell’azione e della “probabilità” che si verifichi una
certa conseguenza, c’erano dei giganti come Bohr, Schroedinger,
Heisenberg e Dirac. Einstein dubitava. Dubitava che la natura fosse
descritta in termini probabilistici ed espresse il suo dubbio
attraverso quella frase divenuta celebre. Dal suo canto, Bohr gli
rispose con un altro dubbio “relativistico”: Piantala di dire a Dio
come deve giocare!
Il dubbio è una caratteristica essenziale del pensiero filosofico e
scientifico. Hanno dubitato Aristotele, Socrate, Cartesio, Galileo,
Newton e Einstein, solo per citarne alcuni… Il dubbio, però, deve
avere origine da basi solide e non sempre questo accade. Il
relativismo scientifico nasce proprio dalla mancanza di un pensiero
critico e di una conoscenza approfondita di un certo argomento. Pochi
avrebbero il coraggio di mettere in dubbio la teoria della relatività,
molti, invece, hanno la presunzione di mettere in dubbio
l’interpretazione dei dati statistici. La differenza tra i due
comportamenti è abbastanza legittima e deriva in parte dalla profonda
diversità tra le teorie basate sul metodo scientifico deduttivo e
l’adozione di modelli induttivi empirici attraverso i quali vengono
descritti dei fenomeni (naturali, sociali, medici) attraverso la
raccolta dei dati e la loro interpretazione. Anzi, “le” loro
interpretazioni. Da una parte ci sono le previsioni teoriche, che
vengono verificate sperimentalmente e hanno due caratteristiche
fondamentali: si basano sulla matematica, l’unica scienza esatta (o
quasi) a disposizione dell’uomo, e sono riproducibili
sperimentalmente. Dall’altra parte ci sono la raccolta dei dati,
organizzata in maniera più o meno rigorosa, l’analisi e le conclusioni
a cui si giunge applicando uno o più modelli. Il metodo deduttivo
contro il metodo induttivo. Si potrebbe semplificare
“informaticamente” la questione, facendo ricorso alla differenza tra
la logica top-down e la logica bottom-up, ma è evidente che ci
troviamo di fronte a un problema ben più complesso. La logica
induttiva (bottom-up) alla base del processo di raccolta e di
produzione dei dati statistici, sebbene si basi su metodi scientifici,
ha delle fragilità intrinseche che nella logica deduttiva sono molto
meno accentuate. I dati statistici hanno bisogno di una chiave di
lettura, che spesso può essere diversa in base al modello adottato (e
spesso può essere sbagliata), la teoria scientifica, al contrario, “è”
una chiave di lettura che trova conferma nell’esperimento e nella
raccolta dei dati. È per questo che la lettura di un dato statistico
non è quasi mai univoca, ed è per questo che i dati e le statistiche
possono essere usati per mentire autorevolmente con (falso) rigore
scientifico. Difendersi dalle “statistiche taroccate” è molto
difficile, l’unico strumento efficace è rappresentato dal dubbio
cartesiano. Il dubbio insieme al razionalismo critico e alla capacità
di guardare un certo fenomeno da diverse prospettive rappresentano
degli ottimi strumenti per avvicinarsi alla verità. Queste due
caratteristiche, in un momento storico di profonda disgregazione
sociale e intellettuale, pieno di giornalisti saputelli e
pseudoscienziati televisivi che vendono facili certezze alla
popolazione (salvo poi smentirle a petto nudo sulle riviste di gossip,
sul red carpet o nei salotti dei talk show), sono, a volte a torto, a
volte a ragione, abbinate alla parola “complottismo” e a una tipologia
di persone ignoranti e inutilmente sospettose. Associare i ragionevoli
dubbi al complottismo è un’operazione distruttiva molto grave perché
permette di far passare una palese menzogna non contraddetta in una
rassicurante falsa verità. L’unica verità. Questa perdita totale di
razionalità è frutto di una decadente cultura scientifica collettiva,
ormai ridotta ai minimi termini, e di una diffusa “scienza delle
opinioni” attraverso la quale, chiunque, anche grazie a quei social
che “hanno dato voce agli imbecilli”, per dirlo con le parole di
Umberto Eco, può affermare qualsiasi teoria farlocca senza un vero e
proprio contraddittorio e senza il rischio di passare per una sana
gogna pubblica mediatica. La società del politicamente corretto vieta
categoricamente di dire apertamente a un idiota che è un idiota.
Galileo Galilei, Dante Alighieri e Magritte erano politicamente
scorretti. La scienza e l’arte sono politicamente scorrette. La vita è
politicamente scorretta. Bisognerebbe iniziare a farsene una ragione…
La domanda, a questo punto, potrebbe essere: “Quando un dubbio e
ragionevole?”.
La risposta si può trovare in un aneddoto scientifico di qualche anno fa.
Nel 1930, a Lipsia, di fronte alla Società tedesca di fisica, si
svolse una conferenza a cui partecipò Albert Einstein. Al termine del
suo intervento, “Albertone” si rivolse al pubblico per sollecitare
qualche domanda. Dall’ultima fila si alzò un ragazzo magrolino, con
due occhi vispi e un enorme ciuffo simile a quello di Cameron Diaz nel
film Tutti pazzi per Mary. Il ragazzo non conosceva bene la lingua
tedesca e con una certa aria di superiorità disse: “Quello che ha
detto il Professor Einstein non è stupido, ma la seconda equazione che
ha scritto non deriva dalla prima. Essa richiede, infatti, delle
ulteriori assunzioni che non sono state fatte e, inoltre, quel che è
peggio, non soddisfa un criterio di invarianza, come invece dovrebbe
essere”.
Ovviamente, l’atmosfera diventò subito gelida e surreale. C’era chi
sghignazzava, chi, indignato e incredulo, esprimeva il proprio
dissenso con cenni del capo e chi si chiedeva perché era stata data la
parola a uno studentello che puzzava ancora di latte e che aveva osato
mettere in dubbio le parole di Einstein. Per la maggioranza, quel
dubbio era illegittimo e non aveva senso. Einstein non faceva parte
della maggioranza. Cominciò ad accarezzare i suoi baffetti da
sparviero e ad osservare attentamente la lavagna. Dopo qualche minuto,
si rivolse alla platea e disse: “L’osservazione è perfettamente
corretta. Vi prego pertanto di dimenticare tutto quello che vi ho
detto quest’oggi”.
C’è da dire che il ragazzo disobbediente, in quel caso, non era
esattamente lo stereotipo dell’ignorante che “le scie chimiche…, il
5G…, il microchip…complotto!”, era Lev Davidovich Landau, quello
che, qualche anno più tardi, divenne il principale fisico teorico
dell’Unione Sovietica. In quel caso, il dubbio era più che legittimo e
il destinatario della critica era egli stesso un critico feroce nei
propri confronti, disponibile a prendere in considerazione
osservazioni che avrebbero potuto sia sostenere che confutare le sue
teorie. Si potrebbe dire che un dubbio diventa legittimo quando
dimostra l’errore e falsifica una teoria. L’atteggiamento di Einstein
nei confronti della scienza era basato su questa idea di dubbio e fu
alla base delle riflessioni che fece in seguito Karl Popper, il
filosofo del razionalismo critico, in merito alla critica e alla
falsificazione scientifica, ovvero all’atteggiamento antidogmatico che
non va alla ricerca di conferme ma di confutazioni. Popper criticò
ferocemente il metodo induttivo, obiettando che le leggi scientifiche
non vengono ricavate dall’osservazione ripetuta di puri fatti, ma sono
sempre precedute da un’intuizione sulla natura delle cose o da
un’ipotesi di lavoro palese o inconscia.In altre parole, Popper era un
ultrà del metodo deduttivo galileiano (sempre sia laudato), Einstein
era un po’ più equilibrato, ma pur sempre tifoso. Insomma, Popper era
un po’ come Tirzan in Eccezziunale veramente e Einstein come Oronzo
Canà nell’Allenatore nel pallone. Lo stesso Einstein scrisse queste
parole a proposito del metodo induttivo : L’immagine più semplice che
ci si può formare dell’origine di una scienza empirica è quella che si
basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati
in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che
li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è
possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a
configurare – in considerazione dell’insieme disponibile dei singoli
fatti – un sistema più o meno unitario, tale che la mente che guarda
le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo
potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo a
singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo
effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza
scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo.
Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche
idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare, dal
mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza, fatti i
quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni
legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della
caduta libera dei gravi senza l’idea preconcetta stando alla quale,
sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo, sono complicati
dall’azione della resistenza dell’aria, nondimeno noi consideriamo
cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo
sostanzialmente nullo.
I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono
avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella
dell’induzione. Una concezione intuitiva dell’essenziale di un grosso
complesso di cose porta il ricercatore alla proposta di un principio
ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di
assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze
in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal
principio, spesso attraverso sviluppi e calcoli noiosi,, vengono poi
messe a confronto con le esperienze e forniscono così un criterio per
la giustificazione del principio ammesso. Il principio (assiomi) e le
conseguenze formano insieme quella che si dice una “teoria”. Ogni
persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della
natura – per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la
termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l’elettrodinamica moderna,
ecc. – hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro
fondamento è di natura ipotetica.
A questo punto, è utile fermarsi con le noiose considerazioni di
carattere scientifico e soffermarsi su quanto è accaduto negli ultimi
due anni in merito alla gestione della pandemia. Con un’avvertenza: il
mio punto di vista è senz’altro influenzato dal pensiero scientifico
einsteiniano. In primo luogo, non c’è stato un dibattito scientifico
qualitativamente accettabile. Anzi, non c’è stato nessun dibattito. I
dubbi, anche i più legittimi, sono stati etichettati con due immagini
dispregiative e stupidamente discriminatorie: da una parte ci sono gli
intelligenti e dall’altra ci sono i cavernicoli “complottisti”. I
dati, anche quelli più evidenti, sono stati travisati e usati ad arte
per creare false narrazioni, spaccature e conflitti sociali. La
scienza è diventata un circo che non procede né per induzione né
tantomeno per deduzione: procede per contraddizioni, per fedi e per
opinioni da bar portate avanti dalle tifoserie. La scienza è diventata
una nuova religione salvifica che vende l’immortalità e un nuovo dio
in cui credere. Un dio che ha le sembianze dell’opinionista da
copertina e che riesce a convincere i suoi discepoli senza grosse
difficoltà, spesso mentendo palesemente (come del resto fanno tutte le
religioni). Giocando a dadi, per l’appunto, ma non nel senso
einsteiniano. Giocando a giocare sui numeri e sulle diverse
rappresentazioni della realtà. Giocando con le paure, con le parole,
con il pensiero unico e con decine di narrazioni contraddittorie che
non c’entrano nulla con la ragione e non c’entrano nulla nemmeno con
la religione. Peccato che, per qualcuno, non sia affatto vero che la
scienza, come la religione, non si possano discutere. La scienza si
discute eccome, perché soltanto attraverso il confronto socratico è
possibile arrivare a qualcosa che somigli alla verità. Si può arrivare
perfino a sostenere che “Dio è morto” e a discuterne civilmente. La
storia sarebbe stata diversa, se Einstein, quel giorno, avesse detto:
“Signor Landau, lei è un “complottista” e la mia equazione non si
discute”. Si potrebbe obiettare che le mie riflessioni riguardino un
ambito scientifico elitario e che fanno una subdola distinzione tra
scienze maggiori e scienze minori. Sono fermamente convinto che non
esistano scienze maggiori e scienze minori, esistono scienziati
maggiori e scienziati minori, ed esiste il “paradosso del relativismo
scientifico”, quello in cui gli scienziati maggiori sono aperti ai
dubbi e al dialogo e gli scienziati minori sono vanitosi, irascibili,
intolleranti alle critiche e ai confronti, con un ego spropositato e
inclini all’autocelebrazione. La scienza è una cosa seria che merita
di essere discussa e contraddetta, non merita certamente di essere
umiliata.