Di Nicola Morra, Presidente della Commissione Nazionale Antimafia.

Di Nicola Morra, Presidente della Commissione Nazionale Antimafia.

“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela”: queste parole di Falcone dicono tanto eppure sono state quasi sempre ignorate.

Noi siamo stati abituati a credere che il rapporto fra stato (volutamente minuscolo) e mafia dovesse essere necessariamente conflittuale, di scontro, una guerra appunto.

E questo modello interpretativo funzionava soprattutto dopo episodi cruenti, omicidi, autobombe, stragi. Ma la mafia è intelligente molto molto più di quanto si possa credere. È figlia di Ulisse e non di Achille verrebbe da dire. E così la strategia del cavallo di Troia è stata sempre preferita: piuttosto che arrivare allo scontro diretto, plateale, meglio infiltrare, incistare e poi colonizzare le organizzazioni complesse in cui si sviluppano società e stato moderni, arrivando ad ottenere il risultato sperato con il minimo sforzo e senza urtare la sensibilità dei sudditi/servi, al fine di evitare una presa di coscienza che potesse mettere a rischio l’accettazione e dunque la sopravvivenza di Cosa Nostra stessa.

Quando i corleonesi hanno imposto la strategia dello scontro aperto con lo stato, ricorrendo alle stragi, lo stato è stato sputtanato agli occhi dei cittadini, che non si sono più sentiti sudditi ed avevano iniziato a capire con il famoso “Fuori la mafia dallo stato” ripetuto più volte in occasione di funerali tragici, con ceffoni rivolti all’allora Presidente della Repubblica evitati dal “sacrificio” dell’allora Capo della Polizia che si immolò al posto di Scalfaro.

Perciò lo stato ha reagito, non potendo fare diversamente, ma con il dovuto “garbo”, in quanto non poteva distruggere un fondamento coessenziale di se stesso, se è vero com’è vero che dall’unità d’Italia vige la coesistenza di un sistema di poteri paralleli che non solo convivono, ma si rispettano e decidono spesso insieme, in barba al volere del popolo e della Carta Costituzionale.

Vi ricordate la mancata perquisizione del covo ove fu preso Riina? O la vicenda di Luigi Ilardo con la mancata cattura di Bernardo Provenzano? Per non parlare di come tutti gli investigatori che si sono avvicinati pericolosamente a Matteo Messina Denaro siano stati di fatto neutralizzati e spesso allontanati dall’attività d’indagine perché appunto troppo zelanti…

Così, con la compiacente complicità di settori ed ordinamenti dello stato, le mafie sopravvivono e proliferano, combattute da stuoli di professionisti dell’antimafia che sovente, magari inconsapevolmente, sono al servizio delle mafie, agevolando non solo la sopravvivenza delle stesse, ma addirittura i loro affari sporchi.

Per questo motivo il nostro paese sta vivendo un lungo, prolungato, declino, che sembra penalizzare soprattutto le forze meno corrotte, costrette alla capitolazione, sotto forma magari di emigrazione o di riduzione progressiva dello spazio pubblico, come nel durante del regime mussoliniano, in cui si diceva che la mafia fosse stata sconfitta, mentre si era solo meglio inabissata per continuare ad operare tranquillamente.

Di questo ragioneremo questa sera a Palermo grazie a due libri, con la presenza degli autori degli stessi – Marco Bova e Luca Palamara – senza che vi sia alcuna TV o giornalone ad interessarsi di ciò, perché il sistema non deve essere messo in discussione.

P.s.: anticipo le contestazioni a presenziare ad eventi con Luca Palamara: la conoscenza di Cosa Nostra fu enormemente agevolata ed arricchita dal contributo di conoscenze fornite dai primi pentiti, come Tommaso Buscetta o Francesco Marino Mannoia. Se vogliamo capire al meglio il sistema in cui tutti ci troviamo ad operare, magari dobbiamo conoscerlo anche attraverso il racconto – sempre da riscontrare e verificare – di chi in quel sistema ha avuto funzioni e ruoli importanti. Oggi tanti che stigmatizzano Palamara, ieri gli chiedevano favori e raccomandazioni, avendo avuto l’ipocrisia di fare condannare per comportamenti collettivi uno solo, un capro espiatorio anche un po’ ingenuotto…

Mentre qualcuno, con gelida raffinatezza gesuitica, si trova ben al calduccio delle stanze del potere.