È stato uno coi tatuaggi entrato a casa col machete», il folle racconto di Salvatore per spiegare l’omicidio dei genitori

Lui, però, l’aveva detto: «Voi due siete dei morti che camminano». Ma no, stavolta non c’è nemmeno il retrogusto agrodolce di una suggestione sciasciana. Qui, in una delle casupole popolari, tristi ma dignitose, di viale Rosario Livatino, semmai bisogna tornare alla radici arabe. E così la Regalpietra dei salinari e degli zolfatari assume più le sembianze di Rahal Maut, proprio il «villaggio morto» che i conquistatori trovarono in quest’ombelico di Sicilia dopo la peste.

Anche la follia, in fondo, è un morbo. Non contagioso. Ma che si respira, si combatte, si ’accetta; talvolta. In questo «duplice omicidio di un pazzo», come lo definiscono in Procura, la narrazione è di una semplicità devastante. Come la piantina di mandarini, sul pianerottolo, accanto alla porta d’ingresso coi sigilli dei carabinieri.
Salvatore Sedita ha ucciso il padre e la madre. Mentre stavano consumando il pranzo di Santa Lucia. Tre posti apparecchiati, due occupati e uno rimasto vuoto. «Mi hanno detto che era pronto da mangiare. Io mangio tanto, circa 300 grammi di pasta. Pratico la lotta thailandese oltre al rap». Aggiungi un assassino a tavola. Rossa di sangue e non di sugo del giorno di festa. Lui, 34 anni, tossicodipendente (passato dall’eroina al crack, la droga dei poveracci nell’era del Covid), con problemi psicologici. E ora, dopo il fermo dei carabinieri, è proprio su un lettino bianco d’ospedale. Dove tossicologi e strizzacervelli stanno usando i fendinebbia per diradare il caos nella sua mente. E violento. Lo sapevano tutti. «I servizi sociali – ammette il sindaco Vincenzo Maniglia – conoscevano questo caso, avevano attenzionato l’emergenza». Non grazie alla palla di vetro, né alla microspie dentro quella casa. Ma su segnalazione di mamma Rosa Sardo.