È la stampa bellezza!

Già, quella del film “L’ultima minaccia”, non quella reale, e comunque non quella italiana, fatte salve poche eccezioni.

Il famoso “Quarto Potere”, rimane tale solo nella fantasia degli ingenui e nella pratica quotidiana dei peracottari.

I primi, mossi da nobili ideali e pronti al sacrificio per amore della verità.

I rimanenti, più realisti, pronti a vendere i dolori del parto della propria madre, pur di guadagnarci su qualcosa o farsi amico il potente di turno.

È così che gira il mondo!

I “venditori”, hanno capito che il “Quarto Potere” in realtà è quello di chi esercita il mestiere più antico del mondo, al di fuori del letto.

Tra puttane da letto, e puttane d’intelletto, posso solo esprimere la massima stima per le prime, condannando moralmente (ma lo farei anche a livello giudiziario, se solo potessi) le ultime, che senza un minimo di ritegno offrono i loro “servigi” anche nei luoghi più sacri.

Il lettore, invece, finisce con il favorire la categoria dei peracottari, poichè spesso sono supportati da eminenti figure istituzionali.

Leggendo la Costituzione degli Stati Uniti, ci si accorge di come è necessario garantire alcune libertà.

Ciò negli U.S.A. avvenne con gli emendamenti.

Il Primo Emendamento, tra le quattro libertà costituzionali, indica la “Libertà di stampa”.

La libertà di stampa, essenziale per la democrazia, favorì la nascita del cosiddetto “Quarto Potere”, che permette oggi a giornalisti ed editori americani di essere critici persino nei confronti del Presidente degli Stati Uniti, senza timore di dover subire censure o dover affrontare procedimenti giudiziari.

Anche Donald J. Trump, durante il periodo della sua presidenza, ha dovuto fare i conti con quel “cane da guardia della democrazia” la cui libertà si fonda sul presupposto che la diffusione più ampia possibile di informazioni provenienti da fonti diverse sia una condizione essenziale perché una società sia veramente libera.

Detto questo, non voglio tediarvi oltre e arrivo al dunque.

Giorno 1 febbraio, così come riportato dalla stampa, Pietro Sansonetti, ex direttore del quotidiano Il Dubbio, e il giornalista Damiano Aliprandi sono stati condannati al pagamento di un’ammenda dal giudice del tribunale di Avezzano, per aver diffamato gli ex magistrati Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, che li avevano querelati per alcuni articoli incentrati sull’archiviazione dell’indagine mafia-appalti voluta da Giovanni Falcone, e che Paolo Borsellino avrebbe voluto fosse portata avanti prima che venisse ucciso anche lui da “Cosa nostra”.

Senza entrare nel merito della presunta innocenza o colpevolezza dei due giornalisti (anche perché non intendo subire ulteriori procedimenti penali oltre quelli per i quali sono già stato assolto), voglio soffermarmi sull’entità della pena.

I due giornalisti, difesi dagli avvocati Simona Giannetti e Fabio Trizzino, sono stati “condannati al pagamento di un’ammenda”, riportano i giornali, senza indicare il conquibus compreso di ammennicoli vari.

Vi starete chiedendo quanto può costare un articolo che altri possono ritenere diffamatorio.

La sentenza emessa dal giudice Camilla Cognetti, del tribunale di Avezzano, condanna Damiano Alipradi alla pena di euro 3.000 di multa e Sansonetti Pietro alla pena di euro 4.500.

A questi vanno aggiunte le spese processuali.

Condanna inoltre gli imputati in solido al risarcimento del danno in favore delle parti civili da liquidarsi in separato giudizio.

“Condanna in questa sede gli imputati, in solido, al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad euro 30.000 in favore di ciascuna delle suddette parti civili , nonché alle spese di costituzione e difesa da queste sostenute, che si liquidano in complessivi euro 12.400, oltre spese generali nella misura del 15%, iva e Cpa come per legge, ed euro 4.372,52 per spese di trasferta”.

Basta così?

No!

Condanna gli imputati in solido al pagamento a titolo di riparazione pecuniaria la somma di euro 4.000 in favore di ciascuna delle parti civili.

La provvisionale di 30.000 ciascuno per le parti civili, trova molti precedenti, come nel caso dello studente svizzero condannato a due anni e due mesi e a pagare una provvisionale di 29 mila euro per aver violentato una turista inglese 17enne.

C’è chi poi è più “fortunato”, e paga appena 15.000 di provvisionale, per aver stuprato una studentessa su un furgone.

Non ho voglia di stare a cercare altre sentenze, ne troverei centinaia, ma non mi va di guardare a un giornalista condannato (a prescindere che sia innocente o meno, questo lo stabiliranno i prossimi due gradi di giudizio) alla stregua di come guarderei uno stupratore.

Esiste una proporzione tra il reato e la pena?

Quando nel maggio 2015, venni invitato dal Jerusalem Press Club a partecipare alla Conferenza internazionale sulla libertà di stampa, ritenevo di vivere ancora in un paese nel quale un giornalista doveva temere soltanto le azioni di una certa fascia della società, l’ “Onorata Società”.

Oggi, mi rendo conto, che la minaccia più grave al mondo dell’informazione arriva da leggi – più volte condannate dalla Comunità Europea – che rischiano di mettere definitivamente il bavaglio alla stampa.

E’ necessario però, trovare i coraggio di andare avanti, come detto dall’avvocato Trizzino nel corso della sua arringa, “la conoscenza su quello che accadde a Paolo Borsellino in seno al suo ufficio definito nido di vipere, è paragonabile ad una slavina che niente e nessuno potrà fermare. Come dire: questa faticosa ma fondamentale ricerca della verità non potrà mai più essere fermata”.

Resta purtroppo l’amara considerazione di come sentenze di questo genere rappresentano un pericoloso deterrente a un giornalismo d’inchiesta del quale ormai in Italia si sta perdendo persino il ricordo.

Gian J. Morici