“Messina Denaro è molto grave, cella non è un ambulatorio”, l’allarme sul boss della nipote avvocato

Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano e ultima ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra arrestato lo scorso 16 gennaio dopo una latitanza trentennale, sta male, le sue condizioni di salute sono “molto gravi”.

Lo ha spiegato a Rainews24 l’avvocato Lorenza Guttadauro, legale e nipote del capomafia, attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila. Riguardo alla qualità delle cure, afferma di non sapere “se lo stiano curando bene, non credo che la cella possa essere paragonata a un ambulatorio medico“.

Lunedì Messina Denaro è stato interrogato due giorni fa dal procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, e dall’aggiunto Paolo Guido, il quale aveva detto di averlo visto “lucido, in buone condizioni, almeno apparentemente, considerando lo stato in cui si trova”.

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Matteo Messina Denaro, tutti viaggi del boss in Italia e all’estero durante la latitanza
Come ormai noto già da un anno prima dell’arresto compiuto dal Ros dei carabinieri presso la clinica ‘La Maddalena’ di Palermo, Messina Denaro era in cura proprio presso la struttura sanitaria dove svolgeva periodiche sedute di chemioterapia per un tumore al colon. Terapia che il boss sta continuando a seguire anche in carcere a L’Aquila, in un ambulatorio medico vicino alla sua cella.

Due giorni fa, come detto, vi è stato il primo interrogatorio del capomafia di Castelvetrano nel carcere dell’Aquila. Un colloquio durato poco più di un’ora in cui Messina Denaro ha risposto ad alcune domande alla presenza del suo legale, l’avvocato Lorenza Guttadauro.

L’interrogatorio a Messina Denaro, secondo quanto scrive l’Ansa, non è stato secretato. Il 19 gennaio, pochi giorni dopo la sua cattura, l’ex latitante avrebbe potuto comparire in video davanti ai giudici di Caltanissetta per la prima udienza del processo ai mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Tuttavia, il boss, aveva deciso di non partecipare, spingendo i giudici a posticipare al 9 marzo la prima udienza del suo processo.

Redazione

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Dalle mattanza in carcere al diploma e alla semilibertà, il racconto di Fakhri: “A Santa Maria 20 giorni di botte senza motivo”

Ha raccontato di essere stato accolto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello passato alle cronache per la mattanza del 6 aprile 2020 con ben 300 poliziotti protagonisti, con venti giorni di ‘botte‘ perché veniva dal penitenziario di Velletri dove c’erano state a inizio marzo rivolte che non lo videro però protagonista. E’ la testimonianza nell’ambito del processo che si sta celebrando nell’aula bunker annessa al carcere casertano di Fakhri Marouane, che ‘vanta’ il primato di essere stato probabilmente il primo detenuto punito “in modo esemplare” a Santa Maria Capua Vetere per le proteste anti-Covid che tra marzo e aprile 2023 scoppiarono un po’ in tutte le carceri italiane, facendo registrare anche dei morti.

Arrivano le prime richieste di condanna per gli agenti di polizia penitenziaria imputati nel processo relativo all’orribile mattanza immortalata dalle telecamere presenti nel carcere casertano. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiesto sei anni di reclusione per l’agente Angelo Di Costanzo e tre anni e otto mesi per l’agente Vittorio Vinciguerra, imputati per i reati di lesioni, abuso di autorità e tortura; per Vinciguerra la tortura è stata contestata in relazione ad un episodio avvenuto il 10 marzo 2020, ovvero quasi un mese prima dei pestaggi.

I due agenti sono stati gli unici a scegliere il rito abbreviato (che comporta uno sconto di pena in caso di condanna ma non consente l’acquisizione di nuove prove). Gli altri 105 imputati tra agenti, funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e medici dell’Asl hanno invece scelto il rito ordinario nel processo la cui prossima udienza è fissata per l’8 marzo. Contro i due agenti si sono costituite come parti civili decine di detenuti vittime dei pestaggi; e come nel processo ordinario, anche per questo abbreviato il Ministero di Grazia e Giustizia compare nella doppia veste di parte civile, legittimato dunque a chiedere un risarcimento ai due agenti, e di responsabile civile, che in teoria potrebbe essere chiamato a risarcire alle altre parti civili i danni nel caso in cui i due poliziotti, suoi dipendenti, non avessero le risorse per pagare dopo l’eventuale condanna.

Fakhri, difeso dall’avvocato Luca Marziale, oggi ha 30 anni e dopo il trasferimento nel carcere di Pescara ha fatto un percorso rieducativo diplomandosi e ottenendo la semilibertà. All’epoca però era considerato un violento dai poliziotti sammaritani che, stando al suo racconto riportato dall’agenzia Ansa, gli riservarono un comitato di benvenuto tutt’altro che pacifico. Violenze che ha riferito di aver subito dal 10 marzo al 6 aprile. Al giudice per l’udienza preliminare Pasquale D’Angelo ha raccontato di essere stato pestato per venti giorni, fino al sei aprile, quando finì nella mattanza e lo si vede dalle immagini delle telecamere interne mentre viene fatto inginocchiare e picchiato.

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Kadyrov a Zelensky: “Fai come Hitler” e mostra la pistola “con cui il Führer si tolse la vita”

Il signore della guerra ceceno Kadyrov ha affermato di possedere l’arma con cui Hitler si è suicidato. In un video Kadyrov, che fa fatica a estrarre l’arma dalla fondina, dice di averla portata per metterla in mostra, poiché si tratta di “la pistola con cui Hitler si è sparato”. Il video è diventato virale e non pochi utenti hanno deriso Kadyrov che mostrava con orgoglio la pistola “trofeo”.

Kadyrov ha poi detto alla presentatrice russa Olga Skabejeva che vorrebbe che il presidente ucraino Volodymyr Zelenksy “si spari” e segua l’esempio del Führer. L’intervista è andata in onda sul canale di stato Rossija 1 la sera del 13 febbraio e ha scatenato una polemica in Russia, che ancora prosegue oggi sui social. La giornalista gli ha chiesto cosa significa per lui “vittoria” in Ucraina, se è necessario schiacciare fisicamente la leadership a Kiev. Kadyrov ha risposto che non c’è mai stato l’ordine di eliminare fisicamente Zelensky, ma che secondo lui il presidente ucraino dovrebbe fare come Hitler. “Hitler ha capito, si è sparato. Ho una pistola che intendo dare a Zelensky. È un trofeo, è vero. Confido che sarebbe in grado di farlo con un colpo solo. Sarebbe un passo degno: ha ucciso il suo popolo”.

È estremamente improbabile che l’arma nelle mani di Kadyrov sia mai appartenuta al Führer, e ancora più improbabile che si sia sparato con essa. Il mistero sulla morte di Hitler nasce dal fatto che nessuno sa davvero con quale pistola si sia suicidato: ciò che si sa è che era una Walther PP o Walther PPK da 7,65 mm. La pistola che Kadyrov tiene in mano ricorda davvero una Walther, ma l’arma è stata prodotta in serie dal 1929 al 1945. Era in servizio con la polizia, da qui il suo nome (PP – Polizeipistole, PPK – Polizeipistole Kriminalmodell), e può ancora oggi essere acquistata per un prezzo compreso tra gli 800 e i 2mila dollari. Queste pistole erano molto apprezzate anche dagli ufficiali tedeschi, compresi quelli di rango più alto che l’avevano in dotazione.

Anche Adolf Hitler aveva una Walther PP che gli venne regalata per il suo 50esimo compleanno. Ma quella particolare pistola è ben nota, poiché è ricoperta di dorature, ha il manico in avorio e il monogramma AH. La provenienza della pistola che tiene in mano Kadyrov è invece sconosciuta. Secondo alcune fonti, Hitler si sbarazzò della Walther regalatagli molto prima di morire, donandola all’asso della Luftwaffe Werner Mölders per aver abbattuto 101 aerei da guerra. Altri sostengono che il leader nazista avesse ancora l’arma nel 1945, ma in un appartamento di Monaco piuttosto che nel Führerbunker dove poi si è tolto la vita.

Nonostante queste contraddizioni, la Walther dorata è considerata dagli esperti l’arma che più probabilmente il Führer abbia scelto per suicidarsi, ed è stata anche ritratta nella famosa serie di fotografie del fotografo americano Tyler Shields. È comunque impossibile scoprire con certezza quale sia poiché nessuno aveva i numeri di serie delle armi personali del Führer e di Eva Braun, e nelle memorie di coloro che arrivarono per la prima volta nel Führerbunker fin sulla scena del suicidio di Hitler e dei suoi la moglie non riportano la presenza pistola.

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Geppino Silvestri, il maestro mito della boxe napoletana: l’epopea della Fulgor e l’eredità minacciata di sgombero

Era l’oro di Napoli, l’oro di Poggioreale quello che attraversava la città in una limousine bianca decappottabile che aveva fornito il Comune. Estate del 1980: Patrizio Oliva medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca, le strade un plebiscito di applausi e fiori fino a via Stadera, dove il campione di boxe era nato e dov’era stato montato un palchetto sul quale il pugile prese la sua medaglia e la mise intorno al collo di Geppino Silvestri, il suo maestro. Quello apparteneva anche a una storia cominciata quasi trent’anni prima, in uno scantinato, un santuario del pugilato umido e infestato dai topi, alla passione di un solo uomo, alla scuola di cazzotti che aveva forgiato campioni come Cotena e Todisco, De Leva e Di Iorio, Raininger e Bottiglieri, Picardi e lo stesso Oliva.

Era il 16 febbraio 1953 quando veniva aperta la palestra Fulgor, a via Roma 418, a due passi da piazza Dante. Ci sarebbe stato un prima e un dopo la Fulgor: un prima e un dopo quel luogo diventato emblematico, il sogno di un maestro iconico, un omone dalle lenti fumé, ex pugile, la sigaretta appesa alle labbra, stentoreo e sorridente, capace di essere duro ma anche affettuoso. Se non tutte, quasi tutte le strade del pugilato napoletano avrebbero incrociato quello scantinato nel centro della città che ha lasciato un’eredità palpabile ancora oggi. Patrimonio però in pericolo: la minaccia riguarda la Napoliboxe di Lino Silvestri, figlio di Geppino, anche lui maestro di pugilato.

Chi era Geppino Silvestri
Quando vide tornare il figlio a casa con la faccia pesta, l’occhio nero, la madre disse che era arrivato il momento che quella storia finisse. Giuseppe detto Geppino, classe 1926 nato in via Salvator Rosa, 19 incontri in tutto: 16 vittorie, un pari e due sconfitte. Smise per preparare la licenza al classico, dopo qualche anno tornò da secondo. Quella malatìa della boxe gliel’aveva trasmessa il padre, Pasquale, originario del Cavone, marinaio durante la Prima Guerra Mondiale, barbiere in tempi di pace. Agiata invece la provenienza della madre: famiglia di costruttori, i Tucci. Geppino entrò in palestra sì per passione ma anche per dimagrire. I primi pugni nel ’42, alla Libertas con il maestro Gigino Roio, ex peso mosca.

A quei tempi boxe voleva dire ring e sacchi sistemati alla meglio tra chiese sconsacrate e palazzi mezzi diroccati dai bombardamenti, incontri organizzati sulle portaerei degli americani al largo del Molo Beverello, stecche di sigarette e pezzi di cioccolata in palio, ring abbandonati alla città dopo la guerra. La Libertas era sistemata alla meglio nel teatrino della chiesa della Salute. Erano i tempi di Michele “Michelone” Palermo, “The Kid” da San Marco Evangelista, peso welter campione d’Italia e d’Europa e di Joe Louis e Max Baer arruolati che facevano footing sui binari della Cumana a Pozzuoli. Non si capì mai come, non si capì mai dove, Silvestri aveva imparato l’inglese e cominciò a essere arruolato per fare da interprete: gli americani lo venivano a prendere in jeep e lo portavano dove serviva. Guadagnava qualcosa.

Gli studi in Giurisprudenza, l’assunzione all’Atan, la passione per il greco e il latino, l’esame da tecnico a Roma con Steve Klaus e Natalino Rea: primo.

L’apertura della Fulgor
Silvestri voleva riaprire la Libertas, chiusa per mancanza di locali. Ci provò prima in una chiesa sconsacrata a Materdei, poi al quinto piano di un palazzo al corso Umberto I, quindi a piazza Cavour sotto il nome di “Accademia Pugilistica Napoletana”. Sistemazioni tutte provvisorie, niente da fare. “Avevo conosciuto il capitano Sandro Perotti, un grande invalido cui mancavano tutti e due i piedi, perduti in guerra – ha raccontato il maestro al giornalista Adriano Cisternino nel libro Le stelle del ring in Campania (Video Free International) – Aveva delle protesi e camminava con l’aiuto di un bastone, attrezzo che talvolta usava anche per risolvere alla svelta qualche controversia, visto che di carattere era piuttosto impulsivo. In quei tempi dettava legge l’Olimpia e, proprio per contrastare l’egemonia dell’Olimpia, io e Perotti fondammo la grande Fulgor, in via Roma 418, presidente Pompilio. Fu inaugurata domenica 15 febbraio 1953”.

Foto dalla sede storica della Fulgor (per gentile concessione di Lino Silvestri)
Quei locali erano stati dei ricoveri antiaerei, una quindicina di metri sotto il livello della strada, un’umidità spaventosa. I ragazzi venivano passati al setaccio del coraggio. “Se la prima volta che si facevano i guanti – ricorda il figlio Lino – dimostravi di avere paura, se abbassavi la testa o se chiudevi gli occhi, ti mandava a casa. ‘Guagliò nun me dicere niente, te ne puo’ ghij’. Non c’era chance, non esistevano gli amatori, solo agonisti e basta”. Qualche pugile, con la promessa dell’America, provò a soffiarglielo Lucky Luciano, spesso a bordo ring alle riunioni. A fine giornata, prima di chiudere la palestra, il rito del “veleno p’e’ zoccole”, da spolverare per la palestra per sterminare i topi di fogna.

Silvestri si aggirava tra i pugili, stava all’angolo pure, occhiali fondi di bottiglia, la sigaretta appesa alle labbra. “Mio padre preferiva la tecnica sopraffina alla volgare rissa – ricorda ancora il figlio – Cominciava a fare i guantoni alle tre meno un quarto del pomeriggio e finiva alle nove di sera, questo per anni. Parliamo di 70, 80 pugili. Mi ricordo che a volte a malapena entrava in casa: lasciava una borsa e ne prendeva un’altra, baciava mia madre e se ne andava”. Era quel tipo di maestro che spesso e volentieri faceva scivolare di nascosto, per non mettere in imbarazzo, qualche fettina di carne nella borsa di ragazzi in condizioni difficili. Centinaia di campioni, dilettanti e professionisti, sono usciti da quello scantinato.

“Quale fosse il segreto di quella palestra così poco accogliente, eppure così fertile – ragionava Cisternino nel suo libro – , è un argomento a lungo dibattuto nelle puntuali inchieste giornalistiche e tuttavia rimasto indecifrato. In molti hanno sostenuto che la ‘chiave’ principale del successo consistesse nell’estrema vicinanza con piazza Dante, punto di convergenza della gran parte di mezzi pubblici di Napoli e provincia. Sicuramente le capacità tecniche e umane di Geppino Silvestri hanno avuto un peso fondamentale in una realtà sociale spesso difficile e complessa”.

La fine della Fulgor
Il maestro non prendeva aerei. Ripeteva: “Pe’ ciel e pe’ mar nun ce stann’ tavern”. Si spostava soltanto in auto e in treno. Hombre vertical, tutto d’un pezzo, chi lo ricorda lo trovava anche un po’ psicologo, la famiglia sacrificata al pugilato che ti prende tutto e anche il resto, una personalità dagli abissali slanci emotivi. “Era a Porto Recanati con la Nazionale, con il pugile Mattia D’Angelo, in un bar. Quando cominciarono a suonare un pianino ebbe un attacco di nostalgia per la madre, ‘non mi dire niente, io me ne vado’, e così fece”. È andato vicinissimo a guidare gli Azzurri. Alle Olimpiadi ha portato quattro suoi diversi pugili: Cossia, Cotena, Todisco e Oliva; decine di campioni italiani; quattro i campioni d’Europa: Cotena, Oliva, De Leva, Raininger; un campione del mondo pro: Oliva. Il sodalizio con Rocco Agostino, l’amicizia con Enzo Tortora, l’Oscar al Pugilato.

Foto per gentile concessione di Lino Silvestri
Fino al 1987 la Fulgor sarebbe rimasta in quello scantinato. “Soltanto nel 1987, con un blitz notturno ed un’occupazione durata due giorni e due notti, la Fulgor riuscì a ottenere i locali del più volte promesso ex mercatino rionale di via Goethe, a due passi da piazza Municipio”, ricostruiva Cisternino. “Quel locale nel 1994 gli fu soffiato di mano, andò ad allenare a Ponticelli per qualche tempo e gli ultimi anni è venuto da me alla Napoliboxe, che ho aperto nel 2001”, racconta il figlio. Aveva 81 anni il maestro Geppino Silvestri quando è morto nel marzo del 2007. La Fulgor ha chiuso definitivamente nel 2019, non esiste più.

L’eredità di Geppino Silvestri
Non c’è forse metro migliore per misurare l’eredità di Geppino Silvestri che attraverso i suoi allievi diventati a loro volta maestri, a loro volta alla guida di palestre: Picardi a Casoria, Raffaele Cotena a Fuorigrotta, Guido De Novellis al Rione Traiano, Lucio Zurlo a Torre Annunziata, Gerardo Esposito oggi alla ProFighting, Bizzarro a Marcianise, Bottiglieri, De Leva, lo stesso Oliva alla Milleculure – e potremmo dimenticare qualcuno. “Era un grande – ricorda De Novellis – Avevo 17 anni quando sono entrato in palestra, in sei mesi sono diventato campione italiano novizio. Quello scantinato era squallido: così umido che all’inizio pensavo che qualcuno mi bagnasse i panni apposta. Il maestro riconosceva il pugile, capiva le caratteristiche di ognuno e in base a quelle allenava. Sento sempre una grande nostalgia della persona e la sua mancanza è enorme nel pugilato a Napoli”. Non ultimo, tra gli eredi, il figlio Lino. La sua Napoliboxe per anni è stata la prima della città secondo le classifiche della FPI (Federazione Pugilistica Italiana). “Dispiace dirlo, ma non mi è sempre piaciuto il comportamento di certi allievi di mio padre. C’è chi non è neanche venuto al funerale, chi lo ha combattuto dalla fine degli anni ’80. Perciò quando si è visto accoltellato da tutte le parti si è tirato fuori da tutto”.

Lino Silvestri è laureato in Scienze Motorie, specializzato in management dello Sport, Coach Iba e maestro benemerito. Ha aperto la Napoliboxe nel 2001, ai Ventaglieri, in un locale incastonato tra Montesanto e corso Vittorio Emanuele. Ha ricevuto nel 2021 la cintura della prestigiosa World Boxing Council (WBC) per l’impegno sportivo e sociale dimostrato nel corso degli anni. Non abbastanza, evidentemente. “Abbiamo ricevuto un avviso di sgombero dal Comune di Napoli – dice Silvestri – Stavo per inaugurare dopo che ho fatto gli ennesimi lavori di ammodernamento e ristrutturazione, mi sono dovuto fermare. Ho ottenuto i locali nel 2001, me li volevano dare in comodato d’uso, io rifiutai e proposi un canone agevolato. È scoppiato un contenzioso nel 2016, è arrivata la prima carta di sgombero e poi mi hanno lasciato in un limbo. Adesso mi chiedono in modo retroattivo quasi due milioni di euro. Aspetto la Commissione di trasparenza per lo sport. Chiaramente vogliamo trovare un accordo, ma che sia ragionevole altrimenti dobbiamo chiudere”.

Scriveva Geppino Silvestri su un quotidiano locale negli anni Cinquanta sulla situazione della boxe in città: “Se c’è una crisi riguarda organizzatori, palestre ed insegnanti. I nostri pugili, infatti, non riescono a combattere a Napoli: manca addirittura un calendario pugilistico. Esiste un problema di palestre e di attrezzature. La nostra palestra che è considerata tra le prime dell’Italia centro-meridionale è uno scantinato angusto, freddo ed umido. Non parliamo poi delle attrezzature: basti pensare che molti ring sono pericolosissimi”. La Napoliboxe, come le palestre di pugilato in tutto il mondo, ha porte aperte ai ragazzi, li toglie dalla strada, ragazzi difficili e altri dai servizi sociali. Ha reso fruibili locali che non lo erano. Non è una fiction Rai. Oltre mezzo secolo dopo nessuno chiede una limousine al Comune.

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