La patata

Questo è un migrante di successo. Solanum tuberosum. La patata.
È arrivata ai primi del Seicento dal Sudamerica, il suo nome comune viene dal quechua, la lingua degli Inca. Insieme al suo compagno di viaggio, il pomodoro, ha rivoluzionato l’alimentazione in Europa e in Italia, salvando dalla carestia milioni di persone.
Entrambi, patata e pomodoro, ci hanno messo più di un secolo per entrare nell’uso comune. All’inizio sembravano stranezze esotiche, cose mai viste e mai mangiate, forse pericolose, forse velenose. Nessuno le voleva mangiare.
Molte fonti sostengono che fu Federico il Grande, re di Prussia, a metà del Settecento, a sdoganare definitivamente la patata. Con un espediente geniale. Cominciò a coltivare patate nell’orto reale e mise guardie armate a proteggerle, così tutti cominciarono a pensare che le patate fossero preziose, un cibo da re. Di notte andavano a rubarle e impararono a mangiarle e a piantarle.

Gli agrumi invece sono arrivati dall’Asia. I romani conoscevano il cedro, il limone e l’arancio amaro, che è quello più antico. La coltivazione dell’arancio moderno, simbolo della Sicilia, viene introdotta in Europa dai portoghesi solo nel Millecinquecento. Il mandarino arriva in Italia solo nell’Ottocento.

Nei giorni scorsi ci sono state polemiche molto accese sulla cucina tradizionale italiana, sulla sua identità. Tradizione e Identità sono temi molto cari a questo governo. Come si addice a un governo nazionalista, intende battersi per l’italianità del cibo, della lingua, dei costumi, contrapposta a quelli che un progetto di legge di Fratelli d’Italia per la difesa della lingua chiama “forestierismi”. Forestiero è un termine che non sentivo da un bel pezzo. Significa: gente o roba che viene da fuori.

Eppure la patata, che fu forestiera per eccellenza, ormai è italianissima. E lo è perché l’identità e la tradizione, che sono cose importanti, mutano. Si evolvono. Si adattano. Si arricchiscono attraverso l’esperienza, la contaminazione, il cambiamento.

L’idea che l’identità, della cucina italiana come dell’Italia intera, sia qualcosa di definitivo, di cristallizzato, qualcosa che può addirittura essere stabilita per legge, non è neanche sbagliata. È insensata. È come voler mettere in un museo qualcosa di vivo. È come cercare di imbalsamare qualcosa che si muove.

Marcello Veneziani, un intellettuale di destra come ce ne sono pochi, purtroppo, dice che “la tradizione non è culto del passato, ma senso della continuità e gioia delle cose durevoli”. La definizione è bellissima. A patto che la si esponga, la gioia delle cose durevoli, al sole e al vento, la si faccia respirare, e non la si lasci ammuffire in fondo a un cassetto.

La cucina italiana, intesa come insieme di ricette, ingredienti, cultura del convivio, è una delle meraviglie del nostro Paese. Dobbiamo difenderla. Ma non la si difende trasformandola in un pezzo da museo. La si difende prima di tutto avendo cura – e questo è compito della politica – che i contadini non siano sfruttati, o derubati dalla grande distribuzione. Poi facendo attenzione a cosa mettiamo nel piatto, alla qualità degli ingredienti, alla quantità di chimica e di farmaci che rischiamo di ingoiare se non stiamo in guardia.

Io mi sento italianissimo anche quando mangio il sushi, con il quale non bevo il saké giapponese, ma Vermentino sardo, o Ribolla del Friuli. Contaminazione, appunto. La farina di insetti, criminalizzata dal governo come accadde, quattro secoli fa, alla patata, in sé non mi fa nessuna paura, è un cibo naturale quanto i gamberetti. Proteine disponibili in natura. Mi fa molta più paura avere paura dei forestieri, delle persone e delle cose che arrivano da fuori. È una paura sterile, gretta, poco vitale. Blocca lo stomaco, blocca l’appetito. Se Federico il Grande si presenta alle prossime elezioni, con la patata nel simbolo, io voto per lui.

  • Michele Serra