Mafia e antimafia: storia e attualità

Il celebre scrittore argentino Jorge Luis Borges, profondo conoscitore della Sicilia, amava ricordare che Palermo è una città senza memoria. Possiamo dire che un Paese che non sa da quale passato arrivi difficilmente è in grado di capire il presente e, quel che è peggio, rischia di non essere capace di progettare il proprio futuro. La narrazione che si è fatta della Sicilia, mediante la retorica risorgimentale, carica di ideali nobilissimi, di uomini geniali, di eroi senza macchia e senza paura è stata, forse, la visione di un mondo onirico, lontana dalla realtà, un comodo tappeto sotto il quale abbiamo nascosto le torbide vicende che hanno percorso la storia della nostra isola. Una realtà che ha le sue radici in quel passato fatto di un perverso intreccio tra malaffare, intrighi e malapolitica. Una situazione che ci fa meglio comprendere quello che è avvenuto in Sicilia nel luglio 1943 con lo sbarco degli Alleati. Un’operazione militare preparata e messa in atto grazie al contributo fondamentale delle famiglie mafiose siciliane e del loro collegamento con quelle americane.   Famiglie mafiose, quelle siciliane che contavano migliaia di affiliati e che proprio grazie allo sbarco alleato si espansero ovunque in Sicilia e assunsero, per dirla con Andrea Camilleri, la forma dell’acqua, che si adatta a tutte le situazioni. La mafia diventò in Sicilia, più che una semplice organizzazione criminale, un vero sistema di controllo sociale che estese la linea della palma dal Mediterraneo al Nord Italia, famosa metafora del grande scrittore siciliano Leonardo Sciascia.

Un’associazione per delinquere, non per un primordiale bisogno di sopravvivenza, bensì al fine di accumulare un immenso capitale mediante il delitto. La mafia stabilì una fitta rete di complicità, penetrando abilmente come lama nel burro nella politica, nelle istituzioni, nel tessuto economico, determinando nei settori cruciali una corrosione tendente alla disintegrazione della società civile.

In questo contesto dominato dalla violenza mafiosa i punti cardine furono l’intimidazione, il delitto, financo le stragi e come base l’omertà e la paura. La vecchia organizzazione feudale della mafia ebbe l’intermediazione del tristemente celebre boss siculo americano Lucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania, da Lercara Friddi, in provincia di Palermo. Luciano nel 1942 venne fatto uscire dal carcere statunitense dove era detenuto per i suoi orrendi delitti e, grazie ad accordi che gli avrebbero garantito l’impunità, inviato segretamente in Sicilia, a cura dei servizi segreti americani, per contattare i capimafia dell’isola affinché gli fornissero le mappe territoriali dello schieramento delle truppe italo-tedesche. Luciano mise in atto una sapiente operazione disfattistica e propagandistica per favorire lo sbarco. Come capo degli affari civili si insediò il famoso tenente colonnello italo-americano Charles Poletti. Questi pose a capo delle amministrazioni del 90% dei Comuni siciliani i più potenti capimafia dell’epoca, tra cui Calogero Vizzini e Genco Russo.

Ma è ancora una limitata organizzazione ristretta ai confini della Sicilia e poco oltre fino all’anno della svolta, il 1957. Proveniente dagli USA atterra a Ciampino il capo delle cinque famiglie di Cosa nostra newyorchese Joe Bonanno, detto Joe Banana. Originario di Castellammare del Golfo, località del Trapanese, Joe Bonanno è il mafioso a cui Mario Puzo si ispirò nel celebre film Il padrino. Bonanno con uno stuolo di altri famigerati boss venne accolto con tutti gli onori. Si recò a Palermo presso lo storico l’Hotel delle Palme, dove presiedette una convention di tre giorni per stabilire che la base arretrata, territoriale e criminale della mafia siciliana doveva adeguarsi al sistema gangsteristico imprenditoriale statunitense con l’introduzione del traffico degli stupefacenti.

Da quel momento, la piovra non è soltanto tra Palermo e New York ma diventa organizzazione criminale planetaria, con interessi che vanno dal traffico internazionale degli stupefacenti al controllo delle aree edificabili per la galoppante urbanizzazione: il famigerato ‘sacco di Palermo’, ma non solo. Un’attività criminale che estende il suo controllo all’esercizio delle attività imprenditoriali, alla gestione dei servizi pubblici e privati, al traffico di opere d’arte, a quello della sanità pubblica e privata, al gioco d’azzardo e alle scommesse on-line, alla prostituzione, allo sviluppo dei parchi eolici e fotovoltaici e a quello dei mercati delle derrate alimentari. Insomma, tutto ciò che è in odore di soldi e di business passa sotto il controllo mafioso. Un contesto malato che contamina anche la Chiesa. Col suo filisteo appello all’anticomunismo e con la guida di molte curie la Chiesa, in quegli anni, favorisce lo strabismo sul fenomeno mafioso. Bisogna aspettare papa Paolo Giovanni II e papa Francesco per il mutare delle cose.

A partire dall’immediato dopoguerra, i poteri criminali si consolidano anche grazie ai cosiddetti poteri occulti, primo fra tutti la massoneria, alla quale aderiscono i più potenti capimafia del calibro di Stefano Bontade, Totò Riina e Bernardo Provenzano. La massoneria diventa il ponte per raggiungere quella zona grigia in cui convergono istituzioni, apparati, imprenditoria, finanza e criminalità organizzata. Ne deriva un marcio che è la spia di una democrazia malata. Gli obiettivi hanno una velocità impressionante rispetto alle vecchie mafie sedentarie ormai del tutto superate.

Oggi ci troviamo di fronte a una sorta di multinazionale che operando nei settori più redditizi gestisce mercati e finanza. I capimafia modello corleonese adesso appartengono a un’altra epoca. I veri capi sono autentici manager che vivono nelle più floride agiatezze come normali uomini d’affari e hanno conquistato un ruolo sociale manifesto e rispettato.

Subito dopo le stragi degli anni Novanta (Falcone e Borsellino), l’immensa indignazione popolare diede vita a una straordinaria stagione di protesta civile, che, però, non fu in grado di capire questa evoluzione delle mafie e si limitò a inseguire, anche per via di depistaggi e di tradimenti a cura degli uomini delle istituzioni (magistrati e forze dell’ordine), pizzini, amanti, vivandieri, sparpagliando in maniera evanescente i semi di quella irripetibile stagione democratica. Oggi l’antimafia è più che sbiadita e ha perso quell’energia nata dal sacrificio di quanti sono caduti per essersi opposti al potere mafioso. Tante cose non hanno trovato spiegazione, infiniti processi sulla trattativa tra Stato e mafia per fermare le stragi, la mancata perquisizione del covo di Totò Riina all’indomani della sua cattura, i depistaggi di un falso pentito, Vincenzo Scarantino, autoaccusatosi della strage di via D’Amelio, in cui furono massacrati Paolo Borsellino e la sua scorta e a cui una magistratura a dir poco strabica ha dato credito. Una nebulosa da cui sono scaturiti processi che si sono rivelati dei clamorosi fallimenti.

Oggi c’è bisogno di una nuova antimafia che sappia comprendere quale sia il confine tra economia legale e criminale. Cosa nostra va considerata, così come è diventata, qualcosa di diverso rispetto al passato. Da quasi 150 anni la mafia ha fatto comodo a tanti, piuttosto che combatterla si è preferito accordarsi. Complicità e legami inconfessabili hanno dato luogo a sdegni moralistici quanto velleitari e saremo liberi soltanto quando potremo fare veramente i conti col nostro triste passato.

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