Kerkent”, il perchè della sentenza d’Appello

La Corte d’Appello di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza di secondo grado nell’ambito dell’inchiesta antimafia nell’Agrigentino “Kerkent”. I dettagli.

Il 13 febbraio scorso la Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Vittorio Anania, dopo oltre 8 ore di Camera di consiglio, ha emesso la sentenza di secondo grado nell’ambito dell’inchiesta antimafia “Kerkent” nell’Agrigentino: 19 condanne e un’assoluzione. L’indagine è stata sostenuta dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia agrigentina capitanata da Roberto Cilona, che ha sventato la presunta riorganizzazione della famiglia mafiosa di Agrigento. Le pene più severe sono state inflitte al presunto capoclan, Antonio Massimino, 52 anni, di Agrigento, 20 anni di reclusione. E 10 anni al figlio Gerlando Massimino, 32 anni, di Agrigento. Poi 16 anni e 1 mese a Francesco Vetrano, 35 anni, di Agrigento. Poi 12 anni e 10 mesi a Giuseppe Messina, 33 anni, di Agrigento. Poi 11 anni e 4 mesi ad Alessio Di Nolfo, 34 anni, di Agrigento. Ebbene, adesso la Corte del secondo grado di giudizio ha depositato le motivazioni per le quali sono state confermate, in parte riducendole, le condanne inflitte in primo grado in abbreviato. I giudici si sono soffermati in particolare sulle contestazioni di reato ad Antonio Massimino, e tra l’altro hanno scritto: “Ben due sentenze hanno accertato una perdurante partecipazione di Antonio Massimino al sodalizio mafioso quantomeno dal 1999 sino al 2004. E va osservato che Massimino, scontata la pena e tornato in libertà nel 2015, ha tenuto una condotta altamente sintomatica della propria permanenza all’interno del sodalizio. E’ dunque in questo quadro che vanno valutate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Quaranta, che ha distinto con precisione ciò che aveva appreso per cognizione diretta (tra cui i rapporti tra Massimino, Militello nonché quelli con l’anziano capomafia Lombardozzi) e ciò di cui era a conoscenza per voci correnti nel pubblico o per averlo appreso da notizie giornalistiche (come la dedizione di Massimino ad attività estorsive). 

Lombardozzi e Massimino

Quaranta collocava con assoluta precisione Massimino al vertice della consorteria mafiosa agrigentina e ciò per averlo appreso sia dalla sua viva voce: “Mi disse che, una volta scarcerato, si era preso Porto Empedocle, Villaseta ed Agrigento, mi disse decido tutto io”, sia da altri, fra cui Giuseppe Sicilia, pregiudicato mafioso favarese, che gli riferì come l’influenza di Massimino si estendeva anche alla città di Favara”. E poi la Corte d’Appello aggiunge: “E’ lo stesso Massimino ad ammettere i propri contatti con l’anziano capomafia Lombardozzi, e ciò nell’ambito di una conversazione intercettata con il sodale Giuseppe Messina nel dicembre 2015. Nell’occasione, in particolare, Antonio Massimino riferiva di essere stato chiamato da Lombardozzi che poneva il proprio veto sul coinvolgimento di Luca Siracusa nell’attività di spaccio: “Mi ha chiamato Lombardozzi.. quello mi ha chiamato e mi ha detto Antò… o lo fermi… oppure io fermo a lui…”. E nello stesso contesto Massimino riferiva di incontrare Lillo Lombardozzi quasi quotidianamente: “Lillo me lo ha detto a me… siccome io con lui mi ci vedo tutte le mattine… io tutte le mattine andavo al cimitero.. e nel mentre mi vedevo con chi mi dovevo vedere io… io so la tomba dove devo andare a trovarlo…”. E poi da altre intercettazioni emerge il ruolo di vertice di Antonio Massimino, e i giudici scrivono: “Di Nolfo, in particolare, riferiva che Lombardozzi aveva ceduto il proprio posto di capo a Massimino, e ciò in ben due occasioni, vale a dire sia nel corso del dialogo intercettato il 28 ottobre 2015 con la moglie, sia nel dialogo del 26 ottobre 2015 con un proprio conoscente, dialogo nel quale era specificato che tale investitura era stata effettuata da “Don Lillo” Lombardozzi perchè Massimino era un pericolo pubblico”. Lo stesso Massimino, nel corso del dialogo del 16 luglio 2015, intimava al proprio fidato collaboratore Eugenio Gibilaro di recarsi da Antonino Mangione per recuperare da lui un ingente credito derivante da una pregressa cessione di stupefacenti e, nell’occasione, si raccomandava di fare presente al debitore che la richiesta di pagamento era stata formulata dal “Papa Nuovo”, evidente riferimento alla sua recente investitura di capo della locale consorteria mafiosa.”

Teleacras Angelo Ruoppolo