Nel maggio del 2016 Giuseppe Antoci, grande amico dell’ex presidente della Commissione Nazionale Antimafia Beppe Lumia, allora presidente del Parco dei Nebrodi, era stato bersaglio di un attentato. A seguito di quel tragico evento diventò un eroe dell’antimafia, responsabile nazionale per la legalità del PD e promotore di una legge contro la mafia che porta il suo nome, si chiama infatti protocollo-Antoci. Oggi, tra un premio e l’altro, un’onorificenza e l’altra, compresa quella del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, fa il giramondo per spiegare, urbi et orbi, cos’è la mafia e come si fa a togliergli il terreno dove pascola. Peccato che non ha detto una sola parola sulle ormai numerose e pesantissime inchieste che riguardano i suoi amici, quelli che lo hanno sostenuto nelle sue battaglie; ci riferiamo ad esempio ad Antonello Montante od all’ex presidente della Regione, Rosario Crocetta.
Anche la vicenda dell’agguato di mafia ai danni dell’eroe e quasi martire Antoci è costellata da ulteriori episodi misteriosi. Il Tribunale di Messina ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta relativa allo spettacolare agguato mafioso, nel corso del quale l’auto blindata sulla quale viaggiava il super scortato Antoci era stata colpita da tre colpi di fucile nei boschi tra Cesarò e San Fratello. I sostituti procuratori Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Fabrizio Conte, sulla scorta di un’accurata perizia balistica nella richiesta di archiviazione, pienamente accolta, avevano scritto: “a sparare i tre colpi di fucile calibro 12 fu una sola persona con traiettoria dall’alto verso il basso. I pallettoni colpirono in basso lo sportello dell’auto su cui viaggiava il presidente del parco dei Nebrodi di ritorno da una cena” . I pm concludono che chi sparò non voleva uccidere ma solo frenare la corsa della macchina “avrebbe poi dovuto tirare due molotov contro l’auto per costringere Antoci ad uscire dall’auto ma l’ipotetico piano sarebbe stato mandato a monte dall’arrivo, dopo pochi istanti, dell’auto su cui viaggiava il vicequestore della polizia Antonio Manganaro, dirigente del commissariato di Sant’Agata e amico personale di Antoci che ha raccontato di aver sparato mettendo in fuga i killer”. Manganaro, che aveva passato la serata con Antoci nel paese di Cesarò, in diverse relazioni ha fatto i nomi di appartenenti alle cosche mafiose dei Nebrodi che aveva notato poche ore prima vicino ai luoghi in cui il presidente del Parco si trovava ma gli accertamenti nei loro confronti, così come le intercettazioni hanno dato esito negativo. I mafiosi al telefono non si sono mai traditi, anzi in un paio di conversazioni, sono stati ascoltati mentre si chiedevano chi potesse essere stato a sparare sull’auto di Antoci. A queste conclusioni dei magistrati messinesi bisogna aggiungere due altri episodi che sono una sorta di ulteriore tragico corollario, strettamente correlato col caso Antoci. Si tratta della morte dei poliziotti Rino Todaro, stroncato da una leucemia fulminante e Tiziano Granata, colpito da un infarto, deceduti tra l’1 ed il 2 marzo 2018, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Entrambi lavoravano nello stesso commissariato di Sant’Agata di Militello ed avevano indagato sulle agromafie nei Nebrodi.
“Se fosse uno scherzo del destino – sostiene il giornalista Paolo Borrometi – sarebbe drammatico.
Nel giro di due giorni sono morti due poliziotti straordinari, dal grande impegno umano e professionale e che hanno onorato la propria divisa.
Prima Tiziano Granata, poliziotto che era presente la notte dell’attentato al Presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, poi Rino Todaro, collega di Tiziano ed in forza al commissariato di Polizia di Sant’Agata Militello.
Tiziano, insieme al collega Rino Todaro, voleva sconfiggere la piaga della mafia dei Nebrodi. Esattamente come sosteneva Peppe Antoci e ed il loro dirigente, Daniele Manganaro.
Una coincidenza tragica, un’incredibile scherzo del destino, o c’è altro?” L’attentato ad Antoci, lo ribadiamo, fu sventato grazie all’arrivo dell’auto su cui c’era il vicequestore di polizia Antonio Manganaro, dirigente proprio di quel commissariato di Sant’Agata di Militello dove lavoravano i due poliziotti deceduti in circostanze misteriose. Senza voler fare dietrologia, ci sembra che nel Messinese più di qualcosa non va. Non sta a noi trarre delle conclusioni affrettate; e però qualche risposta in più qualcuno dovrebbe darla. A tingere ulteriormente di giallo l’intera storia ci ha pensato anche un ‘corvo’ che, un anno prima dell’improvvisa morte dei due poliziotti, aveva mandato un documento di sei pagine, non solo agli uffici giudiziari, ma anche al Ministero dell’Interno. Parecchie sono le perplessità sollevate in quell’esposto anonimo, relative alla gestione del commissariato di Sant’Agata di Militello che, a parere dell’anonimo, era diventata una sorta di succursale della corrente del PD che faceva capo all’ormai ex senatore Beppe Lumia. Non pochi sospetti venivano sollevati inoltre riguardo a modalità, armi e mezzi utilizzati per compiere quell’attentato. Gli unici due giornalisti che si sono interessati, in maniera asettica e molto approfondita dell’intera vicenda sono stati Francesco Viviano, sul settimanale L’Espresso del 19 marzo 2017 ed Enzo Basso, quattro giorni dopo, sul periodico di Messina Centonove. In quei servizi veniva dato spazio anche ad una ricostruzione di fatti e circostanze che sembrava uscita dalle stanze di un ufficio investigativo e che è stata seriamente presa in considerazione dai magistrati, che si sono fin qui occupati di tali intricate vicende. Si tratta di una versione diametralmente opposta rispetto a quella fin qui accreditata. Finora si è solo detto e scritto che il commissario Manganaro, assieme al poliziotto Tiziano Granata che, ricordiamolo, è stato fulminato da un infarto l’1 marzo di quest’anno, sono intervenuti in maniera casuale e provvidenziale, nella notte del 18 maggio 2016, salvando miracolosamente l’allora presidente del Parco dei Nebrodi. Prima lo misero al riparo dalle raffiche di arma da fuoco, sparate da una banda di mafiosi; poi lo fecero scendere dalla sua macchina blindata, che era stata sforacchiata da tre pallottole e lo fecero salire e scappare via su un altro mezzo. Riguardo al movente di quella che a tutti gli effetti potrebbe essere derubricata come una tentata strage, non ci sono state difficoltà a trovarlo. Esso era da ricercare nell’attività di contrasto alla mafia condotta dall’Antoci, che stava liberando migliaia di ettari di terre demaniali, su cui spadroneggiavano le cosche dei Nebrodi e grazie ai quali ottenevano anche ingenti finanziamenti pubblici.
E fin qui l’intera trama investigativa non faceva una grinza! Ma alla luce di due anni di indagini, compresa la prova del DNA, effettuata su 14 soggetti sospettati, nonché grazie a decine e decine di intercettazioni ambientali e telefoniche, gli investigatori hanno potuto sentire dalla viva voce di tutti quanti i boss ed i gregari dei Nebrodi, che l’intera organizzazione mafiosa era all’oscuro di tutto. Anzi, si stavano tutti quanti scervellando per capire chi era stato quel cane sciolto che aveva agito senza il loro permesso. Tutti quanti i mafiosi, o presunti tali, si sono messi a lavoro conducendo una loro indagine parallela, ovviamente attraverso metodi e modalità poco ortodosse. Ci tenevano a scoprire chi fossero gli autori di quell’attentato. Ed avevano tutto l’interesse ad acchiapparli e, paradossalmente, a consegnarli alla Giustizia. Perché non ne potevano più di subire perquisizioni, controlli asfissianti e continue retate! Tant’è che si chiedevano tutti quanti con ossessiva insistenza, ‘cu fuoru sti curnuti e piezzu di mer… ca ni misiru ni li guai!’ . Adesso che la pista mafiosa sembra vacillare, alla luce della recente archiviazione, vuoi vedere che forse c’entrano sempre i soliti servizi segreti deviati?
E’ forse la solita Storia semplice di sciasciana memoria, ma maledettamente complicata, i cui protagonisti amano depistare e creare dei sensazionali casi giudiziari e/o dei finti eroi?
E’ un’altra Double face? Un’altra spy story come quella che ha portato in carcere l’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante?
Come è noto anche il Montante era considerato, quasi unanimemente, un paladino della legalità, un eroe antimafia. Salvo a scoprire che è stato supportato per anni, nel compimento di una serie di presunte azioni delittuose, da alcuni infedeli servitori dello Stato, che ne hanno favorito una sua vertiginosa scalata al potere anche politico, oltre che economico. In tal modo egli poteva continuare, impunemente, a fare affari illeciti ed a condizionare anche lo svolgimento di qualsivoglia indagine a suo carico. Ma in questo caso, e non ci riferiamo in maniera esplicita al caso Antoci, c’è scappato il morto, anzi due morti sospette, su cui occorre immediatamente fare luce. Fino a qualche tempo fa sembrava che alla base di una lunga ed interminabile serie di atti intimidatori ed attentati ci fosse un’unica regia.
Anche nel Palermitano ne abbiamo visti di falsi eroi e gloriosi martiri, caduti nella polvere. Si pensi alla presidente della sezione per l’applicazione delle misure di prevenzione antimafia, il magistrato Silvana Saguto, adesso licenziata e sotto processo. E poi come non ricordare Roberto Helg, l’ex presidente della camera di commercio e vice presidente della GESAP, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, accreditatosi quale eroe antipizzo e che è stato pizzicato e condannato, paradossalmente proprio perché chiedeva ed otteneva il pizzo!
In materia di sospette intimidazioni strumentali, possiamo anche citare Vincenzo Liarda, sindacalista della CGIL e presidente del consorzio “Legalità e sviluppo”, di Polizzi Generosa.
Anche lui, sembrerebbe uno di quelli! Ha denunciato alle autorità giudiziarie di avere ricevuto una miriade di minacce, assieme al senatore Lumia che lo sosteneva a più non posso e che, per difenderlo, si lasciava anche andare in delle dichiarazioni di fuoco.
Vincenzo Liarda è adesso sotto processo perché avrebbe simulato delle false intimidazioni. «Almeno una delle lettere intimidatorie a lui indirizzate» se la sarebbe scritto lui con le sue mani, ‘di persona, personalmente’.
Salvatore Petrotto
DI FRANCESCO VIVIANO – Chi è stato? Anzi, per dirla con il dialetto usato dai mafiosi: «Cu fu?». E stavolta a voler scoprire l’identità dell’autore dell’attentato compiuto in provincia di Messina nel maggio dello scorso anno al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ci sono soltanto carabinieri e polizia. Ci sono anche uomini delle cosche di Cosa nostra.
Per raccontare la storia occorre fare un passo indietro. La notte del 18 maggio Antoci, dopo aver partecipato a un convegno antimafia, torna verso casa a bordo dell’automobile blindata con due poliziotti di scorta. La strada provinciale che collega i paesi dei Nebrodi Cesarò e San Fratello è bloccata da alcuni massi: la blindata si ferma e improvvisamente, stando al racconto dei protagonisti, qualcuno spara dei colpi di fucile. I pallettoni sfondano la lamiera nella parte bassa dello sportello posteriore dove Antoci è seduto. La scorta risponde al fuoco ma, nel frattempo, sopraggiunge casualmente un’altra automobile con a bordo il dirigente Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata di Militello e un altro agente. Sparano anche loro contro gli attentatori che sarebbero fuggiti in mezzo alla campagna, coperti dal buio della notte.
«Il mio capo scorta mi ha immediatamente preso e messo sotto il sedile, si è posto sopra di me, mentre continuavo a sentire gli spari» ha raccontato Antoci agli investigatori il giorno dopo l’agguato. «L’autista ha fermato l’auto, è sceso, ha aperto il fuoco e lo stesso ha fatto il mio capo scorta. Dietro eravamo seguiti dalla vettura del dottor Manganaro, che pur non essendo personale addetto alla mia scorta è arrivato, grazie a Dio, durante l’agguato. È così che sono stato salvato. Erano almeno 5 o 6, e avevano molotov da lanciare per scatenare un incendio nell’auto, costringerci a scendere e quindi ucciderci».
Una ricostruzione dei fatti che anche il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello e gli altri agenti ribadiscono. Loro, dopo aver ricevuto la gratitudine dello stesso Antoci, adesso sperano in una promozione. Ma non è detto che arrivi.
L’inchiesta si rivela subito difficile per le forze dell’ordine che sguinzagliano in tutte le direzioni i loro informatori. Ma da questi, a distanza di tanti mesi e nonostante il grande sforzo investigativo riversato sul territorio, non hanno avuto neanche una piccola traccia, un’ipotesi, un sospetto. Niente di niente. Neanche gli esami del dna dal sangue rilevato nel luogo dell’attentato, e che si presume possa appartenere a uno degli assalitori, hanno permesso di risalire all’identità di chi ha sparato e quindi al movente.
Le inchieste sulle cosche mafiose fanno però emergere un altro lato della vicenda. Perché oltre ai poliziotti e ai carabinieri, alla ricerca degli autori dell’agguato a quanto pare si siano messi pure i boss mafiosi dei clan messinesi e di quelli che agiscono sul territorio dei Nebrodi. Intercettazioni rivelano che gli uomini di Cosa nostra sono interessati a capire come si sono svolti i fatti e soprattutto a scoprire chi ha agito senza il loro permesso. E per questo svolgono indagini autonome e parallele a quelle degli investigatori delegati dall’autorità giudiziaria. I padrini sospettano che possa essere stato qualche “cane sciolto”. Ma, intanto, indagano.
L’incredibile interesse della mafia messinese per scoprire chi avrebbe sparato all’auto di Giuseppe Antoci è stato svelato da una decina di intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite dai carabinieri del Ros e dagli agenti della squadra mobile di Messina che indagano sulla mafia dei Nebrodi. Qualche giorno dopo l’agguato al presidente del parco dei Nebrodi i boss, parlando tra di loro, si chiedono insistentemente «cu fu» (chi è stato?). Da una cosca all’altra la domanda è sempre la stessa, ma anche la risposta: «Noi non siamo stati». E questo potrebbe rientrare nella tipicità del metodo mafioso. Ma qui sembra essere diverso l’atteggiamento dei boss.
«Potrebbero essere stati i catanesi?» chiede un intercettato al suo interlocutore, che risponde: «Ce l’avrebbero detto, quantomeno ci avrebbero avvertiti per evitarci ulteriori guai». Insomma, gli storici clan dei Bontempo-Scavo e le altre famiglie che in questi mesi hanno avuto tra le loro file decine di arresti non si danno pace. Anche loro brancolano nel buio e, se avessero avuto notizie, avrebbero fatto giustizia a modo loro oppure, come spesso la storia della mafia insegna, avrebbero segnalato in maniera anonima agli investigatori gli autori dell’attentato per allentare la pressione nei loro confronti.
L’unica segnalazione anonima che è arrivata fino ad ora è invece quella inviata a tre procure, Messina, Patti e Termini Imerese, al Ministero dell’Interno, al capo della Polizia e all’autorità Anticorruzione. Sono sette pagine piene di veleni scritte, secondo chi indaga, a più mani: non escluse quelle di qualche poliziotto e di qualche politico locale. La denuncia anonima adesso è al vaglio delle tre procure siciliane: vi si trovano accuse anche nei confronti di Manganaro. Secondo l’anonimo il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello sarebbe anche “vicino” a esponenti politici del Pd e ad alcuni personaggi dell’Antimafia come il senatore Giuseppe Lumia, eletto nella lista “il megafono” di Rosario Crocetta.
Ma torniamo alle intercettazioni tra i boss. Nelle loro conversazioni i mafiosi si lamentano dell’opera di Antoci che ha denunciato i lucrosi affari delle cosche. Queste avevano in concessione pascoli di migliaia di ettari nei Nebrodi, pagando cifre irrisorie per gli affitti dei terreni in cambio di milioni di euro di contributi regionali ed europei. I boss avrebbero quindi avuto motivi per toglierlo da quella posizione, pericolosa per i loro interessi. Ma negano, nelle intercettazioni, di aver preparato e attuato l’attentato. Di più, si lamentano di come quell’agguato abbia provocato ulteriori difficoltà ai loro affari: da allora l’attenzione degli investigatori su tutta la zona è aumentata parecchio. DA ESPRESSO.REPUBBLICA.IT
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